Dicembre 2002

 

Indietro
“I treni” di Giovanni Bernardini
Andrea Calabrese  
 
 

 

 

 

Senechianamente
la vita, giusta
o ingiusta, scorre
inesorabile e veloce
ed è guidata
da occulte mani.

 

Il romanzo sperimentale I treni nasce dopo un lungo periodo di elaborazione e scrittura, che va dal 12 marzo 1967 al 24 febbraio 1968, e un’altrettanto lunga fase di copiatura e revisione che si estende pressappoco dalla fine della redazione all’estate-dicembre 1969.
L’opera, letta ancora manoscritta dal figlio diciottenne (che annotò alcune osservazioni di cui l’autore tenne conto), circolò poi dattiloscritta in una ristretta cerchia di amici, fra i quali Nicola Carducci, Michele Tondo e Arcangelo Leone De Castris. Nella stesura originaria compariva una citazione di Samuel Beckett che Nicola Carducci, dopo aver letto il dattiloscritto, aveva consigliato all’autore di inserire nel foglio di guardia:

  …io cito nell’ordine pressappoco la mia vita ultimo stadio quel che ne resta frammenti la sento la mia vita la imparo più o meno nell’ordine io cito un dato momento lontano dopo un tempo enorme poi a cominciare da qui da questo momento e seguendo l’ordine naturale dei tempi enormi…

Questa citazione viene definita da Alfio Pasqua «illuminante». Affermazione che va condivisa pienamente in quanto l’opera del premio Nobel per la letteratura 1969 nasce in un uguale contesto di sfiducia per le «magnifiche sorti e progressive», in un periodo in cui, dallo slancio ottimistico del dopoguerra, si era passati alla visione apocalittica della condizione umana del nouveau roman e all’esasperazione dell’esistenzialismo del teatro dell’assurdo, del quale Beckett è appunto il principale interprete.
Solo nel 1986 l’autore fece avere ad Aldo Bello, direttore della Rassegna Trimestrale della Banca Popolare Pugliese Apulia, il romanzo. Nella sua pubblicazione in quattro puntate, avvenuta in occasione del venticinquesimo anniversario della rivista, non compare però la suddetta citazione.
Questa opera di non facile lettura ha incontrato fin dagli inizi una difficoltà oggettiva di pubblicazione a causa della evidente discrasia tra gusti del pubblico, tendenti al romanzo disimpegnato, e la difficile fruibilità di un romanzo intellettualmente involuto. Tuttavia la incontestabile qualità artistica ha fatto sì che fosse subito notato dal pubblico letterariamente più smaliziato e soprattutto dalla critica, con la pubblicazione di alcune sue pagine su Prosatori e narratori pugliesi del Novecento, un’antologia del 1969 a cura di Ulivi e Accrocca.
Il riconoscimento più prestigioso l’ha ottenuto però nel 1971 al nono Premio letterario per narrativa inedita “Rapallo - Prove”. L’autorevole giuria, composta fra gli altri da Giorgio Barberi Squarotti e Giuliano Manacorda e presieduta da Maria Bellonci, fece solo due segnalazioni, una delle quali andò appunto all’opera di Bernardini. L’anno successivo comparvero alcune pagine de I treni, accompagnate da una premessa dell’autore, anche nel numero della rivista fiorentina Quasi.
I treni ha una particolare importanza in quanto ha costituito un magma dal quale col tempo lo scrittore ha tratto sia racconti sia poesie. Questa paziente opera di estrapolazione e trasformazione ha dato i primi frutti fra il 1979 e il 1980 con la redazione di quasi tutte le poesie presenti poi nella sezione Segni del diluvio, la più consistente e importante parte della raccolta omonima del 1981. Su ventisei poesie che costituiscono la sezione solo sei (La capretta, Rinfresco, A Paolo che parte soldato, Segni del diluvio, Concorrenza e Psicofarmaci) non appartengono al coacervo de I treni, partecipando tuttavia alla stessa atmosfera e derivando da una stessa ispirazione di fondo.
I racconti derivati dal romanzo hanno avuto invece un iter letterario diverso, in quanto sono nati da una volontà (oltre che necessità) di “normalizzazione” perché almeno una parte de I treni potesse essere pubblicata in volume. I racconti, nati dallo «sbroglio della matassa» dell’intreccio e dalla sua linearizzazione, sono: Allegoria (semiseria) del Viaggiatore, L’agguato e Epilogo di Colomba e di Ego suo pronipote, riuniti poi in Allegoria (semiseria) del Viaggiatore e altri epiloghi del 1984. Gli altri due racconti compresi nella raccolta, Lento con duolo e Probabile ritratto d’autore, invece, non sono tratti dalla stessa fonte ma derivano anch’essi da uno stesso “ambiente” di fondo.
I treni non sono un insolito e tardivo esperimento, nascono dopo un lungo iter artistico di prove, tentativi e sperimentazioni di nuovi orizzonti letterari e di nuove ipotesi di scrittura. Questo romanzo, pur costituendo un notevole distacco dal passato, in realtà non rappresenta il primo esempio di scrittura sperimentale di Bernardini. Egli si era già cimentato in precedenza in esperimenti stilistici che si allontanavano dalla sua più conosciuta maniera classica e composta di scrivere, nonché dalla tematica meridionalista. In questi saggi di stile, nei quali però era la tematica psichica ed esistenzialistica ad essere maggiormente in risalto, seguiva d’altronde la sua consueta vena di inquieto esploratore di nuovi campi narrativi.
Ad esempio nel racconto Una sera in città5 del 1960, con un delicato scavo psicologico, delinea con rara finezza la figura di un inetto incapace di adeguarsi al mondo circostante.
In Altri giorni, che è invece del 1962, il classico triangolo moglie (Angela), marito, amante amica della moglie (significativamente chiamata Eva), si apre a una rappresentazione intimistica, a un diario interiore del protagonista. «Saggio di approfondimento e di ampliamento della tematica esistenziale» nel quale il monologo interiore, quasi flusso di coscienza, si sviluppa in una serie di brevi frasi che si susseguono paratatticamente, sorta di macchie di un quadro impressionista.
Sempre del 1962 è Queste sere disperate prima redazione di Lento con duolo nel quale «il lettore è inchiodato al fascino di quella che gli appare una trasposizione oggettiva delle tensioni del sentimento e dell’inconscio, in cui ognuno può riconoscersi e rispecchiarsi». Racconto dell’epilogo di un amore strettamente legato all’aura de I treni, soprattutto per la comune rappresentazione claustrofobica di atmosfere “ferroviarie”.
Un’ulteriore prova la dà in Quest’inverno ti racconterò, racconto composto nel 1966 ma pubblicato la prima volta nel 1985, nel quale un’evidente figura autobiografica di insegnante viene colta durante la lezione da un improvviso ricordo di un’esperienza di lotta partigiana. Gli studenti seguono assorti il racconto del professore esitante per il riaffiorare di vecchi dolori, forse di vecchi amori appena accennati.
Peraltro il primo abbozzo di Quest’inverno ti racconterò è costituito da uno scritto del 1962, rimasto inedito per molti anni e pubblicato in due puntate solo nel 1984. Tardivo esercizio di stile (e la sua seconda parte: Insistenza nel tardivo esercizio di stile) rappresenta il vero punto di congiunzione fra la scrittura moderatamente sperimentale di Quest’inverno ti racconterò e lo sperimentalismo più spinto de I treni, contenendo spunti e immagini elaborate poi in entrambi.
Quindi negli anni Sessanta pur continuando il nostro autore a pubblicare opere nelle quali come in Provincia difficile è al centro la tematica meridionalista e lo stile segue la consueta poetica realista, non smette tuttavia di tentare nuove strade. Profondamente influenzato dal dibattito intellettuale contemporaneo, la strada che era ovvio imboccasse era appunto quella del romanzo sperimentale.
Infatti, caduti gli equilibri politici del dopoguerra con la crisi della sinistra del 1956, e messi in discussione i modelli letterari neorealistici, che subivano una costante involuzione e perdita di significato in un contesto radicalmente mutato, la letteratura italiana si avviava verso un profondo mutamento. Si rifiutava ormai la letteratura populistica e volgare del tardo neorealismo e si passava da una rappresentazione brutale ma disimpegnata della realtà ad una volontà di incidere sulla stessa attraverso la sperimentazione di nuovi linguaggi. Questa forma di critica e di volontà di cambiamento del vecchio concetto di letteratura radicalizzandosi è divenuta poi agli inizi degli anni Sessanta, con la corrente neoavanguardistica e con il Gruppo 63, rifiuto totale.
I treni nasce in questo contesto e risponde a pieno titolo a queste esigenze, attraverso il rifiuto della comunicazione rappresenta implicitamente una critica spietata della civiltà consumistica: «un’operazione tutta giuocata sul filo di una scrittura al limite rischioso del grado zero e del non sense».
Analizzando il romanzo scaturisce soprattutto la sua strutturazione in blocchi, in unità narrative nelle quali i personaggi agiscono, sorta di quadri separati dagli spazi vuoti di un muro o di atti di una tragedia. In questi quadri o atti i personaggi, principali o secondari, recitano il proprio copione non comunicando però mai veramente fra di loro, pronunciando parole che non sono proprie. A volte, però, la suddivisione risulta attenuata dall’anticipazione di azioni del blocco successivo nel punto di transizione fra una unità narrativa e l’altra. Peraltro questa suddivisione, che assumeva maggiore risalto nel dattiloscritto, è ulteriormente attutita dall’inserimento nell’edizione a stampa di fotografie che rimandano all’atmosfera narrativa del passo.
L’autore non inserisce i personaggi in un’azione comune lineare e compiuta ma li fa muovere separatamente, senza che al di fuori del lettore nessuno di loro sappia dell’esistenza dell’altro, finché incontrandosi non interagiscono fra di loro intrecciando le proprie storie.
Questi ultimi, sorta di marionette impazzite in balìa dell’autore, non hanno dei nomi propri ma vengono chiamati semplicemente con il sostantivo che ne individua il tipo, che definisce la funzione che questi hanno nel romanzo. Creando così dei pirandelliani “personaggi in cerca d’autore” e inquadrandone una volta per tutte i tipi e i caratteri ad essi associati, ne accentua ancora di più la spersonalizzazione e lo straniamento all’interno di un contesto senza spazio e senza tempo, in un’atmosfera da incubo. Si ha così la “Ragazza”, che è nella costante ricerca di un anello, la “Madre” (ad essa associata) che insegue incessantemente i treni, il “Giovane-polizza” che è vittima evidente della disumanizzazione della società, poi il “Viaggiatore”, ironico spettatore di questo sfacelo e l’“Ex-ragazzo” che per lo stesso motivo si rifugia nel ricordo dell’infanzia. Compaiono personaggi apparentemente secondari come i “Direttori” (n. 1 e 2), spietati esponenti della classe dirigente che abusano della propria posizione con la Ragazza loro dipendente, e il “Casellante” con relativo “Aiuto-casellante”, cinici profittatori delle situazioni. Fra tanti personaggi minori scaltri o malvagi, l’unico umano è quello dell’“Infermiera Magra” che accudisce disinteressatamente il “Giovane-polizza” e l’“Ex-ragazzo”.
Chiari simboli della completa decostruzione di senso della società industriale e consumistica, i personaggi «si esprimono con i loro gesti come in un rito assurdo, sentono l’inutilità dell’agire», si affannano incessantemente a fare «sebbene ognuno sappia non esserci nulla […] da fare». Le loro azioni, pur compiendosi in un paesaggio irreale e amorfo, direttamente o indirettamente hanno comunque sempre a che fare con i treni, ovvero metaforicamente con la vita.
Senechianamente la vita, giusta o ingiusta (invero più spesso spietata), scorre inesorabile e veloce ed è guidata da occulte mani che muovono invisibili fili a cui tutti siamo attaccati.
I treni sono però anche una esplicita metafora del progresso che, inarrestabile al suo passaggio, non esita a calpestare i deboli che non riescono ad adeguarvisi. A chi vorrebbe che i controllori li fermassero viene risposto: «– Non si può. Noi almeno non lo possiamo. / – Allora vedete che tutto è inutile nonostante la buona volontà? / – Siamo spaventosamente condizionati […]». E poi, col gioco dello scarica barili tipico dell’ambiente burocratico: «Quando la macchina si mette in moto non è facile bloccarla. Soltanto un capostazione può farlo, che sia veramente un Capostazione».
L’immagine del treno e della stazione compare molte volte nelle opere di Bernardini; infatti, oltre ad essere già apparsa come primo abbozzo de I treni nel già citato Tardivo esercizio di stile e ad assumere valenze esclusivamente autobiografiche in Una partenza e nel primo capitolo de Il profumo dei gelsomini, compare come analogia della vita e con significati più attinenti a quelli de I treni in Stazioni.
E, semplificando le azioni dei personaggi principali nell’intreccio del romanzo: la “Ragazza”, che abita in vicinanza della stazione con sua “Madre” ed è impiegata in una fabbrica d’insegne pubblicitarie, è nella costante ricerca di un fantomatico anello, che l’autore stesso conferma apertamente essere «indizio di un amore perduto». Simbolo della perdita non solo dell’amore ma soprattutto delle illusioni giovanili e dell’innocenza, l’anello peraltro apparirà anche ne Il cofanetto.
La Ragazza, imbattendosi, nella ricerca affannosa e vana di un altro amore, nell’interessamento libidinoso dei datori di lavoro, smarrisce appunto «l’anello nel sottobosco torbido dei due Direttori», cinici profittatori del crollo delle illusioni e della posizione subalterna della stessa. Il frutto di questa violenza peraltro non viene mai alla luce per un aborto causato da una ben retribuita esplorazione con sonda fotografica del feto (assurda smania scientifica). Un esame fatto per cupidigia di denaro in un momento di profonda sfiducia e scoramento, in una fase di totale disinteressamento per la vita, tanto che grottescamente si dice che «La Ragazza ha scoperto che non vale più la pena e ride».
La “Madre”, che accompagna quasi sempre quest’ultima, è maniacalmente attratta dai treni e, inseguendoli a ogni loro passaggio, aspira costantemente a salirci nonostante venga disillusa dai direttori e dal casellante, simboli del potere e del braccio operativo di quest’ultimo. Trasfigurazione letteraria di un desiderio represso di evasione da una terra isolata e arretrata (che ha perso appunto il “treno del progresso”) e di fuga da una esistenza frustrante, la madre è ossessionata dalla voglia di partire. L’autore rende propria e patisce quella stessa sensazione d’isolamento che aveva espresso Bodini in Finibusterrae (e ricordiamo quanta importanza ha avuto questo poeta nella sua formazione) e la trasferisce quindi anche nel personaggio della madre che vuole a tutti i costi andare via da

  […] questi umili luoghi dove termini,
meschinamente, Italia, in poca rissa
d’acque ai piedi d’un faro. […]

La madre infatti è consapevole della segregazione mortificante che si vive in una terra che tiene lontani dalla storia e dalla società. E’ questo quasi il contraltare della figura ben più solida e coraggiosa di madre che ne Il profumo dei gelsomini, in maniera più rispondente alla realtà biografica, aveva rinunciato a malincuore, ma con profondo senso del dovere, a fuggire dalla patria adottiva e quindi dalle proprie responsabilità.
Personaggi non protagonisti ma importanti sono il «Direttore n. 1» e il suo subordinato «n. 2», simboli a volte ironici della classe dirigente senza scrupoli, compiaciuti capi di una fabbrica d’insegne pubblicitarie che fra le tante idee conturbanti ha quella di affiggere un’insegna che promette “Un cielo violarancio che per voi diventa un cielo di silenzio e solitudine”.
La loro è una fabbrica dalle inquietanti fisionomie di “Grande Fratello” di orwelliana memoria, simbolico esempio di come in una civiltà mercificata non solo si può vendere ogni cosa, ma addirittura si può far desiderare agli altri qualsiasi cosa si voglia.
Il “Casellante” col sottoposto “Aiuto-casellante” sono invece i tipici esemplari di una ottusa burocrazia al servizio del potere scrupolosamente ligia al proprio dovere. Tutti comunque accomunati, oltre che dall’opportunismo e dalla mancanza di umanità, per cui «un cane va trattato da bestia, una donna da femmina, un uomo non sempre da uomo», da un linguaggio inconsapevolmente “burocratese”.
Nel romanzo i personaggi che vivono a contatto con i treni sono quindi o le vittime del progresso o gli inconsapevoli carnefici, indifferenti e lontani da questi sono invece i crudeli mandanti.
I personaggi-chiave del romanzo sono però il “Viaggiatore”, il “Giovane-polizza” e l’“Ex-ragazzo”, tre manifestazioni diverse di uno stesso personaggio latente: l’autore.
Il primo è protagonista di una’“Allegoria (semiseria) del Viaggiatore”, per usare il titolo del racconto di cui costituirà parte fondamentale, di un lungo viaggio in treno (diamo per scontato che si tratta del viaggio terreno) attraverso un mondo che assume i connotati di un gigantesca farsa.
Il treno tocca la natia Pescara, «la città dove un giorno sei nato, un giorno ed è come non esserci mai nati» e attraversa l’Abruzzo dal quale spicca poeticamente il gruppo del Gran Sasso, cioè «la Bella Addormentata che i pastori chiamano così e badano di non svegliare». La dolce figura della Bella Addormentata accompagna tutto il viaggio, «emblema dell’infanzia e di una pace perduta, nell’incalzare delle vicende quotidiane, simboleggiate dal ritmo ossessivo dei treni».
Con ironia tagliente ed amara il viaggiatore discute, con i compagni di viaggio che si susseguono ad ogni fermata, di progresso, di guerre e di assurdi ritrovati scientifici. «E’ la vita l’oggetto della conversazione, la vita col suo groviglio di problemi: la condizione dell’uomo moderno esaltato dal progresso e dallo stesso progresso minacciato».
Con profondo sarcasmo è favorevole alla creazione di capsule per l’ibernazione dei cadaveri dei condannati a morte, per una successiva eventuale riabilitazione e conseguente resurrezione in tempi migliori. «Considerate le tante riabilitazioni post mortem cui abbiamo assistito» l’invenzione risulterebbe estremamente utile per l’umanità. L’unico problema rimarrebbe il costo elevato dell’operazione, ostacolo superabile con un aumento delle guerre e con un conseguente incremento della «produzione di capsule surgelanti e quindi il loro calo-prezzo, il che in ultima analisi è opera quanto mai filantropica».
Con estrema disinvoltura e leggerezza il viaggiatore discute semiseriamente delle «magnifiche sorti e progressive» che si prospettano per l’umanità. Il tono ironico è sintomatico del disincanto ma anche della mancanza di esperienza del personaggio, che rappresenta una trasfigurazione letteraria dell’autore in età non ancora matura, sorta di «ritratto dell’artista da giovane».
La responsabilità comincia a sentirla più in là con la nascita del figlio, infatti prima si sentiva «così sicuro, ilare quasi ed anzi soprattutto ironico», dopo si rende conto che non «è possibile più essere un viaggiatore maiuscolo, parlare di capsule ibernanti, suggerirle. Che cosa è cambiato? Se non questo Figlio cresciuto a cui abituarsi è molto difficile».
Il “Giovane-polizza” è la rappresentazione di un’altra fase dell’uomo Bernardini, quella della maturazione e della definitiva caduta delle illusioni giovanili, della sfiducia nel presente.
Trovato malridotto sui binari dal “Casellante” e dal suo “Aiuto” nel corso della loro ossessiva opera di controllo, sulle prime, caratteristico del disinteresse che li contraddistingue, non viene identificato quale uomo. E’ stato malmenato da qualcuno ed è ubriaco: «ha voglia di birra, adesso birra dopo tanto vino e liquori», desiderio sempre negato dai presunti soccorritori finché non afferma di poter devolvere loro un quarto della sua assicurazione sulla vita. Opportunisticamente soccorso e rifocillato, viene caricato su un treno merci diretto verso la stazione Nord, per essere poi ricoverato nello stesso ospedale nel quale si trova l’“Ex-ragazzo”. E’ poi dimesso dopo le amorevoli cure prestate dall’“Infermiera Magra”, con la quale a scapito della nascente amicizia con l’“Ex-ragazzo” tenta un approccio, infatti «assente l’Infermiera il rapporto fra costoro fiorirebbe allo stato puro, raro rapporto d’amicizia nato e cresciuto da diversa esperienza di dolore».
Tornato alla vita quotidiana, lo assale incessantemente il rimorso di aver demolito la vecchia casa di Colomba, sua mitica prozia. I passi che descrivono frammentariamente e in modo sempre allusivo questa vicenda saranno poi riuniti nell’Epilogo di Colomba e di Ego suo pronipote, altro racconto tratto da I treni e confluito poi nell’Allegoria (semiseria) del Viaggiatore e altri epiloghi.
Peraltro, l’argomento è strettamente autobiografico in quanto l’autore, all’incirca negli stessi anni di redazione dell’opera, dovette realmente ricostruire dopo dolorose esitazioni la malridotta casa paterna. La demolizione della vecchia casa corrisponde al definitivo crollo del passato, alla profanazione delle memorie lariche da parte di un pronipote (poi chiamato Ego) destinato anch’egli ad un inevitabile epilogo. La morte, bestia orribile, arriverà dopo un lungo appostamento e L’agguato (prosa che verrà anch’essa inclusa nell’Allegoria (semiseria) del Viaggiatore) è appunto il titolo della descrizione di questa attesa.
La terza fase, corrispondente alla descrizione di un improbabile quanto amaro futuro dello scrittore, coincide con la storia dell’“Ex-ragazzo», estrinsecazione della presente disperazione totale e del conseguente rifugio nel ricordo e nel sogno «in quella forma del dormire piena d’immagini ch’è un altro modo di vivere più vero del vivere». La sua condizione di malato bisognoso delle materne cure dell’infermiera e il suo continuo sognare o fantasticare il passato, il suo ricordare quando da ragazzo «camminava lungo i binari per fare il treno, lui in testa, dietro gli amici» è il frutto di una regressione nell’infanzia causata dal rifiuto del presente e dalla paura del futuro.
Il “Viaggiatore” e l’“Ex-ragazzo” sono accomunati da un doloroso passato fatto di ricordi di guerra e da un presente che ruota direttamente o indirettamente intorno ai treni. I ricordi di guerra sono drammatiche testimonianze tratte dall’esperienza personale di Bernardini nel corso della seconda guerra mondiale. Una frase inclusa in un passo raccontato dall’“Ex-ragazzo” è addirittura tratta da una lettera in linguaggio cifrato ricevuta all’epoca e presente in un suo diario inedito:

  Erano mesi bigi e lunghi di terrore, grida alte nelle strade e il richiamo delle ciliegie. «Oggi è tempo di ciliegie. Se vuoi venire a coglierle ti aspetto alle due precise», ma non veniva il ragazzo corso giù verso la caserma saccheggiata e i vagoni pieni di farina.

Il “Viaggiatore”, mentre legge sui giornali della guerra in corso in Israele, torna con la memoria ai giorni in cui durante l’ultima guerra mondiale Pescara fu bombardata dagli Alleati per impedire la ritirata dei tedeschi:

  31 agosto, il ponte restò indenne nonostante ripetuti tentativi dei bombardieri. Era scritto: dovevano essere mine testadimorto a farlo saltare. Ponte bianco e largo donde la città vecchia scompariva in coltre lattiginosa[…].

Episodio ricordato anche in un brano che darà poi vita alla drammatica poesia Bombardamento: «Volavano a quota 2000, / obiettivo il ponte, / 31 agosto, ore 13.[…]».
A conferma della coincidente identità fra i personaggi questi sono gli stessi ricordi che vengono attribuiti all’“Ex-ragazzo”:

  Queste cose raccontava l’Ex ma le ricordava anche il Viaggiatore: 31 agosto, ore tredici. Il ponte restò al suo posto nonostante quell’iradidio. Dalla pineta vedono le bombe precipitare a grappoli, le case fendersi e scomparire […].

Tutte testimonianze che trovano poi riscontro nella realtà biografica dello scrittore, come possiamo costatare dalla lettura di un suo articolo:

  Pescara, mia città natale, cominciò ad essere bombardata dalle fortezze volanti che miravano a tagliare la ritirata ai tedeschi ma in effetti producevano danni enormi alle abitazioni e alla popolazione civile. Allo scopo di stare un po’ al sicuro i miei ed io ci eravamo rifugiati nel cascinale d’una famiglia amica a metà strada fra Porta Nuova e la Pineta dannunziana.

Come abbiamo già detto i personaggi principali sono legati da un destino comune e a volte si incontrano o si sfiorano soltanto. Molto importante è anche il rapporto che questi hanno con la “Ragazza”, costantemente in cerca dell’amore perduto. Dopo una considerazione filosofica di quest’ultima sul concetto dell’oggi, secondo la quale «solo nel presente si è. […] Quindi noi siamo in momenti successivi ognuno dei quali costituisce di volta in volta il presente», l’autore, volendo riassumere le eventuali discussioni in proposito tra la Ragazza e i tre personaggi, in realtà definisce i rapporti fra di loro:

  […] il rapporto Viaggiatore-Ragazza, se rapporto è lecito chiamarlo, si configura nei pochi istanti durante i quali il treno su cui il Viaggiatore continua a viaggiare diretto al nord ha sfiorato la casa presso la ferrovia dove la Ragazza abita insieme alla madre […] Più probabile una discussione del genere con l’Ex-ragazzo ricoverato in uno degli ospedali cittadini, se di questo personaggio ella non ignorasse perfino l’esistenza. Altra possibilità offerta alla Ragazza, non prendendo lei in considerazione un dialogo con la Madre, è stata quella di rintracciare il corpo svenuto del Giovane-polizza […].

Eccettuato a priori un incontro con l’“Ex-ragazzo” che, arrivato anch’egli all’epilogo della sua vita prolungherà l’idillio con l’“Infermiera Magra” anche nell’aldilà, morti «non insieme però, distanziati dello spazio di pochi giorni, anzi pochissimi, a suon di trombe d’argento e angioli dorati» , l’unico incontro possibile sarà quello con il “Giovane-polizza”. Avverrà presso i binari dove è stato ritrovato, ma il rapporto non avrà al momento seguito perché la “Ragazza” presagli la mano «subito l’abbandona fredda com’è senz’anello (un attimo l’ha sperato)». Non avendo ancora smesso di cercare il mitico quanto illusorio Amore, questa rimanderà il contatto ad un prossimo futuro. Rinvierà il rapporto a quando, perse tutte le speranze nel “sottobosco” dei Direttori («forse dacché ha riconosciuto che un anello la cui esistenza è mantenuta sul bilico di un’ipotesi non serve a salvarla»), costatato che si può andare avanti solo «con un briciolo di senno e due di demenza», perso anche il bambino «nato morto quasi per riluttanza istintiva a venire al mondo», si avvicinerà anch’essa al vizio dell’alcool. E’ l’ultimo approdo verso la disperazione quando

  Ormai si è capito come stanno le cose. La Ragazza trangugia whisky appollaiata sul piano, contorta e disforme. Nessuno danza a quella musica del disco nero-luttuoso, la voce lontana, già arcaica, […]

e allora

  Le parole non trovano eco, tutti continuano a masticarsi in solitudine il silenzio, sebbene qualcuno si appoggi all’altro e dovrebbero avere l’aria di amarsi molto. E’ stabilito che alle parole non vale la pena dare eccessivo peso. Si ingoia whisky pertanto e ci si aggomitola quanto più possibile, anche a ritmo serrato. […]

Il “Giovane-polizza” però vuole instaurare un dialogo con lei, andare oltre il banale rapporto fisico:

  La ragazza parla. Ma quando ha conosciuto questa ragazza? ma dove? come mai in questa festa? trovarsi a ballare, per dire che cosa, per fare? Certo, per fare. Bisogna dopotutto, in sì giovane età.

Lui che non vorrebbe aprire totalmente gli occhi sulla realtà, desidererebbe infine parlare della vita e dell’amore con chi a sua volta non ne vede più il senso:

  – L’amore difatti è un’ardua conquista.
– Pressoché impossibile. Se n’è accorto?
– Non vorrei accorgermene.

Tutti i personaggi principali sono estremamente pessimisti sul futuro dell’uomo, secondo il “Viaggiatore” per salvarsi bisognerà

  […] distinguere con saggezza fra i valori pericolanti per gettarne alcuni in pattumiera, altri acquisirli alla nostra vita se non altro a scopo di darsi illusione tutto proceda ottimamente in mezzo a un mucchio di cocci.

Perché ormai «camminiamo su rasoio tanto affilato che finiremo col tagliarci piedi gambe e a dir poco i testicoli». Secondo l’“Ex-ragazzo” invece «non riusciremo proprio a salvarci se non proveremo di nuovo gusto alle favole».
Tutti pessimisti dunque (oltre che accomunati da un comune destino di morte) ad eccezione della “Madre”, che rappresenta, in tanto profondo scoramento, l’unica apertura verso una speranza seppur lieve in un futuro:

  […] non corre, travalica con passo dignitoso il binario, accende in sé nuovi lidi e speranze, smoccola i grandi ceri verticali e solenni in attesa d’una camera ardente dove collocarsi e su di sé gemere e imprecare, indi placata accogliere il tempo senza battere palpebra, coordinare l’atto del mattino con quello della sera, dare alla vita senso non d’accatto e querimonia, bensì di volitiva e fiduciosa azione.

Lo stile usato da Bernardini ne I treni è estremamente vario, avendo usato (o felicemente imitato) con disinvoltura vari linguaggi che vanno dal medioevo ai giorni nostri. I suoi registri stilistici quindi spaziano dall’imitazione di un italiano antico e aulico alla Iacopone da Todi, fino alla caricatura della moderna prosa lirica:

  Il mare tace, si mangia – rimangia la sponda senza rumore, chiaroscurale, un’apertura a oriente, dove s’infila a un tratto una fetta rossa, l’orizzonte fiata silenziosa lontananza, la fetta rossa vi balza su in groppa, al galoppo verso gli ormai prossimi confini del giorno.

O all’ironica contraffazione televisivo-pubblicitaria della mitologia della letteratura classica:

  I cavalli dell’alba dopo aver rincorso il treno tutta la notte lo sorpassano facilmente, ciascuno raccapezza una saponetta e può in rigoglio di spirito e corpo, asciugamani al collo, uscire dalla ritirata pettinandosi.

Da un uso ironico del linguaggio freddo e distaccato usato dalla saggistica:

  In quei paesi dove ancora vige la pena di morte, allo scopo di ovviare a meno infrequenti di quanto si creda errori giudiziari, l’uso di capsule ibernanti dovrebbe essere imposto dalle leggi anche per rendere ai giudici meno tempestosi i sonni.

Alla mimesi di un linguaggio popolare a metà strada tra l’italiano e il dialetto:

  – A noi la terra si apriva sutta alli piedi ch’era uno di quelli tremuoti mai sentiti da sessant’anni a sta parte, ca quandu ci ccappanu nu ssai si esci vivu e hai voglia a preare tutti li santi, a chi tocca tocca, scampu nu esiste.

Dal pungente sarcasmo con il quale imita il “burocratese”:

  Il suo lieve ritardo, quattro minuti forse, viene debitamente rilevato e puntualmente notificato all’interessata con lettera raccomandata a mano prot. n. 4506 a firma Direttore n. 2, […] il tempo è denaro nel senso più tangibile della parola e quattro minuti, anche se scarsi, hanno valore equipollente a L. tot che a fine mese, a norma dell’art. 42 del contratto di lavoro, saranno defalcate dallo stipendio della S.V. alla quale si raccomanda più scrupolosa osservanza orari d’obbligo.

All’uso di una parlata informale e sboccata:

  […] nel mondo di là io conto d’incontrare mia zia Viria, zoppa dalla nascita, e spero con tutto il desiderio possibile di vederla raddrizzata sulle gambe, e il mio bisnonno in pace con le sue tre successive mogli e i ventiquattro figli ai quali, grandi e piccoli, prima del saluto notturno ordinava con voce imperiosa “Olà, pisciate tutti!” e ciascuno obbediva dentro il suo pitale.

Fino all’imitazione di un discorso con la erre moscia:

  La bionda afferma questi aevei le fanno pauva e si lascia affondare la mano nella scollatura fino al seno. Le fanno molta pauva ma si capisce la guevva sta pev finive. Allova questi uccellacci non passevanno sulle teste mai più o almeno non ci savà pevicolo pev la vita e pev l’amove.

Unico denominatore comune è, oltre all’abilità di spaziare attraverso diversi stili, l’uso ironico e deformato del linguaggio, la volontà nascosta di superare il suo pessimismo di fondo con un uso beffardo della parola. Tuttavia questa tendenza all’uso straniato del linguaggio deriva anche da quella fondamentale base di amarezza e di incredulità per la condizione della società, che lo fa poi spesso scivolare nell’espressione amaramente sarcastica.
Parimenti il lessico si adatta ai vari registri usati, da quello alto, aulico delle espressioni latine: “libido vivendi”, “in conspectu omnium”, “angor matutinus”; delle parole dotte e ricercate: “umo”, “cogitativo”, “augello”, “onninamente”; dei composti classicheggianti come “nottivago”, “omicidiale” o “acutangolo”; e dei neologismi come “agguatatore” per indicare chi tende un agguato.
A volte fa uso di un registro medio tramite parole straniere: “movimiento señores”, “desaparecidos” e attraverso parole moderne come “robot”, “tecnocrazia”, “teledipendenti” o di uno basso attraverso parole scurrili come “cogliomberi”, “porca”, “maiala” e tramite onomatopee come “glo-glo” e “tum-snuff”.
Quest’ultima evidente predilezione a giocare con il linguaggio gli fa creare dei giochi di parole come nel “parole sole ole le e” nel quale imita l’eco, o dei brani in cui giocosamente rifà il treno:

  Poi solleva una mano, l’Ex, poggia sulla spalla del compagno, stantuffa locomotiva qual è, alza i piedi con ritmo, ginocchia, gambe-angolo retto, stropicciano corrono i piedi a-più-non-posso-a-più-non-posso-a-più-non-posso sui binari dell’infanzia.

I treni sono un incredibile e inesauribile serbatoio di citazioni, esplicite o meno. Si va dalle evidenti reminiscenze scolastiche del virgiliano «vasto gurgite», alla ironica citazione di Carducci de Il bove con «verde il silenzio del piano», alla doppia citazione della poesia In morte del fratello Giovanni di Foscolo: «deluse a voi le palme tende» e la modificata «non altro di tanta speme oggi gli resta». Dal riadattamento di un verso della Divina Commedia (Inf. I, 83): «Non solo il lungo studio, ma anche il grande amore», al ricordo dell’Odissea mediato da Dante in:

  Non c’è tempo di fermarsi, bisogna correre, dal finito all’infinito, superare i grigi confini della Terra, ascoltare il canto delle sirene. Non mettere cera nelle orecchie né farsi legare all’albero maestro. […]

Dalla citazione di Quasimodo con «ed è subito sera» e da quella dell’amatissimo Bodini con le famose «case di calce da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia di un dado», alle «magnifiche sorti e progressive» dell’altrettanto diletto Leopardi. Fra le tante meno esplicite compare un possibile dubbio amletico-shakespeariano: «se proprio sia vivere questo camminare e discorrere o soltanto sognare», e un’auto-citazione in «Vanno i pastori in coda delle greggi / per i lunghi declivi umidi e molli. / Passano accanto ai muri dove foschi / stanno i cipressi», versi tratti da un’inedita poesia giovanile. Collegata a quest’ultima è un lungo passo che sembra vagamente ispirato al D’Annunzio bucolico e a quello de La pioggia nel pineto:

  Ebbene corrono, lei stranamente ride, s’alza in punta di piedi per non lasciar segno ma poi ricominciare più in là. Insieme stampano orme dopo orme, in ogni direzione ma sperdute sempre nella vasta solitudine. Ride la Ragazza a quel gioco da lei voluto. Sulla spiaggia deserta viene con la sera odore amaro di pini. Talvolta accade anche d’incrociare il grido risonante dall’alto delle colline, il richiamo lamentoso dei pastori che sospingono i greggi verso la Bella Addormentata.

L’autore quindi dimostra la padronanza di una vasta gamma di registri stilistici ai quali attingere nelle diverse situazioni, caratteristica peculiare di ogni scrittore che come lui fa della sperimentazione stilistica e della creatività il fulcro principale della scrittura.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000