Dicembre 2002

AA.VV.

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Le Giravolte
percorsi per: florio santini - pierluigi albertoni
 
 

 

Il danno non è economico, poiché tu pubblichi non per interesse, ma per regalare; il danno, perciò, è morale: stai odiando il tuo libro che non esce; tu, che sempre amasti l’arte e la sua libera bellezza.

 

Gli editori sono buoni o cattivi?

Il mal di scrivere: “Serendipity”

Spero mi si perdoni la divagazione, peregrina assai in un testo di questo livello, ma è una domanda, necessaria e difficile, che mi son posto varie volte senza raggiungere un giudizio sicuro. Può darsi qualcuno di voi risponda per me. So che tutti gli editori lavorano sodo, in un terreno pieno di sabbie mobili; e che quelle volte in cui arrise loro il faticoso, contestato successo, rischiarono di brutto: stampare costa, foss’anche un genio il prescelto. Figuriamoci se chi scrive deve farsi conoscere o anche dimenticare.
Ammettiamolo pure. La mia domanda vorrebbe semplicemente sapere se essi amano oppure non amano i propri “clienti”, i quali non sono sempre affatto tranquilli, cioè di facile gestione, essendo sempre pronti, fino al visto si stampi, a rivedere e ritoccare, a dire e disdire.
Le relazioni rimangono tese a tempo pieno e, di conseguenza, non è che gli editori curino affettuosamente i rapporti con chi addirittura li considera veri e propri fabbricanti di gloria, esagerando anzichennò.
In genere, non si fanno trovare né all’ufficio, né a casa e, almeno per quel che mi riguarda, non rispondono alle lettere.
La mia tormentata domanda, infatti, nasce dalla loro freddezza, salvo quando lo scrittorello incauto, che stampa a proprie spese, deve rispettare i termini del contratto. Allora, sono professionalmente cortesi. Davanti ad essi, comunque, ti senti a disagio. Ti pubblicano perché vali o perché devono, come noi tutti, guadagnarsi da vivere?
Intanto, nessun apprezzamento che t’incoraggi. Nessuno: ma conosceranno veramente, resi impassibili dal mestiere, lo spasimo, l’ansia, il desiderio che tormentano chi, rispettoso del loro crudele silenzio (sono mesi e mesi, non giorni!), ha avuto troppa fretta ad annunziare ai cari lettori la prossima imminente “paternità”?
Non intendo criticarli; tuttavia, quando promettono le terze bozze che non arrivano, mi sembra che proprio buoni non siano anche se, paradossalmente, l’averti concesso spazio, in un mondo in cui ognuno si sente Autore, è atto di autentica bontà. E rimangono così, nel bel mezzo del più illogico “pareggio”, senza batter ciglio.
Intanto, ripeto, il tempo, inesorabile e impietoso, passa e il tuo libro non esce. Per giunta, non sai il motivo. Hai persino già trovato il presentatore ufficiale della tua opera e nessuno si fa vivo. Questo giustifica la tormentata domanda, soprattutto da quando, alla fine della tua esistenza e della tua stessa voglia famosa di scrivere, trovasti non più il solito stampatore, bensì un vero, importante Editore, di quelli che arrivano oltre i consueti confini provinciali.

Il danno non è economico, poiché tu pubblichi non per interesse, ma per regalare; il danno, perciò, è morale e mentale in una: stai odiando il tuo libro che non esce; tu, che sempre amasti l’arte e la sua libera bellezza. Ora, ti consegneranno una creatura invecchiata, dove la poetica, che sempre sperasti spontanea e agile, soffre di evidente artrosi, presa nell’umido d’una qualunque tipografia, di quelle che imprimono per conto di...
Non basta; odii anche le stampatrici moderne, che si guastano spesso e nessuno ti avverte; odii i grafici specialisti, compositori senz’anima, che non conoscono il partecipe piombo d’un tempo. Odii il tuo libro, che non ti piace più per troppa attesa, come una volta non ti piacevano le donne che si facevano troppo desiderare.
E l’Editore, che colpa ne ha?
Dovrebbe pensare, Lui, che sei nelle sue mani; dovrebbe tranquillizzarti con spirito fraterno. Se non lo fa, è cattivo. Non merita la notorietà (leggasi “vendita”) che alla fin fine, dopo tanta sofferenza, riuscirai a procurargli una volta “uscito”! Attenzione: tu a Lui, non Lui a te. Ed è questa la complicazione del nostro isteroide rapporto. Gli Editori, inoltre, non conoscono commozioni. Volete un prova? Eccola.
Scrissi per la seconda volta a chi pubblicò il romanzo che più amo, chiedendo se avesse ancora in magazzino qualche copia ingiallita da spedirmi, dato che son rimasto senza e, avendo un cancro maligno, volevo far qualche omaggio-ricordo... L’ho già detto: nessuna risposta. Non è il solo: telefonai cento volte al generoso Amico, che mi sta pubblicando a suo carico (traguardo editoriale non chiesto, che a 78 anni non avrei creduto di raggiungere!); i suoi numerosi telefoni danno tutti stranamente l’occupato. Non esiste. Brutto metodo; perché, soltanto dopo, qualcuno mi disse che si era seriamente ammalato...
Per questo, sono due personaggi che non riesco a condannare. Eppure, non si tratta d’una banale commissione contrassegno. Sono libri da regalare, genere cartaceo di valore unicamente spirituale. Eppure, nessun rimprovero, niente astio; la fiducia senza pazienza è inutile. Attenderò.
D’altra parte, gli Editori, buoni o cattivi che siano, hanno molte cose cui pensare. Io, invece, una sola: leggermi e farmi leggere. Attenderò.
Ma forse gli Editori non sono né buoni, né cattivi. Siamo noi, vanitosi, che non vediamo l’ora di essere sfogliati.
Ora che ci penso, direi che i due personaggi, impossibili da amare, come da odiare, fanno bene a farmi “scalciare” da intellettuale caparbio; fanno bene a mortificare le mie ambizioni senili, che sono le più tenaci.
Rimane un fatto, che non so assolutamente esporre. Mai più scriverò un diario; mai più. Un vecchio romanzo, fosse pure il racconto dei miei viaggi, può attendere di essere “ripescato”; un’unica copia, la mia, riuscirò finalmente ad averla. Il diario, all’inverso, è come certe pizze nostrane: o le mangi appena uscite dal forno o perdono sapore.
Questo volevo dire, soltanto questo. Ma gli Editori c’entrano o non c’entrano? Come spesso capita, la domanda iniziale era retorica, alla latina. Era per cominciare, difetto comune agli asini che suonano l’arpa.
Nel presente caso, anche per far passare questo dannato tempo; per farmi perdonare una simile sopraggiunta assenza di voglia, che riesce appena a segnalare, sopra una rivista culturale di questo calibro, la mia stanchezza sincera, direi imprevedibile in un grafomane del mio genere.
Qualcuno penserà ch’io abbia un fatto personale con gli Editori. Non è vero; mai in vita mia provai stima e rispetto come per loro. Se non fosse quel “mal di scrivere” di cui nel cosiddetto occhiello iniziale! Spiego; sono buoni, quando mi pubblicano, però con un gran contorno di errori di stampa. Cosicché, li detesto. Sono cattivi, quando mi tagliano cose troppo lunghe, però con grande maestria. Cosicché, li adoro. Insomma non riesco a capire.
Non per caso ho parlato di “mal di scrivere”, che non è certo tra i minori: è una tisi psicologica, che consuma entusiasmi e speranze.
Il libro non vede la luce? Il libro è nato morto; ed entri in depressione: non cervellotica, bensì di tipo concreto, quasi tangibile, fatta di pagine che non trovano il loro verso e tu non riesci più a riordinarle, a forza e furia di rileggerle; anzi, per usare un termine tecnico, collazionarle.
Direte che esagero: no, credo che una lunga, ingiustificata attesa possa far perdere il ben dell’intelletto agli scrittori oramai immotivati.
Perché il meccanismo propulsore di chi viveva per scrivere ha bisogno costante di assidue stimolazioni esterne. Dovrebbero saperlo gli Editori d’oggi, altrimenti chi scrive (anche chi legge) perderà la propria volontà. Volontà di essere cosa? E qui mi riferisco senza complimenti a chi stampa. Meno intellettualmente frigidi; meno distratti da leggerezze, scandali e pornografie varie. Chi s’interessa di scoperte scientifiche, di filosofie nuove, di teorie eticamente benefiche? Niente. Una pubblicazione è un “prodotto”; non più un’ideologia. In conclusione, non si tratta di essere buoni o cattivi Editori, come accennavo nel titolo a scopo provocatorio; si tratta piuttosto di saper comprendere l’importanza d’una vera missione: quella di pubblicare ciò che non ha da vegetare “in attesa”; poiché, più di sempre, c’è in giro necessità urgentissima di leggere per pensare. Un libro è un telescopio, puntato all’infinito.
Ora, il problema rimane questo. Chi stampa consapevolmente lo sa, oppure è sommerso da preoccupazioni materiali e contingenti? Basta con le domande più o meno insidiose. Chiedo scusa.
Per correttezza, tuttavia, devo aggiungere ch’esistono anche editori dotati d’una raffinata capacità di scelta nel dare un nome alle loro collane. Proprio in questi giorni, conoscendo i miei gusti difficili, uno di questi mi ha inviato da Roma un’introvabile pubblicazione francese del 1938 (Edizioni Gallimard), tradotta in italiano nel 1992 (Biblioteca del Vascello s.r.l.), che enumera i propri quaderni, chiamandoli l’uno dopo l’altro Serendipity in inglese. Sono stato molto felice della novità perché abbiamo un capitale bisogno di parole letterariamente nuove.
Indovinate chi a metà del ‘700 inventò questo vocabolo? L’Horace Walpole del castello di Otranto!
Cosa significa? «Andare in cerca di qualcosa e trovarne un’altra, ancor più dotta e inattesa». Giusto come accade al sottoscritto.

florio santini

 

Serendipity*

Sempre mi piacque, sempre,
andare in cerca di qualcosa
e trovarne, invece, un’altra...
Per tutta la vita,
incontrai inattese scoperte.
Il mondo interessava, perché nuovo:
simboli e idee mi piovean addosso
in quel confuso arrancare,
autentico momento di magia,
dove nessun programma m’obbligava.
Felicemente allucinato,
trovavo ciò che non cercavo,
cercavo ciò che non trovavo...
Passai così di scoperta in scoperta
e vissi secondo questa parola inglese,
che non conoscevo.


* Anche finire ad Otranto fece parte del gioco, quando seppi che proprio il Walpole del Castello aveva inventato il termine in cui mi riconosco!

 

 

Poesie di Pierluigi Albertoni

Fermare le ore felici
che continuano a passare


Confuso? Oh sì confuso,
per il prima, per il dopo
per il poco che ho dato,
per quanto non ho capito,
per aver sperperato
ogni logica possibilità!

Carico di breve memoria,
assolutoria ragione,
circoncisione di pensieri,
veri grumi neri di
passioni! Per cui le
ragioni sono sempre
processi alle intenzioni

Gloria! Sì gloria
al peccato, al peccatore
al condannato dalla storia,
a chi è graziato,
e a chi può sperare
in clementi assoluzioni!

Le conclusioni? Verranno.
Non spingete per entrare
dovete aspettare!


La loquacità
dei sentimenti.
L’amoroso
concedersi dei corpi.
Gli stanchi silenzi
delle stanze vuote.

Soltanto Dioniso
può fugare
le medianiche gelosie,
scoprire le malie
della tua scivolosa
femminilità.

La gelatinosa macchia
che timbra l’amplesso,
il cuore affaticato
per il troppo palpitare,
difficile è rubare
il tuo grido d’amore
fermare le ore felici
che continuano a passare.
Le tribolazioni sopite
dall’inevitabile progresso,
l’ingresso tecnologico
di nuove invenzioni;
situazioni di benessere
che ottundono la memoria.
La storia? Oh sì la storia
quotidiana, con la maglia
di lana spessa, lo scaldino,
il rampino dell’economica.
La ghiacciaia zincata,
la moscherola lasciata
inutilizzata sul balcone.
Esperienze raccontate,
di normale quotidianità
di mezzo secolo fa.
Non favola per pupi,
né letargo di commissioni;
né scissioni generazionali
con stupidi candori epocali.
No! era il letargo dei sensi
la ridda dei buoni sentimenti
l’abbecedario e il Cuore.
Garrone e il tricolore
la farina incruscata
la cotognata e l’olio di merluzzo.
La piuma di struzzo sul cappellino
il giardino della felicità.
Scorci naifici di bozzetti
tocchetti di zucchero colorato
rubato sul mercatino
degli o bei o bei, per lei
e per il mondo che verrà.


Gli avvenimenti ristretti dal tempo.
La suddivisione di una narrazione
le cui linee di demarcazione
si sfaldano su melmosi fondali.

Alla lunga, sono gravose catene
noiosi attimi sospinti dal vento:
cocci di sentimento e d’immagini
che d’improvviso invadono la mente.

Assente è l’impulso di rivederli,
alieno il luogo e i personaggi:
fantasmi del rimorso e della nostalgia,
dell’intrigante malinconia,
figlia bastarda della personalità.

Pervaso dal monologo del silenzio
non sento rimprovero o pentimento,
né la cieca, deplorevole speranza.
Mi assolvo e mi appresto
a cancellare le prove compromettenti,
gli indecifrabili segmenti presenti
nel mio diario di qualche anno fa.


Sparategli!
Fatelo per il Mondo.
Sparatemi!
Perché in fondo
la condanna
è nel volto
degli stessi avi.
Incisa nella memoria
degli ignavi parenti
nelle menti di chi
si rifiuta di ricordare.

Sì ammazzatelo
o ammazzatemi!
Non c’è modo migliore
per riannodare
il pestilente pensiero,
per confondere
il demone nero
del verdetto finale.

Trasuda il muro
umore umano
prima che la saetta
irrompa nel vano
cieco dei ricordi.

Perversi pensieri
attizzati dal sogno
sedimentano il poema
della sua speranza.
Astrusi incastri
di illogiche parole;
connessione di fole
della sua infanzia.

Gelato il canto d’amore
gelate le ore del desiderio
inutile ricordare.
Soltanto un fiato
può riannodare il filo
ridare il respiro
all’uomo assediato.


Inspiegabile situazione tra odio e amore,
tra raziocinio e ardore difficili da coniugare.
PONDERAZIONE
ISTINTO
Inserimento nella crisi dei significati
voluti o trovati per salvarsi la coscienza.
La meschinità si sfrangia in una nuvola strana
in una fata morgana che ti fa delirare.

 

 

   
   
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