Dicembre 2002

I LUOGHI DI ANTONIO VERRI

Indietro
Le civiltà di Badisco
Maurizio Nocera  
 
 

 

 

 

Per questo continuava a chiamare quel posto Porto Enea.
Perché così l’aveva chiamato suo padre e il padre di suo padre, fino a generazioni
di uggianesi
e di otrantini, che si perdevano nella notte dei tempi.

 

La strada per giungere al rifugio-bar di Giuseppe, “il vecchio pescatore”, era sempre la stessa: Caprarica di Lecce-Martano-Otranto-Punta Palàcia-Serra di Torre Sant’Emiliano-la Grande Grotta e, finalmente, il bar-rivendita-Tabacchi n. 5 dei De Paola, al centro del grappolo di case, davanti al mare di Odisseo, il mare nostrum non sempre amato ma nemmeno odiato, perché tutto dentro l’inferno della nostra vita.
Pensare di distogliere l’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, dal percorso stabilito da anni era ormai solo un’utopia. A chi gli stava a fianco, solitamente diceva: «E’ questa la strada del cuore, quella che porta a sognare mondi sconosciuti, interrati nella roccia, dove uomini e donne hanno vissuto, vivono guardando il sole, giocando con la luce».
«Ma no Verri, a Badisco c’è solo Badisco, un ammasso di roccia in forma di scogliera e un mare freddo e sospettoso», rispondeva lo chaffeur di turno, che poi era lo stesso di sempre.
«Ottobrino (era questo il nomignolo dato all’autista), non c’è verso che tu possa capire queste cose. Per te sapere che sotto i nostri piedi c’è un immenso tesoro di parole animali edifici, altro ancora, in forma di segni geroglifici disegnati sulle pareti di una grotta, non significa nulla. Nessuna emozione. Sei insensibile come un caprone castrato, che guarda una pecora betissa passargli davanti, e a lui non gli prudono neanche i pensieri. Taci e guida, per favore!».
Due erano i punti di sosta rituali del percorso. Il primo, sugli speroni di Punta Palàcia, dove era possibile guardare l’ombra degli Acrocerauni di Virgilio, la grande montagna della Cika sopra Valona per gli albanesi, aristocraticamente ritagliati nell’aurora appena abbozzata del mattino; l’altro, sulla Serra di Torre Sant’Emiliano, nel luogo magico fatato dove è sempre possibile ascoltare la voce del vento che sibila tra le rocce, e che parla, e che solo Verri sapeva ascoltare.
«E’ qui che si forma il sibilo lungo, la poesia del vento, che poi, dolcemente, si va a gettare nel mare di Badisco, proprio davanti al bar di Giuseppe De Paola. Ascolta, Ottobrino, la voce del vento e cerca di decifrarne le parole e i suoni».
«Per la verità, Verri, sento solo come una sorta di ululati di cani».
«Zallo, non sei altro che uno zallo. Non capirai mai! Non so perché ti porto con me. Forse la speranza che un giorno tu possa aprire quegli occhi di geco rattrappito».

«Buon giorno, Giuseppe! Come va questa mattina?». Queste erano quasi sempre le prime parole pronunciate dall’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, appena varcata la soglia del piccolo bar-rifugio davanti al mare.
«Bene!», era la risposta del vecchio uomo di mare, capostipite dei De Paola, che subito aggiungeva: «Antonio, questa mattina fa freddo. Abbi un attimo di pazienza perché metta a posto la legna nel camino, fare fuoco, poi faccio il caffè».

L’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, si appoggiava allora allo stipite della porta d’ingresso, che lievemente scricchiolava sotto il peso delle spalle possenti. Allora il vecchio pescatore diceva: «Verri, ti prego, non mi smontare il bar. E’ l’unica risorsa che io e la mia famiglia abbiamo, soprattutto da quando ho lasciato la vita del mare per fare la vita grama di pensionato».
«Capisco capisco!», era la risposta dell’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, che allora mogio mogio si andava a sedere sui bordi di uno dei tavoli del bar-rivendita Tabacchi n. 5, aperto quasi sempre ad ogni ora della giornata per viandanti disperati e messapi dispersi nella notte hidruntina.
«Sai Antonio, non ti offendere se dico questo, non è per meticolosità che lo faccio. Tu sai che io qui ci sto come uomo che fa le cose. Questa bottega è di proprietà di mio figlio Carlo che, a sua volta, gli è fortunatamente caduta in testa grazie al felice matrimonio con Maria Rosaria Spano, una carissima donna di Giuggianello, che ama infinitamente questo posto come ama suo marito e i suoi tre figli, i miei nipoti Andrea, Gianluca e Giuseppe. Sai sono proprio cari. Dico questo perché sono i figli di mio figlio ed io sono il loro nonno. Sono vecchio Verri, e come tutti i vecchi sto attento alle minuzie, alle piccole cose, all’essenziale. Perciò non te la prendere se ti ho detto di non gettarmi giù lo stipite della porta».
«Ma no, vecchio, non me la prendo, non me la prendo. Conosco la storia di questo posto. So anch’io che questa rivendita è di proprietà di tuo figlio, il quale, invece di fare il suo dovere e darti una mano, spesso se la sta a spassare con i suoi amici. Credo proprio che non riesca a capire l’importanza che ha per te questo rifugio, e quanto sia utile respirare l’aria del mare, l’aria dei sogni che Badisco porta. Un giorno, uno di quei giorni in cui tu eri un po’ più arrabbiato con Carlo, e noi stavamo seduti accanto al fuoco del camino, mi raccontasti la tua storia. Mi dicesti che un tale Andrea Chirilli, tuo suocero, possedeva una bottega di vino ad Uggiano. Era il tempo in cui il vino era importantissimo per noi salentini. Praticamente era tutto: ti dissetava e ti toglieva la fame, ti faceva ballare e ti curava le ferite del cuore, ed era poi rifugio estremo alla nostra disperazione quasi insulare; era nostro padre ancestrale, e paternamente ci accoglieva nel fumo delle sue braccia facendoci dimenticare le miserie umane, gli inferni dell’anima, la negazione di desideri fin troppo cercati e quasi sempre negati. Conosco Giuseppe, conosco, e ti comprendo».
«Allora sai pure, caro Verri, che mio suocero decise, un’estate degli anni ‘40, di mettere qui una seconda bottega di vino, perché innamorato del posto e perché sapeva che a noi pescatori di Badisco, al mattino, prima di entrare in mare, piaceva innaffiarci la bocca con un buon bicchierino di “anisetta”, un po’ per pulirci i denti ma anche, e credo soprattutto, per prendere coraggio nell’affrontare le acque del mare di Badisco, che non sempre sono calme e silenziose. Come tu sai e come ti ho fatto notare altre volte, sono acque che parlano, che mandano certi sibili lamentosi che non si sa proprio da dove provengano.
Comunque, nel 1955 mio suocero Andrea Chirilli riuscì, dopo tanta attesa, ad ottenere l’autorizzazione a far sì che la bottega di vino, che si era intanto un po’ evoluta in una sorta di piccolo bar-ristoro per i pescatori d’inverno e per i bagnanti d’estate, divenisse anche una rivendita di tabacchi. Per la nostra famiglia, questa fu una fortuna di non poco conto, nonostante sapessimo che qui d’inverno c’era da fare solo la fame. Per un lungo periodo dell’anno, a viverci in questo posto siamo rimasti solo noi De Paola. Per il resto gente di passaggio, pescatori che vanno e vengono, qualcun altro che si ferma a bere un caffè, o a farsi un quartino di rosso, oppure a mettere sotto i denti qualcosa che noi stessi gli prepariamo. Cose nostre paesane, s’intende, caro Verri, spesso legate al pesce e ad altri prodotti del mare pescati qui. Poi, un giorno, mio suocero se ne morì in silenzio, una morte come spesso accade a tutti noi salentini, quando l’ora giunge e il padreterno ci chiama all’ovile. La bottega di vino-bar-rivendita-Tabacchi n. 5 passò allora in eredità a mia cognata Olga, una santa donna, che subito la trasmise a mio figlio in quello stesso anno 1979. Poi anche lei se ne morì come Dio comanda nel 1985. Furono anni un po’ brutti quelli. Mi morì anche la moglie in quello stesso periodo. Era giusto il 1987. Allora facevo ancora il pescatore, e mi dividevo tra il mare e la bottega di Uggiano La Chiesa, mentre mio figlio rimaneva qui ad interessarsi della bottega di Badisco. Tu, Verri, sai che Carlo sembra non essere molto entusiasta di questo lavoro e di questo posto; vorrebbe scappare sempre via, sempre attento solo alle sue cose, alle sue amicizie e basta. Ma vedrai vedrai, verrà il giorno in cui egli mi sostituirà in tutto e saprà dimostrarsi quel degno figlio che il sottoscritto ha sempre sognato. Vedrai vedrai, che quel giorno arriverà. Forse io non ci sarò più. Ma sono sicuro che così andranno le cose».
«Capisco capisco, Giuseppe», rispose l’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, guardando il vecchio pescatore che finiva di sistemare il camino dando fuoco alla legna di quel nuovo giorno.
Quando ancora era pescatore, Giuseppe De Paola divideva il suo tempo tra il mare e la bottega di vino-rivendita-Tabacchi n. 5. Al mattino si alzava prestissimo. Sempre prima dell’alba e le prime operazioni della giornata erano rivolte tutte al bar-rifugio. Spesso faceva innervosire la nuora, Maria Rosaria Spano, ma poi non più di tanto, perché questa buona donna, alla fine, comprendeva il problema del suocero. Il fatto stava che il vecchio apriva bottega quando ancora non era stata approntata per il giorno la sala centrale della stessa, per cui la nuora arrivava quando già nel locale c’erano i primi avventori, fra i quali, non di rado, anche l’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, e qualche suo amico nottambulo.
«Ma per favore papà, perché non aspetti che io faccia prima le pulizie del locale e poi apri?», diceva Maria Rosaria.
«Ma, cara, come posso fare, se tra poco devo andare a ritirare le reti e qui non c’è nessuno che mi possa sostituire?».
«Sì, è vero. Però a me tocca ora pulire davanti ai clienti. Cerca di comprendere anche tu il mio disagio».
Giuseppe De Paola resisteva ancora un po’ nel locale, giusto il tempo che il figlio Carlo arrivasse, poi di filato scendeva giù alla caletta, affondava i piedi su quelle rocce che egli sognava come calpestate dai mitici eroi omerici. Per questo continuava a chiamare quel posto Porto Enea. Perché così l’aveva chiamato suo padre e il padre di suo padre, fino a generazioni di uggianesi e di otrantini, che si perdevano nella notte dei tempi.
Verri, riprendendo il filo del discorso del vecchio, che parlava del mare di Porto Badisco come di acque che si lamentano, disse: «Sì, Giuseppe, anch’io in questo posto di mare sento le voci del vento e quelle del mare. Quelle del vento sono forse le voci dei fauni, quelle del mare forse le voci delle sirene, nascoste negli anfratti di questo luogo d’incanto, che tu ancora ti ostini a chiamare Porto Enea. Tu forse non sai, perché nessuno te lo ha mai detto, che mai l’eroe troiano ha posto piede su questo suolo. E’ vero sì che giunse con la sua nave nei pressi del porto di Otranto e che sfiorò queste acque di Badisco. Il poeta Virgilio lo ha scritto nella sua splendida Eneide.
Se vuoi e se ti fa piacere, te li leggo questi versi direttamente dalla traduzione che un professore, di nome Ezio Cetrangolo, fece per un libro della Sansoni di Firenze. Questo libro è stato stampato nel 1971 e i versi si trovano alle pagine 65-66: “Di già tramontate le stelle l’Aurora tingeva / il cielo di rosa, quando vediamo monti lontani / velati di nebbia e sorgere bassa dal mare / l’Italia. L’Italia ci addita Acate per primo, / l’Italia i compagni salutano in grido di giubilo. / Anchise cinge di fiori un calice largo, / lo colma di vino, e in piedi levatosi a poppa, / si volge ai Numi così: / ‘Voi che del mare siete i potenti, divini signori, / e così della terra, e dell’alte nere tempeste; / fate che il vento ci spinga sereno per facile via!’./ Crescono i soffi del vento invocato, e si scopre / il porto vicino e il tempio a Minerva sul monte. / Caliamo le vele, volgiamo ai lidi le prore. / Ad arco il porto s’incurva, sicuro dai flutti di Euro, / le rupi di fronte spumeggiano in salso fervore, / scogli turriti che in basso distendon le braccia / simili a duplice muro lo coprono ai lati / e indietro il tempio scompare alla vista dal lido. / Qui vidi, e fu certo un presagio, quattro cavalli / di niveo candore che l’erba del campo pascevano. / Anchise ora dice: ‘O terra ospitale, guerra tu porti; / s’armano in guerra i cavalli, minacciano guerra; / ma sogliono pure venire al carro aggiogati / i cavalli, e al gioco e al freno piegarsi concordi: / speranza anche di pace’. Il santo Nume adoriamo / di Pallade armata, che prima ci accolse esultanti, / e dinanzi agli altari veliamo di porpora Frigia / il capo, e secondo il monito grave di Eleno / bruciamo le offerte prescritte all’Argiva Giunone. / Compiuti di séguito i voti solenni per ordine, / volgiamo sùbito al mare le antenne e le vele, / lasciamo i campi sospetti e le case dei Greci”. Come puoi ben vedere da questo passo, mai Enea scese qui».

«Verri, tu puoi credere a quel che tu vuoi», rispose il vecchio pescatore. «Quello che io so è questo. Un nostro antico racconto narra che il mitico eroe Enea, abbandonata Troia, sconfitta ormai definitivamente dai greci, col padre Anchise approdò qui, in questo posto di mare che noi per questo chiamiamo ancora Porto Enea. Se questo è accaduto veramente, caro Verri, è sicuro che l’eroe troiano avrà visto il fiume Silur che qui riversava le sue limpide acque in questo mare. Tu sai che nei tempi antichi è stato questo fiume a scavare la Grande Grotta. Le buone genti, che qui allora vivevano, sicuramente conoscevano già un cunicolo per penetrare nelle profondità della grotta. E’ certo che Enea fu bene accolto da quella nostra brava gente, che forse rifocillò lui, il padre e l’intero suo equipaggio. Ed è anche certo che gli fecero visitare il cunicolo detto del Diavolo, attraverso il quale è possibile penetrare nel ventre attorcigliato della “Montagnola”, sovrastante la Valle del Cervo, all’interno della quale si conserva il tempio della nostra arte neolitica. Enea ha quindi visto prima di noi le scene di caccia scarabocchiate, le divinità in forma di spirale, la Grande Madre, il mitico edificio piramidale, l’austera divinità danzante, le altre figure antropomorfe geometrizzate, i cervi, i cani, gli strumenti e le armi, i giochi del tempo, e pure la paura della morte, tutto appena appena segnato, appena appena tratteggiato da una due tre semplici linee di guano, di ocra rossa o di argilla frammista all’olio. Dipinti che noi ancora oggi ammiriamo. Io, Verri, nelle cavità della Grande Grotta di Badisco ci sono stato, grazie al professore Paolo Graziosi, il grande studioso, che permise a me, umile pescatore, di osservare quella meraviglia che mai nella mia vita avrei sperato di vedere».

«Ma Giuseppe è possibile che tu possa ancora credere a simili leggende?», rispose l’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri.
«Va bene, va bene. Non ne parliamo più. Ognuno resta convinto delle proprie opinioni. Io adesso vado per mare. Ciao».
Il vecchio pescatore si avviò verso la caletta davanti al suo bar, sciolse l’ormeggio della barchetta e a forza di remi entrò nel mare ancora annebbiato dalla brezza mattutina.
Giuseppe De Paola aveva subito amato la Grande Grotta, che un gruppo di speleologi dilettanti aveva scoperto l’1-3 e l’8 febbraio 1970.
«Abbiamo scoperto un santuario dell’età della pietra nel sottosuolo del Salento», aveva sentito dire da uno degli scopritori, i cui nomi fissò per sempre nella mente: Severino Albertini (veneto); Enzo Evangelisti (laziale); Isidoro Mattioli (veneto); Remo Mazzotta (leccese); Daniele Rizzo (magliese). Tutti del Gruppo Speleologico Salentino “P. De Lorentiis” di Maglie. Collaboratori degli scopritori furono Nunzio Pacella (magliese, consulente scientifico) e Pino Salamina (leccese, fotografo).
Una fredda mattina d’inverno, il vecchio uomo di mare, seduto davanti al camino che scoppiettava scintille di fuoco, raccontò all’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, quanto il suo amico Paolo Graziosi, professore dell’Università di Firenze, gli aveva confidato nelle lunghe pause tra una discesa e l’altra nel ventre della terra: «Vedi, caro Verri, mi ha raccontato il professore che nella Grande Grotta ci sono pitture che ricoprono qualche chilometro di pareti a testimonianza della vita spirituale dell’uomo antico. Egli mi diceva pure che si trattava di pittogrammi, alcuni dei quali erano già stati identificati e interpretati, e oggi appaiono nel suo splendido volume Le pitture preistoriche della Grotta di Porto Badisco, altri sono invece ancora da interpretare. Il professore fu così gentile con me che mi donò copia con la sua firma di quello splendido libro che ancora conservo».

L’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, che nel suo intimo aveva scelto quel luogo, Badisco, quale suo mitico luogo in cui far convergere i suoi inferni e le sue disperazioni, volle sapere di più dal vecchio pescatore. Per questo gli chiese: «Ma Giuseppe quali erano i discorsi che il professor Graziosi ti faceva?».
«Il professore mi diceva che le pitture, che decorano le pareti della Grande Grotta, sono rappresentazioni schematiche della realtà così come la vedevano allora quei nostri antenati primitivi. I soggetti rappresentati vanno dalla figura umana alla figura animalesca. Si tratta di scene di caccia al cervo e scene di vita pastorale, ma anche scene di vita religiosa. Ci sono spirali, strumenti per la cattura di prede, segni cruciformi, uomini con arco, cani, schemi di capanne, bambini, animali, catene e reticoli, sciamani, segni celesti, stellari e astrali, stelle comete, soli “splendenti”, cerchi, impronte di mani infantili e di donne, schizzi, insetti, punti e spruzzi, prove primordiali di scrittura, pettiniformi e forse segni d’acqua, scudi, ghirigori e labirinti, totem e menhir, bucrani, graticciati, anse, ganci, meandri, costruzioni dolmeniche, quasi si trattasse di una sorta di santuario dell’eta della pietra».
«Giuseppe, che sai ancora su questa grotta?», chiese sbalordito dall’elenco, l’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri.
«Be!, sì, certo. Ad esempio, che il rilievo del sistema carsico presenta tre gallerie principali orientate a nord-ovest e un gran numero di diramazioni, alcune delle quali indicano nuovi ma non ancora esplorati percorsi. Così è ubicata la Grande Grotta», disse Giuseppe De Paola, ponendo sotto lo sguardo dell’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, una cartina geografica del luogo: «Porto Badisco-Otranto (Lecce), località “Montagnola”. Carta I.G.M. 215 III S O, long. Est Monte Mario 6° 02’ 01”, latid. Nord 40° 04’ 54”, quota m. 26 s.l.m. – Grotta di Porto Badisco, n. 902 Pu. Sinonimi: Grotta dei Cervi, Grotta di Enea, Otranto (LE). Profondità: m. 26; sviluppo spaziale: m. 1550. (Rilievo di Franco Orofino 1970); temperatura interna: media 16-20° C.; umidità relativa: media 92-99%».
«Mi hanno pure detto – continuò a raccontare il vecchio pescatore – che sulle pareti e le volte delle gallerie sono presenti numerose figure eseguite prevalentemente con guano di pipistrello, mentre in numero minore sono quelle realizzate con ocra di colore rosso. I corridoi dipinti sono stati suddivisi dal professor Graziosi in dodici zone. Il modo come hanno trovato le ceramiche nella grotta, la presenza di buche (riempite con pietre), ubicate in basso ai dipinti, e la forma di determinate figure fanno spesso pensare ad un carattere sacrale e sociale del luogo. Ma tu, caro Verri, puoi farti un’idea direttamente di quanto dico dalle pubblicazioni che spesso gli studiosi mi hanno lasciato qui a ricordo dell’importanza della grotta».
Così dicendo il vecchio uomo di mare, Giuseppe De Paola, dispiegò sul tavolo, davanti all’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, un mucchio di riviste, opuscoli, ritagli di giornale, qualche libro, che era sempre lì a portata di mano nella sala grande del bar-rivendita-Tabacchi n. 5. Fra questi, Verri lesse alcuni autori e titoli, che più gli interessavano. In particolare i testi di Paolo Graziosi, fra cui Le pitture preistoriche della Grotta di Porto Badisco e S. Cesarea, in “Rendiconti della classe di Scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia nazionale dei Lincei”, Serie VIII, vo. XXVI, gennaio-febbraio 1971, pp. 355-359; Le pitture di Porto Badisco. Qualche osservazione preliminare, in “Atti della XV Riunione scientifica in Puglia dell’Istituto italiano di preistoria e protostoria / 13-16 ottobre 1970”, Firenze 1972, pp. 17-26; L’arte preistorica in Italia, Sansoni, Milano 1973, pp. 131 e seguenti; sempre di Graziosi (assieme a A. Cigna, E. Detti e G. Mele), Perizia allegata alla sentenza istruttoria del Pretore di Otranto, del 15 luglio 1975; e ancora Un santuario della preistoria, in “L’Unità”, 23.11.1975, p. 15. Rilesse il titolo del più importante libro sulla grotta del professore fiorentino, cioè Le pitture preistoriche della Grotta di Porto Badisco, Giunti-Martello, Firenze 1980; e ancora Porto Badisco. Sul tacco d’Italia un cenacolo di artisti, in “Airone”, n. 12, Mondadori 1982, pp. 82-85. Infine lesse l’ultimo articolo scritto dal Graziosi, dedicato ancora una volta alla Grande Grotta, L’arte preistorica della Grotta di Porto Badisco, in “L’Umana Avventura”, Jaca-Book, Milano 1988, pp. 65-75. Ancora del professore Graziosi lesse un’intervista rilasciata a Nunzio Pacella, uno dei collaboratori della scoperta nel 1970, dal titolo Le Grotte di Badisco rimarranno chiuse? Intervista al prof. Graziosi, in “Realtà salentina”, Maglie 1977, n. 7, p. 3. Di Mario Moscardino, invece, che era stato presidente del Gruppo Speleologico Salentino “P. De Lorentiis” di Maglie all’epoca della scoperta della Grande Grotta, Verri lesse questi titoli: L’arte preistorica dopo le scoperte salentine di Porto Badisco, in “Società editrice D. Alighieri”, Lecce 1971; Tre fari di civiltà nell’area culturale salentina, in “La Zagaglia”, 1972, n. 10, pp. 103-114.
Verri venne attratto anche da una serie di ritagli di giornali e di opuscoli del professore Cosimo Giannuzzi, di Maglie, un suo amico che sapeva essere un attentissimo studioso delle raff¦gurazioni pittoriche della grotta. Questi i titoli che lesse: Lo stregone della Grotta dei Cervi: un’esegesi, in “Nuovo spazio”, n. 6, Maglie 1987, p. 5; Il Dio che danza. Appunti per una ricerca antropologica sull’arte di Badisco, Erreci, Maglie 1988; Scoprendo lo scrigno sommerso. La Grotta dei Cervi di Porto Badisco, in «I Salentini», anno III n. 3, Andrano 1989, pp. 28-29; Era un santuario?, in “I Salentini”, anno III, n. 4, Andrano 1989, p. 8; I misteri di Badisco, in “Il Quotidiano di Lecce”, 28 giugno 1989 pp. 10-11; Segni di antica civiltà. Un ciclo di conferenze sui ritrovamenti della Grotta dei Cervi a Badisco, in “Il Quotidiano di Lecce”, 23.06.1990; Le impronte di mani nelle grotte preistoriche del Salento, in “Unuci”, 10 sett. 1990, Roma, pp. 8-9.
Poi si stancò un po’ e non lesse altro. Però, davanti alla messe di scritti sulla grotta che Giuseppe De Paola gli aveva messo sotto gli occhi, chiese: «Giuseppe, ma non hai altro?».
E subito, da sotto il bancone del bar-rivendita-Tabacchi n. 5, il vecchio pescatore tirò fuori due foto, rispondendo: «Ecco guarda, Verri, qui, a fianco del professore Paolo Graziosi, ci sono io».
«Perché non me le dai queste fotografie così le pubblico sul mio giornale?», rispose l’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri.
«Mi dispiace. Mi dispiace proprio. Sono di mio figlio e dei miei tre nipotini. Saranno loro a decidere cosa farne, dopo la mia morte», fu la risposta del vecchio pescatore.
Vani furono allora tutti i tentativi dell’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, di farsi dare quelle foto per il Pensionante de’ Saraceni.

Il grande sogno del vecchio uomo di mare, Giuseppe De Paola, era stato sempre quello di riuscire ad arredare le pareti del suo bar-rivendita-Tabacchi n. 5 con le immagini della Grande Grotta. Fu il sovrintendente Francesco Lo Porto che un giorno soddisfece il desiderio del vecchio pescatore. Gli regalò alcuni quadri delle pitture di Porto Badisco già confezionati che, subito, Giuseppe attaccò alle pareti. Qualche altra immagine egli la comprò anche dalla Pro Loco dello stesso posto. Così, agli inizi degli anni ‘70, il suo bar-rivendita-Tabacchi n. 5 era 1’unico posto al mondo in cui, da subito dopo la scoperta della Grande Grotta, si potevano ammirare le pitture in fotografia appese alle pareti. Di ciò il vecchio pescatore ne era profondamente orgoglioso, tanto che l’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, sapendolo, tutte le volte che si recava a Badisco, soffermandosi a lungo davanti a quelle immagini, finiva col dirgli: «Caro Giuseppe, sei tu oggi il vero depositario di millenni di storia. Da oggi in avanti chi vorrà vedere le pitture della grotta in formato fotografia dovrà passare da questo tuo luogo incantato fatato».
«Grazie Antonio, grazie. Ma non è veramente proprio tutto quello che io desideravo», rispondeva il vecchio uomo di mare. «Perché avrei tanto desiderato ottenere anche l’autorizzazione a far stampare alcune cartoline con le immagini della Grande Grotta. Sai, chi le avesse poi spedite avrebbe fatto conoscere questo bellissimo posto di mare in tutto il mondo».
«Capisco», disse l’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri. Aggiungendo: «Vedrai, prima o poi anche questa autorizzazione ti sarà concessa».
Il buon vecchio uomo di mare, Giuseppe De Paola, non fece in tempo a vedere questa concessione, perché un giorno, in assoluto silenzio, entrò con la sua barca nel mare dell’eternità, forse felice perché pensava di entrare in quel suo stesso mare di Badisco, che egli per tutta la vita si era ostinato a chiamare Porto Enea.

Alcuni anni dopo la morte di Giuseppe, l’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, scrisse che a lui gli era sembrato di vedere la barca del vecchio pescatore entrare direttamente nelle acque e che, stranamente, la vide navigare non verso est, cioè verso l’oriente dei sibili lunghi, ma nell’entroterra, verso la “Montagnola” nel cui sottosuolo erano conservate le pitture cultuali dell’uomo neolitico. Verri scrisse che a remare era l’anima del vecchio, che andava verso il riposo eterno tra i segni e i simboli preistorici che tanto aveva amato.
Effettivamente l’autorizzazione a pubblicare su cartolina alcune immagini delle pitture parietali arrivò qualche tempo dopo. Fu il figlio di Giuseppe ad ottenerla, che le stampò con questa scritta: «Bar-Riv. n. 5 De Paola Carlo. Riproduzione eseguita su concessione del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Soprintendenza Archeologica della Puglia. E’ vietata l’ulteriore riproduzione».
Quel giorno che giunse la notizia per via epistolare, ci fu festa grande nella casa abitata un tempo dal vecchio pescatore. Il figlio, la nuora e i nipoti gioirono alla grande e mangiarono il piatto buono della festa. Ad una ad una vollero guardare nuovamente le immagini della Grande Grotta sulle pareti del bar-rivendita-Tabacchi n. 5, e decisero quali far stampare per la divulgazione. Ai presenti di quel giorno sembrò esserci nel bar come uno spirito curioso – il vecchio uomo di mare Giuseppe De Paola? –, che, con il dito rivolto alle pareti della sala, indicava ai parenti le immagini da scegliere.
L’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, conosceva bene queste cartoline. Da sempre le aveva comprate e le aveva spedite ai quattro venti del mondo per far conoscere a tutti la meraviglia di Porto Badisco. Per questo, anche ora, pensando al suo vecchio amico pescatore, le cui spoglie, secondo lui, riposavano nel ventre della Grande Grotta, se le girava e rigirava più volte tra le sue grosse mani, mani di messapo abituato alle carte, e alle storie, e ai sibili lunghi di Badisco. Su un quadernino di appunti, che portava sempre con sé, nel tempo aveva annotato quanto segue:
Badisco (cioè Porto Enea). Immagini della Grande Grotta sulle pareti del bar-rivendita-Tabacchi n. 5 di Carlo De Paola, figlio di Giuseppe, vecchio pescatore e sognatore di mari infiniti incantati fatati.
- Cartoline nn. 1 e 2. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Stalattiti e stalagmiti. Si tratta di due corridoi dell’epigrotta.
- Cartolina n. 3. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Figure umane stilizzate sporgenti dai quattro lati del quadrato e disegni spiraliformi. Figure nere. Si tratta del corridoio n. 2 con arco naturale e linee di spegnimento della grossa frana che interessò la parte terminale del secondo corridoio. Da sinistra verso destra si notano: trappola con ami per pesca nei dintorni di un fiume (o del mare); due segni non identificabili; un segno stelliforme con S serpentina nel suo quadrato interno; un uomo in movimento tra due zagaglie (una è segnata al suo interno con una croce) e su una spirale divinatoria; una sizigia serpentina; un grande segno stelliforme (però potrebbe trattarsi di un edificio) che si trova proprio sopra l’arco e al centro del passaggio tra un corridoio e l’altro quasi ad indicare l’ingresso ad una sorta di tempio.
- Cartolina n. 4. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Figura antropomorfa curvilinea e spiraliforme. Spirale e disegni subcircolari. Figure nere. Si tratta delle tre immagini finali della cartolina precedente: uomo in movimento a fianco di una probabile zagaglia segnata dalla croce e sulla spirale circolare.
- Cartolina n. 5. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Scena di caccia con un uomo schematico armato di arco preceduto da due cani e due cervi. Figure nere. Si tratta del corridoio n. 1 lato destro, andando verso l’interno della grotta. Da sinistra verso destra: scena di caccia con cacciatore armato di arco, preceduto da cani e da due cervi; alle spalle dell’arciere vi è un animale morto, come pure sembra essere morto anche l’altro cervo in basso.
- Cartolina n. 6. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Figure schematiche di uomini e di quadrupedi. Figure nere. Si tratta del proseguimento dell’immagine della cartolina n. 5. Sono raffigurate tre scene: una orizzontale, ed è quella già descritta; l’altra, verticale, che rappresenta la simbologia della Grande Madre Tridattila, composta dall’Ariete addobbato (lato sinistro di chi guarda), dalla Divinità con tre dita per ogni mano, grandi seni laterali e ventre gravido (lato destro di chi guarda), e la pecora o il cane o la capra, comunque un quadrupede (in basso); sulla parete del corridoio che si piega verso l’interno della grotta, in un contesto del tutto diverso dalle due scene precedenti, un altro quadrupede (forse un bovino) con un addobbo sulla schiena.
- Cartolina n. 7. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Scene di caccia: arcieri e cervi. Si tratta delle prime figure dipinte con ocra rossa. Sono le uniche figure rosse che appaiono tra le cartoline autorizzate dal Ministero al Bar-rivendita n. 5 De Paola. Appartengono ai gruppi indicati dal Graziosi come 11, 12 e 16, per un totale di circa 60 segni conservati integri, senza sovrapposizioni né aggiunte o deturpamenti. Si tratta delle più antiche pitture dell’intero complesso e segnalano una direzione opposta rispetto a quella indicata dalle figure nere. La scena raffigura animali e uomini, il primo di questi (quello più a sinistra) ha le braccia rivolte in alto verso la testa di un bovino, al suo fianco e intorno due cani e un altro bovino; il secondo uomo (dietro il bovino più grande), figura appena abbozzata, impugna un arco con la freccia; il terzo uomo, più in basso, anche questa figura appena abbozzata, ha le braccia protese verso gli animali e verso un recinto aperto (probabile ovile?). Ancora più a destra, e nella parte superiore, si vede un arciere con alle spalle un lungo segno parallelo alla sua stessa figura; sulla parte bassa della parete chiaramente si vede dipinto un perimetro chiuso, quasi ad indicare un probabile altro ovile.

- Cartolina n. 8. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Figure stilizzate, forse umane, con perimetro formato da macchie tondeggianti e, al di sotto, arciere a gambe divaricate. Figure nere. Si tratta del corridoio n. 2, lato destro. E’ una “vetrina delle meraviglie” della Grande Grotta di Porto Badisco. Da sinistra verso destra: sembrerebbe la forma di un insetto gigantesco (indica forse un’invasione di insetti: cavallette o altro), potrebbe comunque rappresentare qualcos’altro: recinzioni, percorsi. Altri segni, tra cui un umano che avanza verso una barriera. Al di sopra un segno stelliforme, ma potrebbe trattarsi di un villaggio con capanne. Spostandoci verso destra, quasi al centro della cartolina, un umano in forma di triangolo (ma potrebbe trattarsi di una costruzione) sopra ad un villaggio con capanne raccordate in circonferenza; l’interno del villaggio è segnato da una serie di linee tratteggiate che lo attraversano da una parte all’altra. Nelle vicinanze, un altro villaggio con capanne appena abbozzato e non finito. Nella parte superiore della parete, a destra, alcune forme cembaliche (tentativi di raffigurazione di villaggi con capanne), altri strani oggetti e due forme che sembrerebbero umanizzate, una più compiuta, una sorta di uomo-scudo, l’altra incompiuta. Nella parte inferiore della parete, evidente il tentativo mal riuscito della raffigurazione di un edificio con attorno strani oggetti; un altro segno cancellato col guano. Un po’ più a destra di quest’ultima scena, un altro villaggio con capanne con al centro due linee tratteggiate perpendicolarmente. Ancora più sotto, un uomo con le gambe divaricate, il sesso pendulo e un attrezzo nelle mani; ancora più in là, un segno non decifrabile.

- Cartolina n. 9. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): A sinistra, figure geometriche con perimetro segnato da macchie tondeggianti; a destra scena di caccia con arciere e cervi. Figure nere. Si tratta del proseguimento della raffigurazione della cartolina n. 8 già descritta. Spostandoci invece sulla parte destra di questa “Vetrina delle meraviglie” si vede raffigurata una grande scena di caccia con animali morti e vivi, qualcuno a sei zampe che caratterizza il movimento, lento o veloce, poi c’è l’arciere (in basso con il sesso pendulo) con al fianco il suo cane; infine altri segni indecifrabili.
- Cartolina n. 10. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Figure stilizzate, forse umane, a forma subtriangolare con macchie tondeggianti lungo il perimetro e a forma circolare con quattro appendici. Figure nere. Si tratta del proseguimento della raffigurazione della cartolina n. 9.
A sinistra c’è la grande scena di caccia citata, un susseguirsi di linee e segni non ancora decifrabili, quindi due grandi villaggi con capanne irregolari sui loro confini; all’apice basso di uno dei grandi villaggi (quello più a destra) c’è una delle raffigurazioni più emblematiche della Grande Grotta di Badisco: la scena del tempo meteorologico (sole pioggia neve o grandine); andando sempre più verso destra è raffigurato un villaggio con quattro capanne, tre delle quali anche il recinto degli animali; il villaggio è attraversato dalla traiettoria del sole (est sud ovest); un po’ più in alto vi sono due segni al momento non decifrabili (il primo dei quali però potrebbe essere un semi-recinto), mentre il secondo la traccia di un inizio di un percorso; quindi un altro segno che forse sta ad indicare un cielo nuvoloso con pioggia.
- Cartolina n. 11. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Figure umane stilizzate sporgenti dai lati del quadrato, cacciatori con arco, cervi. Figure nere. Siamo nel corridoio n. 2, lato destro. Questa raffigurazione è collocata prima dell’arco naturale citato nella cartolina n. 3. Sembrerebbe una sorta di apoteosi scenica, dipinta lì quasi a raccontare l’intero ciclo della vita della civiltà “nera” di Badisco. Forse anche il suo tragico epilogo. E’ ben noto che la Grande Grotta di Badisco fu “chiusa” dagli uomini delle “pitture nere” del neolitico circa seimila anni fa. La sua riapertura, per quello che se ne sa fino ad oggi, sarebbe avvenuta poi nel 1970. Andando da sinistra verso destra: segni stelliformi (la seconda stella sembrerebbe una cometa), però potrebbe trattarsi anche di due villaggi con capanne e recinti, e su una un tracciato di un percorso; donna con un probabile setaccio fra le mani (si tratta di uno dei due umani con raffigurata la forma dei piedi); poco più sopra un bambino e cervide (ma potrebbe essere una capra); al di sopra di questa scena un agglomerato umano in movimento; spostandoci verso destra, forse una probabile mappa labirintica di percorso, ma può essere anche un nuovo agglomerato (forse umano, oppure di animali, tipo mandria o gregge) in movimento; al di sopra di questo un segno elicoidale (forse un uccello?) e un cervo; ancora verso destra, un arciere con il dardo puntato sul segno elicoidale (forse l’uccello) ed il cervo; al di sotto della “mappa”, vi sono raffigurate due spirali divinatorie; andando ancora verso destra, un nuovo agglomerato (forse umano, oppure di animali, tipo mandria o gregge) raccolto in formazione di difesa; sopra di esso un nuovo segno cruciforme molto complesso (sembrerebbe un edificio, ma potrebbe trattarsi anche di un piccolo agglomerato di capanne con recinti) con alla base due spirali in forma di sizigia (una riuscita l’altra no). La scena è complessiva di un intero ciclo: la presenza delle spirali indica le divinità; i segni stelliformi e cruciformi forse ciò che c’è nel cielo (interessante quella sorta di stella cometa); gli agglomerati e gli animali indicano il percorso della vita a Badisco a quel tempo: caccia, agricoltura (donna con il setaccio), pastorizia (il bmbino con il piccolo cervo o capra).
- Cartolina n. 12. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Scena di caccia con un uomo schematico armato di arco sovrastato da un cervo. Figure nere. Si tratta dell’arciere della raffigurazione della cartolina n. 11. Questa figura di cacciatore è contrassegnata da un grande membro pendulo, ma potrebbe trattarsi anche di un pugnale stretto alla coscia. Questo è l’altro umano che ha raffigurata la forma dei piedi (ma potrebbe trattarsi anche di probabili calzari, come quelli dell’uomo di Similaun). Accurata sembra l’esecuzione di questo dipinto con la definizione di ogni parte del corpo (osservare, ad esempio, la rotondità gobba delle spalle, la sinuosità delle forme degli avambracci, la testa ben modellata, le gambe con l’individuazione di un probabile ginocchio, i piedi o calzari). Sull’arco è possibile individuare la tecnica pittorica “a punto” (puntiforme), consistente in un procedimento di questo genere: il dito intinto nel colorante e impresso sulla parete, punto dopo punto fino a formare la figura ideata.
- Cartolina n. 13. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Metamorfosi della figura umana in senso curvilineo. Gruppo antropomorfo. Figura cruciforme. Figure nere. Si tratta di una delle più note immagini di Badisco. Nel tempo è stata definita: “Scimmietta” (gli scopritori); “Grande Capo di Porto Badisco” (i locali), “Stregone danzante” (Orofino), “Sciamano” (gli etnoarcheologi). Si trova nel Secondo corridoio, Ottava zona, Gruppo 46, così 1’ha ubicata il prof. Paolo Graziosi, che nel suo libro la definisce: «Sia pure nella sua accentuata deformazione in senso curvilineo e spiraliforme, questa figura è piena di vitalità: le gambe divaricate e piegate al ginocchio, i piedi ben marcati, le braccia formanti all’estremità un ricciolo, le spalle massicce, la testa triangolare e sormontata da piccoli tratti, probabile rappresentazione dei capelli o di una particolare acconciatura. In basso tra le gambe si vedono due figure ad S affrontate». Il Graziosi non dice altro.
Il prof. Cosimo Giannuzzi, di Maglie, invece, il primo nel Salento a fare un attento studio della figura antropomorfa, dice che si tratta di una Divinità danzante, perché si rivela nella forma di un Dio che danza e assume lo stesso ruolo che rese Hermes intellegibile in periodo storico, grazie al caduceo (cfr. Il Dio che danza, Maglie 1988). E ancora: «L’interpretazione della figura antropomorfa di Badisco quale divinità poggia su un grafema ritenuto “sigla” della Grotta dei Cervi. Questo grafema è costituito da due figure equivalenti ma opposte specularmente a forma di S... che sta ad indicare l’esistenza di una contrapposizione fra due elementi di cui uno di essi, fondante, è la derivazione speculare dell’altro. Il criptogramma di Badisco è perciò un simbolo dualistico, perché raffigura una contrapposizione di un contenuto cognitivo, composto da una coppia di elementi costituenti un insieme... Il dualismo... si riferisce al dualismo religioso... In questo criptogramma, la coppia delle S fa supporre, con buona probabilità, a due serpenti affrontati... Il criptogramma delle S è posto fra le gambe di una figura antropomorfa. Questa presenza appare come un’immagine di conciliazione del conflitto degli opposti polarizzati, caratterizzandosi come “contenitore” di essi... Nella figura antropomorfa di Badisco convive la spirale che è un’elaborazione (in termini di astrazione) del serpente, ovvero del concetto di “psiche ancestrale” (luogo degli archetipi). E’ l’evoluzione di questa energia che porta alle manifestazioni simboliche qual è la figura antropomorfa» (cfr. Divinità a Porto Badisco, “Apulia”, III, sett. 1996, pp. 148-150).
Accanto alla Divinità danzante (Giannuzzi), vi è una costruzione nella forma della piramide non molto ben riuscita, oppure si tratta di un villaggio con capanne e relativi recinti, o ancora un segno stellare, o infine un dolmen con foro centrale. Comunque, non è una tavola attorno alla quale vi sono seduti degli umani. Tra la figura antropomorfa e l’edificio vi sono due probabili punte di zagaglia, oppure due estremità in forma di sizigia.

- Cartolina n. 14. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Figure astratte a forma ovale e subtriangolare. Figure nere. Si tratta di raffigurazioni dipinte sulla volta della grotta. Da sinistra verso destra vediamo un umano con il braccio indicante una direzione e di seguito alcuni segni indecifrabili; quindi il probabile recinto vuoto di un villaggio di capanne (ma potrebbe trattarsi anche di un recinto vuoto e diviso per settori per grossi animali) (anche in questo caso notare l’evidente tecnica puntiniforme del pittore/i di Badisco); poco sopra altri segni di umani in movimento; spostandoci verso destra si vedono due recinti con capanne all’interno di una recinzione e, poco più a destra, due spirali in forma di sizigia non ben riuscite; poco più in alto il segno di un altro umano in movimento; da questo punto in poi, andando sempre più verso destra si vede il gruppo delle impronte di mani. Dalle misure anatomiche risulterebbero di adolescenti e di donne. Si trovano collocate in un punto “pericoloso” della grotta, al confine di un’antica frana che ha ostruito il corridoio di proseguimento. Durante la riproduzione grafica, necessaria per le misure anatomiche, gli esperti hanno contato circa 150 impronte. La zona – a detta di chi l’ha visitata e studiata dall’interno – è ancora pericolosa, a causa di distacchi e crolli di lame di roccia, che però non si sono mai più verificati fin dal tempo dal primo incidente. Tuttavia, sembra essere questo il motivo per cui la collocazione delle impronte è in quel luogo (soffitto della grotta). Forse come immagini scaramantiche, una sorta di “sostegni magici”, messi lì a impedire altri possibili crolli nel futuro.
Su queste impronte però c’è pure un altro studio del prof. Cosimo Giannuzzi, il quale scrive che «nella Grotta dei Cervi di Badisco si trovano... delle figure, classificabili tipologicamente fra le mani positive... un indicatore privilegiato dagli interpreti dell’evento cultuale è costituito dall’assenza in certe impronte di mani, di falangi in alcune dita. Alcuni studiosi l’hanno spiegata come una pratica rituale cruenta peculiare di culti ctonii, al fine di modificare la coscienza ordinaria dell’individuo. La sofferenza fisica, derivante dal taglio della falange, è manifestazione della morte iniziatica intesa come “condizione indispensabile per qualsiasi rigenerazione mistica”. In definitiva attraverso l’amputazione l’individuo accede alla spiritualità, differenziandosi dalla collettività definitivamente. Una ricca documentazione sull’attestazione di mutilazioni sacrificali presso popolazioni primitive anche contemporanee è assunta come prova decisiva della rigenerazione mistica... (che) ci fa intravedere un filo conduttore collegante il gesto, la parola e il segno, nel cui incontro va collocata la nascita del pensiero simbolico e della comunicazione». Questo non è in contraddizione con quanto detto precedentemente circa il motivo “magico” e scaramantico.
- Cartolina n. 15. Legenda: Grotta dei Cervi – Porto Badisco – Otranto (Le): Figure umane stilizzate sporgenti dai quattro lati del quadrato. Figure nere. Altra figura emblematica della Grande Grotta di Badisco. Probabilmente si tratta di un edificio, forse nella forma di una grande piramide, con al suo interno un ipotetico percorso del sole: est-sud-ovest.

Fin qui gli appunti sul quadernino dell’uomo dall’occhio sbilenco, Antonio Verri, che ora sentiva di aver effettivamente visto fino in fondo l’antro uterale della Grande Grotta. Per questo, alla fine della storia, era divenuto anche lui un muto eterno, proprio come il suo amico, il vecchio uomo di mare Giuseppe De Paola, assieme al quale attraversava infiniti mondi sotterranei, a Badisco, nel ventre della “Montagnola”, e immerso in una luce che non poteva essere altra che quella astrale magica e fatata. Solo un sibilo lungo percorreva la Valle.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000