Dicembre 2002

FANTASIA POPOLARE

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L’impatto emotivo
dei linguaggi musicali
Sergio Bello  
 
 

 

 

 

Siamo
nel campo della
musica popolare,
che frequentemente
vuol dire musica
di protesta, di
nostalgia, di spleen, di fatalismo come resa a una sorte
matrigna.

 

Bella o brutta, popolare o colta che sia, la musica arriva al cuore ed è, secondo il giudizio di molti, il suono dei nostri sentimenti e delle emozioni umane. Che la musica e le emozioni siano strettamente connesse, e che l’una non possa esistere senza le altre, è un’idea ovvia, e quasi banale. Chiunque si avvicini alla musica, come ascoltatore, esecutore o compositore (anche autodidatta), non può non ammettere che la ragione principale del suo interesse sia legata in qualche modo a un’esperienza sensoriale. Tuttavia, gli aspetti emotivi dell’ascolto musicale hanno sorprendentemente ricevuto pochissima attenzione nei poco meno di cinquant’anni che ci separano dalla pubblicazione di Musica, emozione e significato, di Leonard B. Meyer, il primo a parlare in termini concreti della rilevanza delle emozioni in musica secondo le teorie della Gestalt.
Nel frattempo, la psicologia e la filosofia della musica, da una parte, e la psicologia della percezione e delle emozioni, dall’altra, hanno sviluppato originali percorsi autonomi e, almeno in apparenza, distinti. Music and Emotion, un volume oxfordiano appena edito per la cura di John Sloboda e Patrik Juslin, tenta per la prima volta di raccogliere in un’antologia i contributi di autori che da diverse angolazioni hanno cercato di spiegare che cosa renda la musica così speciale e diversa rispetto alle altre forme dell’arte, e di fare il punto di quel che si conosce oggi della complessa relazione tra musica ed emozione. Si tratta di una raccolta di venti saggi di alcuni tra i più autorevoli studiosi di “scienze musicali” interessati, oltre che alla musica in sé, anche alla sua azione sul corpo e sull’anima.

La prima sezione del testo presenta una rassegna integrata delle diverse prospettive delle scienze umane con i contributi di filosofi, psicologi, musicologi, biologi, antropologi e sociologi chiamati a chiarire che cosa siano le emozioni musicali e in che modo possano aspirare ad una trattazione a parte, nell’attuale ricerca scientifica. Nella seconda e nella terza parte l’attenzione si sposta sul versante dei compositori e dei musicisti, e alle strategie espressive della comunicazione, al di là delle note in cui si articola la musica. La quarta e ultima sezione perviene al capolinea della musica: l’ascoltatore. Tutto si gioca nel tentativo di dare una definizione delle componenti emotive dell’ascolto e di spiegare come i nostri sentimenti siano guidati, stimolati e influenzati dalla musica.
Qui, siamo nel campo della musica popolare, che frequentemente vuol dire musica di protesta, di nostalgia, di spleen, di fatalismo come resa a una sorte matrigna, di speranza accesa dallo spirito d’avventura, di liberazione da una condizione disperata e non più difendibile sul piano della sopravvivenza, e anche di contestazione non disgiunta da istanze ideologiche. I canti degli emigranti/emigrati fiorivano per naturale spontaneità, erano facilmente orecchiabili, si diffondevano con sorprendente velocità. E molto spesso si identificavano geograficamente per l’uso del dialetto. E’ il caso del canto brianzolo “Ciapa la rocca e ‘l fus”: “Ciapa la rocca e ‘l fus / che andem in California, / andarem in California / in California a stopà i bus! // Gingin bell bell - oè oè oè / gingin bell bell - gingin bell bell / oè lè lè. // Stoppaa che avremm i bus / i bus in California / piantaremm la California / tornarem con rocca e fus. // Gingin bell bell - oè oè oè / gingin bell bell - gingin bell bell / oè lè lè”.
Di soli quattro versi, invece, un ritornello trevigiano: “O mamma fêmi la dota / che in ‘Merica voi ‘ndar! / Ma cossa xela ‘sta Merica? / L’è ‘n mazzolin de fior”.
E sempre dell’area di Treviso sono quattro versi con tema emigrazione: “Andiamo in Transilvania / a menar la carioleta / che l’Italia povereta / no’ ha bezzi da pagar”.
Veneto, invece, un canto speranzoso, se non proprio intriso d’entusiasmo, alle soglie della nuova avventura: “America America / si campa a meraviglia, / andiamo nel Brasile / con tutta la famiglia. // America America / si sente a cantare, / andiamo nel Brasile, / Brasile a popolare. // Lavoratevi i campi, / noi andiamo in America!”.
Dal Friuli: “Cui sà il gno moro / dulà c’al è / dulà c’al va / (biat mai lu!). / Al è in Gjarmanie / a fâ scudielis / a fâ plàneli / a fâ modòn / al è in Gjarmanie / a lavorà”.
Un canto raccolto nel Lazio, area di Viterbo, con connotazioni di tipo politico: “Un giorno andando in Francia / in pover abito borghese / e pochi soldi e molte spese / per cercare di campà. // Ringraziamo ‘sta nazione / che ci accoglie tuttiquanti, / siamo poveri emigranti / che andiamo a lavorar. // Maledetto ‘sto governo / maledetti ‘sti signori / che non pensano ai dolori / di chi campa di lavor. // Noi partiamo con rimpianto, / con in cuore la tristezza, / ma la casa che ci aspetta / un bel dì ci rivedrà. // O compagni che restate, / combattete anche per noi, / anche lontani siam con voi / pronti a batterci e a lottar”.
Rattenute le emozioni (la paura dell’ignoto, la mozione degli affetti, il legame onfalico con la madre e la trasposizione religiosa verso l’altra Madre) in questo canto siciliano: “Iu mi nni vaju a’ America, Rusina, / unni si vannu a buscanu li grana. // Si mi vo’ beniveni appressu a mia, / a’ me fortuna vogghiu dari a tia. // Si me vo’ beni fatti a truscitedda, / salutati l’amici da vanedda. // Iu vasu a me matruzza criatura / e sugnu prontu pi’ chist’avventura. // ‘A Matri Santa n’avissi a’ aiutari, / ca a’ America furtuna avemu a fari”.
Ironia piuttosto afosa di uno spirito (forse) eccessivamente disincantato, in questo canto del territorio di Brescia: “Cara moglie di nuovo ti scrivo / che mi trovo al confin dela Francia / anche quest’anno c’è poca speransa / di poterti mandar dei danè. // La cucina l’è molto asai cara / e di paga si piglia asai poco / e i bresiani se ne vanno al galopo / questa vita la poso più far. // Cara moglie di nuovo ti scrivo / di non darla né a preti né a frati / e dalla pure ai più disperati / che nel mondo la pace non ha”.

Tutta la forza della maledizione umana, dell’invettiva, contro la malasorte (identificata nel treno), in un canto di quattro versi molisani: “Pozz’èsse accise ‘u trene e chi lu tire/ che m’ha purtate lu figlie a Geresedire. / Pozz’ess’accise ‘u trene e chi lu tocche / che m’ha purtate ninne a Nove-Iorche”. Tema riecheggiato (con identificazione della sorte avversa nella ferrovia) in questi altri quattro versi, raccolti anche nella Puglia centrale: “Maledetta la ferrovia / e l’ingegnere che la disegnò, / lo mio amore è andato via / e chi sa quando lo rivedrò”.

Per chiudere questa breve rassegna, un classico del Nord e un superclassico che, pur essendo del Sud (Napoli, ovviamente), ha fatto e rifatto il giro del mondo.
“Trenta giorni di macchina a vapore / nella Merica ghe semo arrivati, / ma nella Merica che semo arrivati / no’ abbiamo trovato né paglia né fien. // E Merica, Merica, Merica, / cossa saràla ‘sta Merica? / Merica, Merica, Merica / in Merica voglio andar. // Abbiam dormito sul nudo terreno / come le bestie che va a riposar. / E la Merica l’è lunga, l’è larga / circondata da fiumi e montagne, / e co’ l’aiuto dei nostri italiani / abbiam formato paesi e città. // E Merica, Merica, Merica / cossa saràla ‘sta Merica? / Merica, Merica, Merica, / in Merica voglio andar. // E co’ l’aiuto dei nostri italiani / abbiam formato paesi e città”.
Notissima, infine, la melodia partenopea: “Partono ‘e bastimente / pe’ terre assai luntane ... càntano a buordo: so’ napulitane... // Càntano pe’ tramente / o’ golfo già scumpare / e ‘a luna ‘a miezz’o mare/ nu poco e’ Napule fa vedè. // Santa Lucia, luntan’a te / quanta malincunia! / Se gira ‘o munno sano, / se va a cercà fortuna... / ma quanno sponta ‘a luna / luntano ‘a Napule nun se pò stà!”.

A differenza di altri giacimenti musicali locali (canti delle mondine, canti dei trainieri, canti grichi e/o grecanici o albanesi, canti dei minatori, questi ultimi ancora quasi del tutto da riscoprire), i canti dell’emigrazione sui vari registri dialettali hanno unito il proletariato dell’intero Paese, conferendogli i caratteri distintivi di una massa di esuli della fame, nello stesso tempo magmatica, disgregata in gruppi e piccole comunità solidali, perduta al faticoso progresso della nazione, che proprio le espulsioni demografiche avevano per la loro parte determinato. Restano, a testimoniare tutto questo, i ritmi lenti, e quasi sempre corali, di questa straordinaria musica popolare, oggi fruibile non senza un’immediatezza emotiva per le drammatiche ragioni che la determinarono.

   
   
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