Dicembre 2003

Vento del Nord

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La lezione svedese
Ilaria Zaffino
 
 

 

 

Il decreto uscito dalle urne è uno schiaffo non solo al primo ministro svedese, ma anche
all’Europa,
che si vede
sbattere la porta in faccia.

 

Il no di Stoccolma ha deluso l’Europa. Ma la sconfitta dell’euro al referendum svedese lancia un importante monito a Bruxelles. «Ha vinto la paura» è stato il commento a caldo di Prodi, presidente della Commissione europea. Hanno prevalso l’orgoglio scandinavo, il timore di perdere il controllo della moneta e di non poter più decidere nulla. E, ancora, il terrore di un aumento generalizzato dei prezzi, di vedere infine il proprio welfare messo a repentaglio.
Le possibilità di vittoria erano scarse, è vero. Ma il fronte del sì ha sperato sino all’ultimo in una rimonta, confidando sull’effetto solidarietà sull’onda dell’omicidio del ministro degli Esteri Anna Lindh, pugnalata a morte mentre faceva la spesa in un grande magazzino a tre giorni dal voto.
Il gesto di un folle ha gettato il Paese nel panico. E la Svezia sotto choc ha affrontato gli ultimi giorni di una campagna referendaria che sin dall’inizio – da quando il primo ministro socialdemocratico Goran Persson a novembre 2002 aveva indetto la consultazione – dava il fronte del no in leggero vantaggio. Si confidava sulla grande mobilitazione del mondo politico, sull’alleanza che vedeva fianco a fianco esponenti socialdemocratici al governo con partiti dell’opposizione battersi per la moneta unica. Sull’appoggio non indifferente dato al grande progetto europeo da parte del mondo economico e del business. Altre volte la Svezia aveva cambiato orientamento in corsa, quando ormai sembrava non ci fosse più niente da fare. Come era accaduto – lo stesso Persson lo ricorda bene e lo ha portato più volte ad esempio per non perdersi d’animo ed esortare i suoi a non arrendersi anche dopo la proiezione dei primi exit poll – nel ‘94, quando si trattò di votare per entrare nell’Unione. Nessuno allora se lo sarebbe aspettato. Eppure, alla fine la Svezia disse sì all’Europa.

Ma, anche se il risultato uscito dalle urne svedesi è importante per tutti gli europei e avrà sicure ricadute sul futuro dell’Unione, è bene ricordare che ora le cose sono un poco diverse dal referendum del ‘94. Adesso, infatti, non è l’integrazione europea ad essere messa in discussione. La Svezia, ormai, la sua scelta l’ha fatta e non intende tornare indietro. Anzi. Con il tempo, infatti, gli svedesi saranno costretti ad accettare l’euro. E’ scritto nei trattati di adesione all’Unione e anche se formalmente non è stata ancora fissata la data – e l’esito del referendum non fa che rinviarla ulteriormente – prima o poi la moneta unica è una scelta obbligata. Non come Danimarca e Gran Bretagna – gli altri due Paesi rimasti fuori da Eurolandia – che ancora non hanno preso impegni e anzi guardano con sollievo il risultato svedese. E, se i danesi avevano già bocciato l’euro nel 2000, al contrario Tony Blair guardava con fiducia al voto di Stoccolma, nella speranza di poter indire un referendum in Gran Bretagna prima della fine del suo attuale mandato.
Il decreto uscito dalle urne, dunque, è uno schiaffo non solo al primo ministro svedese che, legando la sua immagine alla campagna per l’euro, ha rischiato così di perdere credibilità. Ma anche all’Europa, che al primo test da quando la moneta unica è stata adottata dai Dodici si vede sbattere la porta in faccia. Lo stesso Blair si trova ora costretto a rimandare a data da definirsi ogni possibile sogno di traghettare presto anche Londra all’interno del patto di stabilità e crescita fissato a Maastricht. Quel patto che – imposto allora dai Paesi più grandi ai piccoli per entrare nell’euro – ha finito col diventare uno dei motivi che hanno spinto la Svezia a tirarsi fuori dal progetto della moneta unica.
Sono la Germania e la Francia le maggiori responsabili del gran rifiuto svedese, si è sentito ripetere più volte all’indomani del referendum. I due Paesi, infatti, con un rapporto deficit-Pil che supera il 4 per cento, rischiano di sfiorare il limite del 3 per cento imposto dai parametri di Maastricht.
Né le cose vanno meglio per l’Italia. Tutti segnali di allarme non solo per i Paesi di Eurolandia, ma anche per i dieci nuovi membri che stanno per mettere piede nell’Unione, o per chi come appunto Svezia, Danimarca e Gran Bretagna non ha ancora abbandonato definitivamente il sogno della moneta unica.

I conti in rosso di Francia e Germania – ha denunciato Goran Persson all’indomani del voto – hanno frenato la corsa della Svezia verso l’euro. Troppo grosso il rischio per la fiorente economia svedese, che oggi tira molto di più di quella dei Paesi di Eurolandia. Troppa la paura di veder compromessa quell’immagine di “isola felice”, che solo l’assassinio del ministro degli Esteri ha messo in discussione. La Svezia, infatti, è il Paese con i più aperti capitalisti esistenti che ha realizzato il migliore dei socialismi possibili. Gli svedesi hanno il più basso tasso di analfabetismo, i bambini più sani e gli anziani più longevi. Da tempi lontani le battaglie per la parità hanno raggiunto i maggiori successi. Metà governo e metà Parlamento sono al femminile e questo si riflette sulla legislazione a tutela delle lavoratrici. Le neomamme possono restare a casa per 18 mesi all’80 per cento del salario. Gli asili nido sono tanti e gratuiti e le svedesi le donne che lavorano di più fuori casa. Tutti traguardi raggiunti da tempo, che vedono il Paese all’avanguardia in Europa.
Se a questo si aggiunge che non esiste nella politica svedese la tradizione federalista di alcuni Paesi del continente, né leader o intellettuali ispirati da Adenauer, De Gasperi, Schuman, Spinelli – i padri dell’Europa – non è poi così difficile capire le ragioni del no.
I nemici dell’euro temevano che la moneta unica avrebbe impedito alla Svezia di amministrare l’economia nazionale secondo le sue convenienze. Né volevano che la Bce decidesse per loro tassi di interesse e di inflazione. Perché affidare, infatti, il loro stato assistenziale al beneplacito di Bruxelles? D’altro canto, i fautori dell’euro sono consapevoli che questo è ormai una realtà. Gli investimenti internazionali, una volta terminata questa lunga fase di stagnazione, andranno infatti laddove la moneta unica offre maggiori garanzie. E la Svezia, restandone fuori, ferma ai margini di Eurolandia, rischia di perdere peso e influenza politica all’interno della Ue. Proprio quelle capacità d’influenza che il Paese aveva mostrato di possedere nel corso dell’ultima presidenza di turno dell’Unione, poco tempo fa. Rischia, infine, l’isolamento. Tanto più in un momento come questo in cui, con la Conferenza intergovernativa ancora in corso, aperta a Roma il 4 ottobre con il compito di stilare la nuova Costituzione dell’Unione, diventa essenziale mostrare di avere voce in capitolo. Soprattutto di fronte ai nuovi dieci membri dell’Est che stanno per unirsi e che, sebbene preoccupati dai deficit di Francia e Germania, si mostrano entusiasti di entrare a far parte, con il tempo, anche del progetto della moneta unica.
Un progetto che richiede loro, è vero, ancora degli anni. Molti di essi non potranno, infatti, adottare l’euro prima del 2009 o del 2010, perché sono ancora lontani dai parametri di Maastricht, ma non per questo meno entusiasti di mettere piede in Europa. Come dimostra l’enorme affluenza alle urne e il 67 per cento dei consensi con cui l’Estonia – seguita a ruota una settimana dopo dalla vicina Lettonia – ha detto sì all’Europa, lo stesso giorno in cui la Svezia bocciava la moneta unica. Un atto di fiducia, dunque, nei confronti dell’Unione, proprio mentre gli svedesi hanno scelto di rimanere abbracciati stretti alla loro identità: a quella combinazione di neutralità, terzomondismo e Stato assistenziale che non ha simili in Europa.
«La nostra gente pensa ci siano altri modi per essere in contatto con i Paesi europei – ha ammesso in un’intervista re Gustavo, in visita a fine ottobre in Italia, per inaugurare a Roma la mostra su Cristina di Svezia – attraverso la politica o l’economia. Alla base del voto ci sono vari motivi che rimandano alla nostra storia. La Svezia non è mai stata coinvolta in conflitti e guerre, quindi molti pensano se la possa cavare da sola. Noi siamo un Paese lontano e in fondo non ci sentiamo così tanto parte dell’Europa. Abbiamo un’economia forte e pensiamo di poter fare da soli». Parole dure, che arrivano a poco più di un mese dall’esito referendario dritte al cuore dell’Unione.
Di certo, la sconfitta alle urne brucia ancora alla leadership politica che si batte per l’Europa. Il rifiuto degli svedesi non sembra prestarsi ad equivoci. Una lezione dura, dunque, da accettare. «Non abbiamo spiegato alla gente tutti i vantaggi del sì. Non siamo riusciti a convincere gli svedesi che dall’ingresso nell’euro c’era solo da guadagnare, sia dal punto di vista economico che politico. Ora ci vorranno anni prima di riaprire il dibattito. I cittadini restano ancora troppo lontani dall’Unione». La stessa Margot Wallström, commissario europeo per l’Ambiente, una delle tre donne che compariva accanto ad Anna Lindh nei manifesti della campagna per l’euro che tappezzavano le città, ha ammesso gli errori.

Il risultato del referendum è ancora una volta il sintomo di uno scollamento esistente tra l’establishment politico ed economico e il resto della popolazione. Il segno di un diverso sentire nei riguardi del grande progetto europeo. Ma l’euro, come ha ricordato Jean Paul Fitoussi, è soltanto un capro espiatorio. Le vere colpe risiedono altrove. Il problema, infatti, oltre e ancor più che economico, è politico e psicologico.
La moneta unica ha provocato ovunque l’aumento dei prezzi, è vero. Ma la diffidenza verso l’euro – di cui il voto svedese può essere visto come la punta di un iceberg – ha origini politiche. Il vero problema della costruzione europea che la gente comune percepisce ogni giorno di più è proprio il deficit di democrazia. Le decisioni che riguardano i singoli Paesi vengono spesso prese altrove, a Bruxelles. Con processi che il cittadino medio fatica a capire. I governi nazionali devono adeguarsi alle regole europee, vissute come diktat. E quest’Europa, di cui molti ignorano i meccanismi, non ha certo una faccia simpatica: blocca le procedure, lega le mani ai governi nazionali, legittimamente eletti dai cittadini. L’uomo della strada non conosce i nomi né i volti dei commissari europei. Perciò di fronte ai no di Bruxelles sente irritazione. Ma la responsabilità di questa percezione è in gran parte degli stessi governi nazionali. E spetta a loro adesso darsi da fare, invece di lamentarsi e dare tutte le colpe all’Unione.
L’idea stessa di Europa è avvolta da un velo opaco, che la rende poco comprensibile e ancor meno appetibile ai cittadini. E’ questo il vero senso del voto scandinavo e della crescente disaffezione che serpeggia anche nei Paesi che aderiscono alla moneta unica.
La lezione svedese ha, dunque, molto da insegnare ai Paesi dell’Unione. Ai Dodici di Eurolandia che, in vista del prossimo allargamento, dovrebbero mostrarsi nel periodo che intercorre a partire da ora ancora più pronti a sanare i loro bilanci e rendere così l’Unione un luogo attraente in cui approdare per restare. Come agli altri due “non allineati”, in bilico se conservare la loro autonomia monetaria o lasciarsi attrarre dai vantaggi della valuta amica. Ma se l’orgoglio scandinavo ha finito col distruggere il sogno di Persson, e con questo l’illusione di Blair di ammorbidire le posizioni degli ancor più euroscettici inglesi, il primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen ha messo subito le cose in chiaro: «La corona danese è legata all’euro da anni, mentre quella svedese fluttua libera sui mercati. E quando i danesi decideranno di tornare a pronunciarsi sulla moneta unica, lo faranno senza tenere conto di quanto è accaduto in Svezia».
Sembra essere una promessa. Di certo così non la pensano tutti in Europa.

   
   
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