Dicembre 2003

Mercato e globalizzazione

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Lo sviluppo economico
dei Paesi in via di sviluppo
Vito Spada
 
 

 

 

Non è possibile
concepire
un mercato
globale senza
un diritto globale che garantisca
i diritti umani
e vigili contro
la soppressione
della concorrenza.

 

Le interconnessioni tra etica, politica ed economia sono oggi importanti per interpretare i complessi fenomeni della società contemporanea e in particolare quello della globalizzazione che procede di fatto con la diffusione dell’economia di mercato. Sono proprio questi temi che sollecitano ulteriori riflessioni sulla distribuzione delle risorse e sull’ordinato sviluppo dell’economia mondiale e quello delle persone. La possibilità di stabilire il processo produttivo in qualsiasi area del pianeta comporta inevitabilmente una crescente e complessa interdipendenza fra Paesi e culture diverse. E senza dubbio attraverso un’economia di mercato si possono ottenere le più diverse finalità individuali che sottintendono le libertà dei singoli e una maggiore partecipazione popolare con la diffusione del pluralismo nelle istituzioni pubbliche.
Prendendo a prestito la geniale intuizione di Hayek, l’ordine delle società occidentali è quello del “cosmos”, ovvero un ordine non preordinato, ma spontaneo, che non ha un proprio fine ma consente il raggiungimento di diverse finalità. Mentre l’ordine della taxis è quello organizzato e preordinato ad un fine e basato su precise norme organizzative subordinate alle decisioni di chi governa i fini.

Su tali basi l’economia di mercato, che ovviamente è l’esplicitazione di un ordine spontaneo, e la globalizzazione, che di fatto è l’estensione del mercato nei vari Paesi, sono gli strumenti attraverso cui si realizzano le diverse finalità individuali.
Non v’è dubbio che il tema della globalizzazione sia comunque oggi il tema più importante nelle discussioni circa il futuro della nostra civiltà. Per la verità, il concetto di globalizzazione, riprendendo la categorizzazione di Michael Novak, ha sicuramente almeno tre dimensioni. Quella culturale, se facciamo riferimento alla nuova rete di rapporti fra i popoli e alla condivisione di modelli comuni di riferimento. Ogni anno si calcola che viaggi un decimo della popolazione mondiale, il numero di televisori per 1.000 abitanti è passato dal 1980 al 1995 da 121 a 235, fra il 1990 e il 1996 il tempo speso in chiamate telefoniche internazionali è passato da 33 miliardi di minuti a 70 miliardi di minuti, e a prezzi costanti del 1990 il costo di una telefonata di tre minuti da New York a Londra è passato da 245 dollari nel 1930 a 50 dollari nel 1960, a 3 dollari nel 1990 e a soli 35 centesimi nel 1999.
La seconda dimensione è quella politica e a tal proposito basti pensare alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e agli sforzi per completare e rendere efficace gli strumenti di regolamento delle relazioni interstatuali. Non a caso a New York, dinanzi al palazzo delle Nazioni Unite, sorge la statua di Francisco de Vitoria (1486-1546), il grande pensatore cattolico precursore del diritto internazionale.

E infine c’è sicuramente quella economica, che è però più recente e naturalmente la più discussa. Qualche dato può fare luce sulla crescente importanza della globalizzazione economica. Nel 1965 il prodotto mondiale lordo era pari a circa 2 miliardi di dollari. In appena trent’anni nel 1995 tale prodotto è salito vertiginosamente a 29 miliardi di dollari. Tra il 1965 e il 1996 il commercio mondiale da un Paese all’altro è aumentato da 186 miliardi di dollari a 6.370 miliardi di dollari. Nel 1965, l’85% delle esportazioni dei Paesi in via di sviluppo era costituito da prodotti di base, ovvero materie prime.
Nel 1997 il 70% delle esportazioni era costituito da prodotti lavorati. Contrariamente a quanto si pensa, quindi, il mondo dei Paesi in via di sviluppo ha bisogno di più globalizzazione e certamente il più importante atto di politica economica per i Paesi industrializzati sarebbe quello di liberalizzare ancor di più le importazioni dai Paesi in via di sviluppo.
Gli scambi giornalieri sul mercato valutario sono cresciuti da 20 miliardi di dollari del 1970 a 1.500 miliardi del 1998. I prestiti bancari internazionali sono passati da 265 miliardi di dollari del 1975 a 4.000 miliardi di dollari del 1994. Insomma, il mondo oggi è più ricco, più dinamico e più interconnesso. L’espansione dei mercati ha infatti generato una continua rivoluzione tecnologica che ha innovato i mercati con quel processo che Joseph Schumpeter definiva «distruzione creativa».
Lo sviluppo tecnologico nel settore delle telecomunicazioni e in quello dei computer ha facilitato l’espansione nel pianeta dei prodotti finanziari con un maggiore numero di transazioni “cross the border”, costringendo obtorto collo i governi nazionali a liberalizzare il settore finanziario e quello creditizio. Il mondo finanziario è sicuramente più efficiente oggi che nel passato, attraverso la maggiore produttività assicurata dalle nuove tecnologie e dalla diffusione di sistemi di risk management. Il sistema finanziario ha assicurato un più agevole afflusso di capitali finanziari che hanno sostenuto il commercio internazionale, il finanziamento delle nuove tecnologie e gli investimenti diretti nei Paesi con un effetto evidente sulla crescita degli “standard of living”.
Di pari passo, si è creata una stretta interdipendenza fra i mercati e i suoi partecipanti sia a livello nazionale sia internazionale. Conseguentemente, per via di una maggiore correlazione fra i mercati si sono distribuiti efficacemente i vantaggi di un migliore arbitraggio e di un pricing sempre più esteso per tutti i nuovi complessi strumenti finanziari, come i derivati, ma allo stesso tempo è cresciuta la facilità con cui disallineamenti e fallimenti in un mercato si propagano a velocità mai prima sperimentata nei mercati internazionali.
Le ricorrenti crisi finanziarie internazionali, cui abbiamo assistito negli ultimi anni, non devono quindi far passare sotto tono l’enorme aumento che le economie mondiali hanno registrato nei loro commerci e nella allocazione del capitale di investimento. Commerciare fa bene. Benjamin Franklin sosteneva a ragione che il commercio internazionale non ha mai rovinato gli Stati. E sul porto di Amsterdam, nel Paese che ha meglio interpretato la necessità degli scambi internazionali, c’era scritto “Commercium et pax”. Infatti quando le barriere al commercio sono abolite, i popoli sono in genere più uniti e hanno sempre delle possibilità che un’economia chiusa nega. Quest’ultima permette in effetti di consumare soltanto tutto quello che si produce in loco o investire soltanto tutto quello che si risparmia. Il commercio e la libera circolazione di capitale consentono di separare al contrario l’ammontare degli investimenti dal livello di risparmio prendendo la differenza dall’estero. In questo modo i Paesi meno sviluppati possono disporre di più capitale per i loro investimenti con potenziali future maggiori produzioni e i Paesi ricchi di capitale compensano i minori investimenti con il reddito ricevuto dagli investimenti dall’estero.

Senza scomodare Ricardo e la teoria della specializzazione della produzione per costi comparati, si può facilmente sostenere che il libero commercio ha aperto nuove possibilità all’aumento della ricchezza. Nel 1970 l’ammontare del risparmio privato verso i Paesi poveri ammontava solo all’1% del GDP (Gross Domestic Product, N.d.R.) dei Paesi destinatari dell’investimento. Alla fine degli anni Novanta questo flusso è aumentato al 3,75%. Per dare un’idea dell’ammontare delle transazioni coinvolte e dell’ammontare ancora ridotto dei flussi di capitale che è convogliato verso i Paesi in via di sviluppo, basta registrare alcuni dati. Alla fine del 2001 il totale dei prestiti bancari cross border ammontava a 9 migliaia di miliardi di dollari. Solo 700 miliardi di dollari andava ai Paesi in via di sviluppo. Su un totale di investimenti in titoli cross border pari a 12 migliaia di miliardi di dollari, solo 600 miliardi di dollari erano di pertinenza dei Paesi in via di sviluppo.
Il problema dei Paesi in via di sviluppo è quindi quello di un maggiore afflusso di capitali e di un loro efficiente utilizzo. La storia ha abbondantemente dimostrato che il libero flusso di capitali ha giovato fortemente allo sviluppo economico. Anzi, le statistiche mostrano che lo sviluppo maggiore avviene proprio nei Paesi che pongono meno limitazioni all’ingresso di capitale e che si muovono più velocemente sulla strada della integrazione finanziaria.

Con grande lucidità e preveggenza Luigi Sturzo nel 1928 nel suo libro La comunità internazionale e il diritto di guerra sosteneva che il «grande fiume dell’economia internazionale può essere una grande ricchezza e può essere un grave danno: dipende dagli uomini in gran parte evitare questo danno. Quello che non dipende dagli uomini è che il fiume non esista. […] Contro l’allargamento delle frontiere economiche dai singoli Stati ai continenti, insorgono i piccoli e grandi interessi nazionali, ma il rinnovamento è inarrestabile; l’estensione dei confini economici precederà quella dei confini politici. Chi non sente ciò è fuori della realtà».
Dov’è allora l’aspetto negativo delle ricorrenti crisi finanziarie? E soprattutto, l’attuale impalcatura multilaterale costruita dopo Bretton Woods è ancora valida? Bisogna a questo punto riconoscere che i benefici della crescente apertura dei mercati funzionano solo in presenza di una stabilità macroeconomica che deve essere garantita dai governi e dalle Banche centrali. Come la ricerca della BIS ha dimostrato a iosa, le crisi economiche iniziano sempre nel settore finanziario e le crisi bancarie accadono sovente quando, in un sistema liberalizzato, la vigilanza e l’ambiente istituzionale sono deboli. Un’inefficiente attività di regolamentazione dei mercati e delle banche, in presenza di un’alta reattività degli stessi, può senza dubbio compromettere i benefici dell’innovazione finanziaria. Insomma, l’integrazione finanziaria ha sicuramente aspetti positivi e benefici, ma anche costi che possono essere molto pesanti.
La ricerca economica suggerisce che le crisi finanziarie dell’America Latina sono costate fino al 2,2% del GDP annuale di quei Paesi negli anni Ottanta. La crisi finanziaria dei Paesi del Sud Est asiatico è costata l’1,4% del loro GDP negli anni Novanta. E per scendere in dettaglio e fuori del dato medio, la crisi finanziaria asiatica è costata all’Indonesia una diminuzione del suo GDP del 14% nel 1998. Una percentuale altissima, che ha causato fra l’altro anche un drammatico cambio di regime all’interno del Paese. Ogni studio sull’argomento documenta abbondantemente che nelle crisi finanziarie due potenti fattori interagiscono fra loro: i rischi economici nei Paesi destinatari dell’investimento estero e l’estrema mobilità dei capitali. L’affrettata liberalizzazione non preceduta da un’efficiente regolamentazione causa un boom di prestiti generalmente diretto verso settori a più alto rischio, come azioni e proprietà immobiliare, e non verso investimenti produttivi. Il coinvolgimento dei rispettivi governi amplifica il fenomeno con l’intromissione dell’Esecutivo che sollecita alle banche investimenti in specifici settori senza riferimento alla bontà del credito.
Il problema generale di un più efficace funzionamento dei mercati finanziari internazionali non è tuttavia di facile risoluzione. Come ha detto l’ex Deputy Managing Director del FMI, Stanley Fisher, «Tutti quanti noi vogliamo un sistema dove i privati sopportino i costi dei cattivi investimenti, ma abbiamo bisogno di standard internazionali di contabilità, di corporate governance, di informazioni finanziarie omogenee, di un sistema che ci permetta di controllare l’adozione di questi standard».
I risvolti concreti di questi problemi sono evidenti nelle desolanti cifre. Ci sono oggi 1,2 miliardi di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno e la popolazione mondiale è prevista in crescita di un altro miliardo fra il 2000 e il 2015, con il 97% di questa crescita numerica concentrata nei Paesi in via di sviluppo. Quello di cui abbiamo bisogno è certamente una strategia per lo sviluppo. Uno sviluppo come libertà, nell’accezione di Amartya Sen, capace di lasciare agli individui la possibilità di forgiare il proprio destino. E quindi è necessario costruire, come ha proposto Nicholas Stern, due pilastri essenziali: quello del clima per l’investimento che lo faciliti e lo sostenga e quello della partecipazione popolare allo sviluppo. Per “investment climate”, Stern intende il focus sulle istituzioni, la governance, le politiche pubbliche, la stabilità e le infrastrutture che sostengano le riforme per lo sviluppo.

Essenziale per tale progetto è la buona governance che richiede in primis il rispetto della “rule of law”, la lotta alla corruzione e al crimine insieme ad un’efficace struttura di supervisione che incoraggi il settore privato. Non si tratta insomma solo di trasferire capitali, ma di impiantare un sistema che favorisca gli investimenti e quindi lo sviluppo economico. Non è possibile, in altri termini, concepire un mercato globale senza un diritto globale che garantisca i diritti umani e vigili contro la soppressione della concorrenza. Nelle parole di Stern, «La protezione sociale può certamente giocare un ruolo, ma la migliore protezione sociale per la società è un’economia che cresce». Ancora una volta può qui risuonare familiare l’insegnamento sturziano alle virtù della concorrenza come «il rischio che educa».

Di fatto, Paesi come la Cina, il Messico e l’India, che si sono mossi verso una progressiva apertura delle loro economie e verso un maggiore commercio estero, hanno certamente registrato uno sviluppo più marcato di quei Paesi come la Russia, il Pakistan e molta parte dell’Africa che al contrario non hanno realizzato un clima caratterizzato da commercio con l’estero e migliore governance all’interno. Tutto il dibattito sullo sviluppo economico dei Paesi emergenti è quindi racchiuso nella concreta lotta alla povertà.
Come ricorda autorevolmente padre Robert Sirico, «La povertà è la condizione naturale della razza umana, il risultato dell’ostacolo frapposto dalla natura al benessere umano: la scarsità. L’abbondanza è l’eccezione: non c’è bisogno di fare nulla per produrre povertà, laddove tanto bisogna fare per produrre ricchezza». Deve oggi rafforzarsi la consapevolezza del mercato come lo strumento che, attraverso il procedimento di scoperta della concorrenza, amplia le nostre scelte economiche e quindi la nostra libertà, e diffondersi la convinzione che per il raggiungimento di tale fine il mondo debba essere libero dalla violenza e dalla guerra per una migliore convivenza fra i popoli. Tale visione ci porta daccapo a considerare i problemi dello sviluppo economico per i Paesi in via di sviluppo come temi legati allo sviluppo del commercio e alla realizzazione di una politica che faciliti gli investimenti. Soluzione, questa, che rientra nella tradizionale logica liberale.
Mi sia consentito di citare il brillante insegnamento di Wilhelm Roepke, uno dei più famosi economisti cattolici e liberali, che aveva intuito come lo iato fra cultura cristiana e liberale necessiti di una ricomposizione. Nelle sue parole: «Antichità classica e Cristianesimo sono i veri antenati del liberismo, perché sono gli antenati di una filosofia sociale che regola il rapporto, ricco di contrasti, tra l’individuo e lo Stato secondo i postulati di una ragione inserita in ogni uomo e della dignità che spetta ad ogni uomo come fine e non come mezzo, e così contrappone alla potenza dello Stato i diritti di libertà dei singoli [...]. Il liberalesimo non è nella sua essenza un abbandono del Cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale e soltanto una straordinaria riduzione delle prospettive storiche può indurre a scambiare il liberalesimo con il libertinismo. Esso incarna piuttosto nel campo della filosofia sociale quanto di meglio ci hanno potuto tramandare tre millenni di pensiero occidentale, l’idea di umanità, il diritto di natura, la cultura della persona e il senso di universalità».
Meglio di così non si può dire. Anche per i problemi dello sviluppo economico.

   
   
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