Dicembre 2002

Il corsivo

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Il Sud al tempo dei Sassi
Aldo Bello  
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si dice che le donne del Sud siano tutte donne, veramente donne e basta. Come le donne
al tempo dei Sassi
e della bolgia
ebolitana.

 

Sono rimasti nelle corti e nei vichi, abbarbicati a quelli che chiamano “centri storici”, archeologia umana esiliata nell’archeologia dei quartieri-dormitorio, perché tra le persone e le abitazioni non c’è soltanto il vincolo della solidarietà, non sopravvive – inconscio, eppure tattile – l’istinto della difesa comune, ma si stabilisce un rapporto musicale, una specie di sintonia originata da suoni familiari, da echi ondulari. A modo loro, le pareti parlano e le persone ascoltano e rispondono, e il lessico è decriptato dalle anime delle case e delle persone comunicanti sui pentagrammi speculari delle crepe sui muri e sulla pelle, segni del tempo e della confidenza. Ed emblemi dell’infelicità.
Non c’è un Sud felice in nessuna latitudine planetaria. Sud è categoria sensibile dello spirito, scintilla primaria della filosofia e della poesia, invenzione di dèi afosi, sintagma di messaggi sensitivi, terra del lutto senza riscatto. E’ cognizione del dolore. E Sud è rupe, serra, osso argilloso, spuntone giroscopico, murgia ferrugigna; è botro, calanco, dolina, lama, gravina, sisma e smottamento; è muriccia di pietre silicee, accanita divisione di campi, schiena arcuata, rumore di zappa, solco di terra corrucciata; è funereo asfodelo, ulivo laminato, vite torva, fico crepitante, vallonea sterile, mora selvaggia, grano marezzato. Sud è ferita aperta rimarginata riaperta. Sud è antico preludio di rughe.

Sono rimasti nelle corti e nei vichi, abbarbicati a quelli che chiamano “centri storici”, archeologia umana esiliata nell’archeologia dei quartieri-dormitorio, perché tra le persone e le abitazioni non c’è soltanto il vincolo della solidarietà, non sopravvive – inconscio, eppure tattile – l’istinto della difesa comune, ma si stabilisce un rapporto musicale, una specie di sintonia originata da suoni familiari, da echi ondulari. A modo loro, le pareti parlano e le persone ascoltano e rispondono, e il lessico è decriptato dalle anime delle case e delle persone comunicanti sui pentagrammi speculari delle crepe sui muri e sulla pelle, segni del tempo e della confidenza. Ed emblemi dell’infelicità.
Non c’è un Sud felice in nessuna latitudine planetaria. Sud è categoria sensibile dello spirito, scintilla primaria della filosofia e della poesia, invenzione di dèi afosi, sintagma di messaggi sensitivi, terra del lutto senza riscatto. E’ cognizione del dolore. E Sud è rupe, serra, osso argilloso, spuntone giroscopico, murgia ferrugigna; è botro, calanco, dolina, lama, gravina, sisma e smottamento; è muriccia di pietre silicee, accanita divisione di campi, schiena arcuata, rumore di zappa, solco di terra corrucciata; è funereo asfodelo, ulivo laminato, vite torva, fico crepitante, vallonea sterile, mora selvaggia, grano marezzato. Sud è ferita aperta rimarginata riaperta. Sud è antico preludio di rughe.
Bisogna capire preventivamente che cosa è una corte, che cosa è un vico. Bisogna capire la psicologia dell’arroccamento.
Era uno spazio aperto, il Sud che accolse le poleis magnogreche. Era approdo, relazione, scambio, osmosi. Quando la Storia oscurò il Mediterraneo, facendosi scorreria, assalto, rovina, schiavitù, e il mare si popolò di vele filibustiere, archi di memoria romana (a tutto tondo) o etrusca (con possente architrave) furono bocca di corte, limite di difesa, baluardo di sopravvivenza. Così i vichi, dove case addossate, con passaggi multipli per cortili butterati da pozzi e cisterne, aprivano varchi in altre vie e in casbeh contigue, per un’illusione di fuga e di salvezza.
Quelli che trovarono scampo scalarono le alture, e lì alzarono dimore scoscese e sovrapposte, lavorarono campi in pendio, scavarono scalinate come stradelle, bucarono rocce per rifugio di asini e capre, aprirono botole per la cattura dell’acqua piovana. Era necessario avere una riserva smisurata di sogno per ostinarsi a sopravvivere agli assedi di una distruttività palpabile assegnati al Sud dalla màcina del destino.

Donne pennute come giurassiche dèe madri discese dai giacimenti votivi ai disegni stilizzati dei tappeti di Golconda e Buchara, e radicate in tutti i Sud. Querule matriarche, Madonne Nere, Pleiadi proclivi, oracoli predittivi, insondabili abissi d’istinto e d’amore.
Le donne del Sud! La pelle, gli occhi, il cuore delle donne del Sud! Le voci roche, i gesti felini, il familismo determinato, l’ira nuda, la vita agra, l’alibi della speranza, le rivolte disarmate contro il resto di niente...
Si dice che le donne del Sud siano tutte donne, veramente donne e basta. Come le donne al tempo dei Sassi e della bolgia ebolitana. Desolate e coraggiose, portavano il peso della loro esistenza con apparente levità. Curavano i loro uomini, provvedevano giorno e notte alle loro passioni e ai loro bisogni feroci e infantili, amministravano famiglie affamate e ignoranti. Erano queste donne, regine di capanne antri tuguri, a fare dei meridionali un popolo. La loro fatica e la loro sofferenza intrecciavano in un ordito di sollecitudine e di temperamento ciò che altrimenti sarebbe stato un coacervo di vite mercenarie. Erano donne fiere, donne dolci, donne indulgenti e pietose. Donne docili, che facevano dell’amore uno spettacolo vivo e vibrante. Donne che aravano i campi, lavavano i panni, guidavano chars-à-bancs. Donne forti e pazienti che seguivano ovunque i loro uomini. Donne disperatamente razionali che spaccavano il soldo per procurarsi il pane. Donne di precoce senilità, donne minate, che rammendavano al sole poverissimi stracci e carminavano all’ombra le fronde dei pagliericci. Donne intrepide, dagli sguardi sfrontati, con lividi sui seni per gli amplessi di uomini ubriachi. Donne che con il loro afrore irradiavano vertigini carnali. Donne che col sorriso promanavano una luce liquida. Donne defraudate dalla bellezza che scivolava come la camicia di un rettile. Donne malinconiche che sapevano tendere le corde del cuore. Donne del Sud che dava un nome al martirio schivo e verecondo delle sue donne.
Essendo privi di tutto, erano ricchi di stracci e di fantasia. I bambini del Sud erano già adulti a nove o dieci anni. Erano sciuscià, vastasi, pischelli, valiò, callidi ragazzi di vita pasoliniani, Ciàula che scoprivano la luna nell’intermezzo tra una schiavitù e l’altra, monelli scalzi, rattoppati, e magri denutriti braccati da scabbie anemie insulti epilettici. Campi di gioco e aule di scuola, le strade. Imparavano il mestiere di vivere fra le botteghe di carradori, fabbri ferrai, carpentieri, muratori, falegnami, sarti, calzolai, imbianchini, gelatai, riparatori di biciclette e mosquitos, cavatori di tufo, trainieri, verdurai, mercanti da fiere paesane.
Appena adulti, spiccavano il volo verso le sirene dei cantieri. Verso il cielo in gramaglie che era stato tanto generoso con gli uomini del Nord, mentre quello cristallino era stato altrettanto ostile con gli uomini del Sud. Furono dapprima Torino, Milano, Roma, città ancora quasi straniere. Poi Belgio, Francia, Germania, Svizzera. Qualcuno, più spericolato, raggiunse le Americhe o l’Australia. Oltre il Tronto e oltre il Garigliano, l’imbuto insaziabile dello Stivale ingoiava braccia e materia grigia, come un buco nero ingoia sterminate quantità di energia. Nei paesi vaiolosi restavano i vecchi, corpi contorti come i tronchi degli ulivi, superstiti testimoni in ritirata dalle campagne dalle officine dalle botteghe, sapienziali affabulatori, le sere dello scirocco, in circolo sulle soglie di casa.

E’ tutto quel che ci resta, proiezione di un’antropologia lineare irrinunciabile: questa sinfonia di rughe non del tutto affrancate, questa polifonia di esperienze mai del tutto rimosse, questo spartito umano che alternò furore e lutto, miseria e orgoglio, astuzie della ragione e fragilità delle illusioni, inebrianti miraggi e umbratili rancori.
Sono quelli che continuano a sopravvivere nei Sud del Sud. E’ la testimonianza palpitante dei nostri vecchi nodosi, delle donne omeriche, dei bambini dai sogni impenetrabili. E’ tutto ciò che sta ancora in mezzo a noi, che di tanto in tanto prova ad entrare in comunicazione con noi, se la velocità esponenziale del tempo e la simultanea contrazione dello spazio – premio e castigo per la società contemporanea – non ci imponessero che persino quel momento di piacere terreno, che è la sosta a mezzogiorno sotto un albero frondoso, non possa, non debba protrarsi.

(Non era dato circuire questi Sud del Sud con le malie del colore. La loro contemporaneità è un cono d’ombra della nostra coscienza civile e culturale, il sigillo della colpa e, forse, di un rimorso, ma questo ermeticamente segregato.
C’era bisogno del bianco-e-nero per cogliere in tutte le sfumature maculazioni sovrapposizioni i registri e le atmosfere di mondi per tanti versi archetipici. Bianco-e-nero essendo le cromie essenziali dominanti in queste isole arroccate; e le stesse tempere celesti o verdi o rosa che ingentiliscono gli esterni delle case essendo così tenui e trasparenti da suggerire all’obiettivo la loro nostalgia del bianco.
C’era anche bisogno dello scatto su soggetti statici o di impercettibile moto, la cui ombra stessa sembra non muoversi quando il sole declina. Cioè: sono isole anche elettivamente immobili, aliene ai richiami della modernità, che non sia l’elettrodomestico televisivo che ha solo imbastardito, senza distruggerlo, il lessico dialettale, e impoverito, standardizzandola verso il basso, la stessa lingua italiana. E l’ostentata avversione di un modo di essere, di stare al mondo, di pensare, di vestire, di nutrirsi, di scendere a patti con la vita frenetica della città, di trasferirsi – senza morirne – in una casa moderna, arredo Ikea, lettore cd incorporato, piano rialzato, vicinato ignoto, norcinerie non confidenziali, è riflessa nelle iridi, stampata sul volto, deformata nella smorfia degli anziani ormai tagliati fuori da ogni progettualità o voglia di conoscenza, anche la meno sofisticata. Così come, per converso, la fissità degli occhi dei bambini verso un orizzonte misterioso e remoto sembra essere un consapevole impulso vitalistico, una determinazione a venir fuori da quella dimensione degradata, innaturale.
Ed è qui che il gioco di luci e ombre, di luce e non-luce, innesta il modulo della lettura psicologica del soggetto inquadrato, lavora d’introspezione, estrapola racconti per sequenze e suggestioni per memorie esistenziali.

E’ attualità documentale che non intende sistemarsi in via definitiva fra le pagine della Storia che fu. Sicché, sfogliando le foto di Coccioli, conveniamo che ancora oggi – come dice Handke – viviamo un tempo paradossale, in cui a volte anche dai detriti sgorgano sorgenti; e da tutto ciò che appare assolutamente pietrificato possono sprigionarsi immagini che indicano la possibilità di un dispiegamento delle facoltà conoscitive e operative dell’uomo fino a limiti impensati. Se questo è vero, è probabile che il moderno – le cui allegorie sono Eros e Caos – annunciato da Novalis sia al tramonto, mentre si comincia a vivere la transizione verso un altro tempo. Per i Sud del Sud, allora, si aprono spazi enigmatici: sapranno fondersi col resto del mondo? Ci sarà per loro un “oltre”? Si rimetterà in cammino, il Cristo dei deserti, per valicare la nera linea polare di Eboli?).

   
   
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