Dicembre 2003

Contro gli apocalittici

Indietro
L’Occidente
non è l’inferno
Aldo Bello
 
 

Non è il caso
di sottovalutare
i problemi gravi che i Paesi occidentali devono affrontare.
Ma va respinto il “pessimismo della modernità”, secondo il quale il Male si identifica sempre
ed esclusivamente con l’Occidente.

 

Uno spettro si aggira ad ovest del mondo: la decadenza. Ci si occupi della Borsa o dell’ambiente o della qualità della classe politica, tanto per fare qualche esempio, il “leitmotiv” che accompagna le analisi degli “esperti” di turno è sempre lo stesso: la civiltà occidentale è in caduta libera.
Qual è l’origine di tanto pessimismo? Il punto di partenza è sempre rappresentato dalla convinzione che la cultura di un Paese sia alle prese con un inarrestabile processo di declino. Non per niente Francis Fukuyama non si stanca di ripetere che «è stato il Novecento a rendere tutti pessimisti riguardo alla storia».
E sicuramente il “secolo breve” è stato orribile per la cognizione del dolore, ma né il pessimismo culturale né le teorie della decadenza sono un fatto nuovo. Non abbiamo dovuto attendere il XX secolo o gli allarmi dei pensatori postmoderni per veder comparire gli araldi della disperazione. Già Esiodo, verso la fine dell’VIII secolo a.C., aveva suddiviso la storia del mondo in cinque fasi, iniziando da un’età dell’oro e finendo con un’età del ferro. Egli era convinto di vivere in quest’ultima fase, la peggiore, al termine della quale l’intero ciclo sarebbe ricominciato. Lo stesso Seneca attendeva con stoico fatalismo l’annientamento del suo mondo e di tutto ciò che ne faceva parte.

L’idea di decadenza non è appannaggio del solo mondo classico, è anche parte integrante della teleologia giudaico-cristiana, che ha lasciato un segno profondo nella cultura dell’Occidente. Del resto, che cos’è la cacciata dal Paradiso, se non un’idea di decadenza? Il Medioevo non ha mai avanzato dubbi sull’ineluttabilità dell’Apocalisse. In seguito, con gli adattamenti operati dall’abate Gioacchino da Fiore, l’Apocalisse fu calata nella storia. Da qui, l’associazione fra distruzione apocalittica e ricostruzione politica, che ritroviamo nella nostra epoca con innegabili assonanze: nel senso che c’è un filo rosso che unisce Gioacchino a Marx e alla sua visione di un mondo borghese corrotto e decadente, che il proletariato deve abbattere in nome del comunismo.

Certo, l’Occidente non è il Paradiso. Ma altrettanto sicuramente non è nemmeno l’Inferno. Ha ragione lo storico Oliver Bennet: il “de contemptu mundi” è un lamento che, come un refrain, ha risuonato in ogni epoca, e che ai nostri giorni trova i suoi sostenitori irriducibili soprattutto negli intellettuali del mondo occidentale: Europa e America. L’Occidente, insomma, è dipinto come un luogo perduto nel quale la logica del profitto schiaccia i più deboli e sfortunati, a vantaggio dei ricchi e degli sfruttatori. Appunto: un Inferno caratterizzato da quel neocolonialismo in cui consisterebbe la globalizzazione, fenomeno destinato a cancellare ogni tradizione locale e a sostituirla con quell’orrendo tossico mentale e morale costituito dal Pensiero Unico. In sintesi: Occidente significa in particolare capitalismo e America, quindi va combattuto senza soluzione di continuità. Questo è il messaggio dei “neoapocalittici”.
Non è il caso di sottovalutare i problemi gravi e urgenti che i Paesi occidentali devono affrontare, come il degrado ambientale, o le questioni legate ai flussi migratori, o gli stessi egoismi nazionali che frenano l’orchestrazione di continenti federali o confederali. Ma va respinto il “pessimismo della modernità”, secondo il quale il Male si identifica sempre ed esclusivamente con l’Occidente. Con ogni probabilità, in nessuna epoca i diritti individuali sono stati garantiti come lo sono ai nostri giorni nei Paesi occidentali, e mai come oggi il benessere vi è stato più diffuso. L’Occidente – ha scritto Karl Popper – è la migliore società perché è la più capace di autocorreggersi.

Quanto al capitalismo, sarebbe ora che i detrattori dell’economia di mercato riflettessero sul fatto che senza di essa sprofonderemmo nella più drammatica indigenza. E vi è di più, nel senso che economie di mercato e Stato di diritto vivono e muoiono insieme. Le libertà individuali sono destinate a scomparire là dove lo Stato (o qualche privato) detenessero tutti i mezzi. Fu Von Hayek ad ammonire che «chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini».
L’economia di mercato è l’esposizione pubblica di soluzioni di problemi: di soluzioni nuove per problemi vecchi e anche antichi, di soluzioni di nuovi e magari prima inimmaginabili problemi. Il “mercato”, con il suo principio di concorrenza, è un processo di scoperta e di invenzione; arricchisce il mondo; mette a disposizione “beni” senza obbligare alcuno ad usufruirne; amplia, quindi, la possibilità di scelta, cioè la nostra libertà; è strumento di una sempre migliore conoscenza e di una sempre migliore convivenza tra i popoli. La globalizzazione economica, intrinsecamente connessa con la globalizzazione dell’informazione, offre nuove opportunità, anche se ci pone di fronte a nuove sfide e a nuovi rischi. E il rischio più grande è che un mercato globale non venga simultaneamente regolato da un diritto globale, vale a dire da un sistema legale internazionale in espansione che garantisca i diritti umani e che vigili contro ogni tentativo di soffocare la concorrenza. E perché la globalizzazione non si trasformi in un disumano incontro del forte con il debole è necessario non che il forte si indebolisca, ma che il debole diventi forte. E debole è colui che non sa e non può: che non sa perché privo di conoscenze scientifiche e tecnologiche; che non può perché anche quando avesse le necessarie conoscenze per progettare e per costruire beni e servizi, è oppresso da uno Stato che vieta la libertà d’impresa e di commercio. Eccola la sfida epocale dell’Occidente: è tempo di esportare e mettere a disposizione ovunque nel mondo il meglio di sé – i diritti umani, lo Stato di diritto, la conoscenza scientifica e tecnologica o know how.
E’ questa la via impervia che esige etica, intelligenza, lungimiranza. Da un mercato globale abbiamo tutti da guadagnare. Dalla giungla dove il più forte depreda il più debole abbiamo tutti da perdere: eticamente, tutti e sempre; economicamente e politicamente, prima o poi.
E qui va chiarito che una civiltà globale non equivale a una civiltà uniforme nelle idee, negli ideali, nei costumi. Una civiltà globale è fatta da tante civiltà: è una civiltà aperta alle più diverse civiltà, diverse nella visione del mondo filosofico o religioso, nella scelta dei valori etici, nei costumi. Quello che sprezzantemente è stato più volte definito “Pensiero Unico” dev’essere in realtà il pensiero che non solo permette, ma include e auspica la convivenza del maggior numero possibile di pensieri nella scienza, in ambito etico, in quello filosofico e religioso.
Il pensiero unico (con le iniziali minuscole) esclude solo una variante di pensiero: il pensiero unico degli intolleranti e dei violenti, il pensiero di coloro i quali intendono imporre ad ogni costo, magari con le lacrime e il sangue, la loro presunta Unica Verità e i loro presunti esclusivi Valori Unici. Esclude gli integralismi e i fondamentalismi, compresi quelli razionalistici. Che sono sempre destinati a perdere.

Post Scriptum
14 dicembre 2003

Iconoclastie

Europa. I quotidiani italiani ed europei (ma anche americani e asiatici) riferiscono che la Convenzione europea è andata in baracca, e che la bozza di Costituzione continentale non è stata firmata: tutto rinviato alla presidenza irlandese (illusione: ci sono importanti tornate elettorali e dunque tutto è rinviato, se va bene, alla fine del 2004). Motivi del generale disaccordo? Francia e Germania scalpitano in nome di un’egemonia europea che non meritano; Spagna e Polonia, una entrata tardi nel consesso europeo, l’altra ancora fuori fino a maggio, vogliono contare di più; l’Inghilterra resta fuori euro e sta, come sempre, alla finestra. E’ crollata l’immagine dell’Europa politica.
Chi si è opposto, in realtà, vuole un Trattato classico fra Stati sovrani, non una Costituzione che preluda all’Europa unita, non un attore politico che un giorno possa parlare con una sola voce, al modo della Costituzione americana. Ciascuno Stato intende mantenere intatto il proprio potere di interdizione e di veto; non tollerano che nasca qualcosa di nuovo, nel Vecchio Continente, né desiderano un soggetto politico che sia in grado di prendere decisioni rapide, efficaci, democratiche. Sono per lo “status quo”, cioè un insieme di Stati legati da vincoli non forti, che non limitino le vecchie sovranità: che tuttavia oggi è solo apparente, perché nessuno Stato è in grado di difendere da solo i propri interessi.

C’è chi ha proposto un’azione trainante dei vecchi Sei fondatori. Ciò significherebbe un’Europa a due velocità, e forse a tre, con l’ingresso degli altri Dieci previsto da qui a qualche mese. Così, il sogno di Ernesto Rossi e di Altiero Spinelli andrebbe in soffitta. Washington, che non ha mai amato un’Europa federale e confederale, ritenendola pericolosa come potenza politica e preferendola come zona di libero scambio, sembra soddisfatta, e continua ad adulare gli egoismi nazionali che si riesce a far morire al di qua dell’Atlantico. E l’insipienza europea li incoraggia a proseguire sulla strada della disgregazione dei Quindici, poi Venticinque, incapaci di trasformare il loro complesso e forse anche precario Zollverein in un’occasione propizia a un decisivo balzo politico.

Iraq. Non si fa in tempo a leggere gli editoriali, che si apprende della cattura di Saddam Hussein. O meglio: di un fantasma, di un relitto che sembra emerso da una grotta segregatrice della Barbagia. Sguardo spento, gesti remissivi. Era stato un satrapo genocida, l’uomo che risale dalla botola a pelo di suolo, alla fine ridottosi ad una sorta di automa narcotizzato, attonito. Tradito e venduto da chi, non importa. Il crollo della sua immagine ha due valenze formidabili: non è morto combattendo, né si è suicidato, cioè non ha saputo assurgere a martire della causa araba, e per questo ha sconvolto le aspettative dell’universo onirico di decine di milioni di uomini che si esaltavano con la leggenda della sua imprendibilità: così, una sorta di metamorfosi kafkiana ce lo ha presentato, nel delirio mediatico seguito alla sua cattura, non più come il personaggio-simbolo della tirannide monocratica che affligge il mondo arabo, ma come l’avventuriero che ha perso la guerra moderna dell’immagine, devastata dal suo profilo di clochard che sopravviveva fra residui di pasti consumati al buio, fra chiazze escrementizie, stoviglie sporche, vestiti laceri, una branda con le coltri disfatte, uno spazio appena sufficiente a contenere un corpo disteso e una via d’uscita bloccata dall’esterno. Continui oppure diminuisca la pressione della guerriglia, la svolta simbolica è lacerante. Non più leggenda di un combattente tenace e ubiquo, dunque invulnerabile. Non più mito del condottiero con poteri illimitati. Non più l’eroe pronto al gesto estremo, che aveva promesso in caso di cattura, ma non ha avuto la forza di compiere. Ma un vile che, per aver salva la vita, si è sottoposto all’umiliazione e al ludibrio, dunque al disonore. Al tempo dei kamikaze!

Italia. Testo della lettera inviata da Nerio Nesi alla “Stampa” di Torino: «Leggo la lettera del padre di un laureando all’Università di Torino che racconta che “all’invito di alzarsi in piedi per onorare i caduti di Nassiriya fatto durante le lezioni da un docente, hanno aderito solo sette su oltre 120 studenti presenti”. E’ un episodio agghiacciante, secondo, per gravità, solo a quello di quel gruppo di studenti, sempre purtroppo dell’Università di Torino, che hanno definito i carabinieri caduti a Nassiriya “Ignobili mercenari”. Leggendo questo racconto e quelle parole è sorta in me spontanea la domanda: come è potuto accadere? Come sono stati educati questi ragazzi? A quali valori? A quali sentimenti? Appartengo organicamente alla sinistra e alla Camera ho votato contro l’invio della spedizione italiana in Iraq. Ma forse proprio per questo provo un profondo disprezzo verso chi insulta il sacrificio e la memoria di soldati che sono caduti servendo il Paese. Il mio giudizio su costoro è durissimo e non modificabile da alcuna delle tante ragioni ambientali che verranno certamente addotte da difensori alla ricerca di alibi».

Egregio vicepresidente della Commissione parlamentare Lavori Pubblici ed ex presidente della Banca Nazionale del Lavoro. Qualcuno dirà che l’estremismo è una malattia della gioventù, come il morbillo lo è per l’infanzia. E si tratta, appunto, di un alibi idiota. Perché non di malattia esantematica né di acne giovanile si tratta, ma di una patologia vera e propria, trasmessa da una cultura giacobina che ancora oggi non riesce a ripiegarsi su se stessa e a coltivare la riflessione al posto della violenza. E non di politica si tratta, ma di ideologia, che è sempre stata, e resta, un tossico inoculato a ragion veduta dai saturnini “maîtres à penser” che occupano accademie e cattedre, scranni parlamentari, uffici di professionisti di antimafie, banchi di toghe e tocchi, poltrone direzionali di opulente pubblicazioni, spazi di consulenze editoriali e colonne di quotidiani. Non tutti, ma quanti bastano, con la loro proterva pervicacia, e con la determinazione a perseguire gli interessi delle parti realmente più conservatrici del nostro disgraziatissimo Paese (è lei a definirlo così; io preferisco parlare di Patria). Càpita spesso, dunque, che universitari che in massima parte provengono non da famiglie diseredate, ma per lo meno agiate, se non proprio ricche, facciano del cinismo opportunista lo strumento (troppe volte vincente, ancora oggi) di affermazione della propria baronia, del proprio clan, del familismo dirigente che non ha bisogno di meritocrazie, ma di servilismo, di obbedienza cieca, di presenzialismo, alimentati dall’orgoglio di mamma e papà felici di allevare rampolli di così tracotante imbecillità.
Sono figli dei suoi e dei miei tempi, questi campioni del culo di pietra, che rimane fissato sui banchi di un’aula anche quando si commemora chi è stato massacrato da ciechi integralisti portatori di morte. E per costoro non fa differenza fra portatori di pace e mercenari. Gli sta bene, al contrario, piazza Tien an Men, come gli sta bene oggi Castro, come gli stava bene ieri Pol Pot. Gli sarebbe stato bene, l’altro ieri, un Hitler. O uno Stalin. O a volersi rovinare, un Ceausescu o un necrofago all’Amin Dada.
Sono figli del regno della menzogna che abbiamo costruito tutti quanti, con le nostre cortine psicologiche, politiche, culturali, adatto solo allo scontro, non al confronto; al recinto del dogma acritico, non al mondo delle idee. Con buona pace (ma più mia che sua) di chi guarda oltre, non accettando di camminare con la testa stravolta.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2003