Dicembre 2002

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Appunti per l’altra frontiera
albini de carlo bello bonsegna franceschi de francovich damiani marani donati
 
 

Flavio Albini
Roberto De Carlo

 

Che il Sud possa essere ormai l’unica, autentica grande risorsa dell’Italia, è idea difficile da far capire a tutti.

 

Se si riparla del Sud

Era diventato una sorta di tabù, il termine “Mezzogiorno”. Non se ne sentiva parlare più, e da gran tempo, anche per via di certi veleni sparsi a piene mani dalle sottoculture secessioniste e di certe reticenze dell’eterno ascarismo meridionale. Per i mass media transitavano quasi esclusivamente le cronache di mafia e di clandestini e quelle sul maltempo; a latere, gli “sprechi” preventivati per il ponte sullo Stretto, con annessi lamenti che mai abbiamo sentito levarsi per il dispendiosissimo “progetto Mose” della laguna veneta né per i ponti sul Po né per altre opere pubbliche largamente finanziate dallo Stato.
Il Sud come penisola che non c’è ha alimentato un assordante silenzio decennale, fino al giorno in cui il Capo dello Stato lo ha rimesso in circolo, chiamandolo con il suo nome e reclamandone il ruolo di potenziale risorsa per l’intero Paese. E da quel momento è cominciata la lenta riemersione del continente meridionale.
Si è scoperto così che nella seconda metà degli anni Novanta il Mezzogiorno è cresciuto più velocemente dell’Italia. Il Prodotto interno lordo del Sud è avanzato mediamente, tra il 1995 e il 2000, al tasso reale annuo del due per cento, contro l’1,9 dell’intero Paese; nel 2000 ha registrato un tasso del 2,2 per cento, mentre l’Italia si è fermata all’1,8 per cento. L’anno successivo il Paese è sceso meno, perché ha segnato un tasso dell’1,5 per cento, e il Sud si è fermato all’1,4 per cento. E’ tuttavia palese che al ritmo del due per cento l’anno non è possibile colmare i divari che si sono stratificati tra le due Italie nel corso dei decenni, dall’Unità ad oggi.
Ebbene: nonostante questa effervescenza recente, il reddito medio pro-capite dei meridionali è stato pari a 14 mila euro, mentre sia nel Nord-Ovest che nel Nord-Est è stato superiore a 25 mila euro. Guardiamo il divario anche attraverso il mercato del lavoro e in termini di lungo periodo, esaminando l’arco di tempo che intercorre tra il gennaio 1993 e il luglio 2000. E calcoliamo, in percentuale, quanti siano gli occupati e le persone in cerca di occupazione nel Mezzogiorno rispetto ai valori delle medesime grandezze nella Penisola. Gli occupati passano dal 29 al 28 per cento degli occupati italiani. I disoccupati passano dal 56 al 54 per cento del totale nazionale.
La popolazione del Sud resta, invece, stazionaria, vale a dire intorno al 33 per cento di quella nazionale. E’ evidente come sul mercato meridionale ci sia una quota di occupazione inferiore a quella della popolazione e una quota di disoccupazione pressoché doppia.
L’andamento delle due variabili aggiunge ulteriori elementi di preoccupazione. E’ chiaro che la questione del Sud non è quella di contemplare quei decimi di punto percentuale che si leggono nel lieve vantaggio registrato negli anni Novanta. L’economia meridionale accusa un pesante divario di benessere, misurato dal reddito pro-capite, e una palese incapacità nel ridurre il numero delle persone in cerca di lavoro, anche in presenza di un aumento degli occupati e di una ripresa dell’emigrazione di risorse umane. Il Sud deve accelerare drasticamente la propria crescita, se intende aggredire con successo questo problema.
Il solo modo per venir fuori dal suo fuso orario arretrato è allargare le dimensioni della propria azienda acquistando con debiti altre aziende: per aggregare energie e per sviluppare sinergie. Se la crescita deve essere rapida, non ci si può accontentare dell’autofinanziamento e delle dimensioni dei mezzi propri. Traduciamo questa strategia aziendale in una politica a scala dell’intero sistema. Non è sufficiente che le imprese del Nord investano al Sud e non basta che lo Stato aiuti questo travaso: con incentivi fiscali (meglio) e finanziari (moderatamente), e con una politica di espansione delle infrastrutture, della difesa dell’ordine pubblico e del riordino degli apparati della giustizia civile. Questi sono obiettivi necessari, ma non ancora sufficienti a raggiungere la meta dell’accelerazione della crescita.
E’ necessario anche che le imprese del Nord e quelle del Sud sappiano trovare la strada di integrazioni reciproche per dare al Mezzogiorno imprese dalla dimensione media più grande: con maggiori capacità organizzative, con relazioni più ampie e più intense verso i mercati internazionali, con una cultura finanziaria più strutturata, che si allarghi ben oltre il perimetro della pratica delle agevolazioni e delle commesse pubbliche.
Questa maggiore integrazione con i mercati esteri e questa diffusione della cultura finanziaria rappresentano la condizione che traduce in un’autentica accelerazione della crescita la spinta che viene dal travaso di investimenti verso il Mezzogiorno. Ed è un’accelerazione della crescita che arginerà, se e quando si manifesterà, la fuga delle risorse umane qualificate che, altrimenti, riverserebbe sul tessuto industriale meridionale un ulteriore handicap.
C’è ancora un problema. Si deve realizzare questa politica mentre il quadro congiunturale è incerto, per non dire depresso. Ma non ci si deve fare intimidire da questa circostanza. Del resto, se l’economia europea non sembra in grado di riprendere rapidamente il ritmo della crescita, la vera opportunità dell’economia italiana è fare espandere l’attività economica meridionale, collegando questa espansione al rafforzamento delle imprese meridionali. Un grande processo di fusioni che acceleri l’allargamento della base produttiva per l’intero Paese. Creando al Sud nuove capacità strategiche locali e nuove opportunità, e non catturando quelle esistenti, trasformando le imprese del Sud in filiali delle imprese del Nord, invece di farne dei centri autonomi, autopropulsivi e risolutori della vecchia questione.

Comunque, che il Mezzogiorno non si sia fermato lo conferma anche la Svimez, secondo cui il Sud ha raggiunto un risultato che conferma «un’accresciuta capacità di adeguamento» del Mezzogiorno, negli ultimi anni, ai cambiamenti indotti dall’azione di contenimento della spesa pubblica a partire dagli anni Novanta e dalla rapida accelerazione all’aumento del grado di internazionalizzazione dell’economia italiana. Tant’è che le aziende meridionali hanno fatto salire la quota delle esportazioni sul totale nazionale dal 9,3 per cento del 1995 al 10,9 per cento dello scorso anno.
E tuttavia, nonostante questi miglioramenti, il Mezzogiorno continua a restare lontanissimo dal Centro-Nord e dall’Europa, per via dei suoi noti mali: scarsità di infrastrutture, alta disoccupazione, bassa occupazione, minore produttività. Mali che sono frutto anche di una gestione errata delle risorse pubbliche. E non soltanto di quelle stanziate ad hoc per le regioni meridionali, ma della spesa in generale, e di quella per il welfare in particolare.
Ed esattamente alla spesa sociale la Svimez dedica un cospicuo capitolo, dal quale emerge la forte penalizzazione che subisce attualmente il Sud rispetto al resto del Paese. Posta uguale a 100 la spesa media pro-capite dell’Unione europea, l’Italia si colloca a quota 95; ma mentre il punteggio del Centro-Nord risulta pari a 107, il Sud supera di poco i 73 punti. Sostiene la Svimez: «Tale distribuzione territoriale dipende in larga misura dalla preponderanza, all’interno del nostro sistema nazionale di welfare, delle prestazioni erogate a tutela del rischio vecchiaia, che coprono circa due terzi del complesso della spesa di protezione sociale, a fronte del 46 per cento della media dei Paesi dell’Unione europea». Il 70 per cento della spesa pensionistica è infatti concentrata al Nord, e non solo perché lì è la parte rilevante della popolazione. Anche se si rapporta il numero delle pensioni alla popolazione, il divario resta ampio: 41 pensioni ogni 100 anziani nel Centro-Nord, contro 32 al Sud.
Allo stesso tempo, mentre nell’Unione europea il sostegno alle famiglie è pari al 2,2 per cento del Prodotto interno lordo, in Italia si raggiunge appena l’uno per cento. Lo stesso si verifica per le politiche destinate alla disoccupazione, che nel nostro Paese incidono soltanto per lo 0,6 per cento, a fronte di un valore medio europeo dell’1,8 per cento. Pertanto, un riequilibrio della spesa sociale a favore delle fasce attualmente escluse dal sistema di protezione sociale avrebbe, secondo la Svimez, «anche un effetto di riequilibrio della sua allocazione territoriale».
La ripresa dei flussi migratori verso aree ricche e la brusca riduzione del tasso di natalità, con un “progressivo avvicinamento” al Centro-Nord, sono la risposta anche all’inadeguatezza dell’attuale sistema di protezione sociale.
A questa scarsa assistenza corrisponde anche un forte ritardo nelle politiche di sviluppo. Pur restando confermato che nell’ultimo anno c’è stata una ripresa nell’erogazione degli aiuti destinati alle imprese, va sottolineato il ritardo della spesa pubblica per le infrastrutture. Dai dati emerge che nel 2001, mentre nel Centro-Nord si è registrato un +4,8 per cento, il Mezzogiorno ha avuto una flessione del 4,1 per cento.
E’ pur vero che il governo ha annunciato un cambiamento politico e strategico: i finanziamenti destinati al Sud dalla legge-obiettivo assegnano alle regioni meridionali oltre il 50 per cento dei 75,3 miliardi di euro destinati alle opere prioritarie. Mancano però interventi diretti su porti e aeroporti. In particolare, si segnala l’importanza di accelerare la realizzazione delle cosiddette “autostrade del mare”, (i traffici portuali al Sud sono cresciuti del 71 per cento, contro il 21 per cento del centro-Nord); e si deve necessariamente intervenire sul piano delle risorse idriche che, nonostante le emergenze degli anni Novanta e quelle, ancora più devastanti, che si sono registrate all’inizio del nuovo secolo, hanno subìto un vistoso ridimensionamento degli investimenti.
Di fronte al permanere di profonde differenze strutturali nel mercato del lavoro, infine, occorre un’ampia diversificazione anche nella definizione delle politiche del lavoro più efficaci per le differenti aree meridionali. In particolare, sarà necessario dare ampio spazio all’applicazione di regole d’impiego e di livelli retributivi differenziati, commisurati alla produttività e alla specificità di ciascuna area.
Non è detto che tutto questo risolva d’un colpo gli antichi problemi del Sud; non è detto neanche che ogni proposta sia valida. Ma è già un modo di riaprire un discorso che sembrava finito nel dimenticatoio, abbandonato dall’impegno politico, relegato ai margini del pensiero economico. Che il Sud possa essere ormai l’unica, autentica grande risorsa dell’Italia, è idea difficile da far capire a tutti, ma ormai ineludibile in un Paese che vive una crisi propria nello scenario della crisi europea, dalla quale hanno preso le distanze proprio quelle nazioni, come l’Irlanda e l’Olanda, e come si accinge a fare la Spagna, che hanno investito in beni e servizi, in infrastrutture e in imprese, nelle loro antiche aree depresse.
Come sia stato possibile che questa lezione non sia stata recepita dalla classe politica italiana è uno dei misteri più ambigui della Penisola. O forse no, se, come sostengono non pochi osservatori, sulla parte zoppa dello Stivale si è retta, in buona salute, la parte sana e parassitaria, ricca e cinica, che sul lunghissimo periodo rischia di avvitarsi, trascinando il Paese ai margini del Vecchio Continente, avvicinandolo alle aree a sviluppo limitato.

 

Aldo Bello
Ludovico Bonsegna
Gilberto Franceschi

E’ questa la più concreta delle rivoluzioni economiche che si possano fare per tirar fuori dal limbo un terzo e più del territorio nazionale.

 

E il Sud non valica
l’antica linea d’ombra

Amara, fredda realtà. Ci vantiamo di essere la sesta potenza economica del mondo (ma siamo stati già superati dalla Cina), ma per reddito lordo pro capite, corretto dal potere d’acquisto, siamo precipitati nel triennio 1999-2001 al ventottesimo posto. Dal ‘95 al 2001 la nostra quota nel commercio mondiale è diminuita di un quinto, e nello stesso arco di tempo la nostra crescita è stata pari alla metà di quella degli altri principali Paesi economicamente evoluti.
La produzione industriale, tra il ‘95 e il 2002, è salita di appena un terzo rispetto a quella degli altri partner europei. La dimensione media delle imprese diminuisce; quelle grandi sono poche e (Fiat insegni) in affanno o in crisi. Nei settori ad alta tecnologia le aziende italiane sono rare. Abbiamo il tasso di occupazione più basso. Gruppi stranieri e monopoli anche pubblici acquistano a piene mani. Noi all’estero andiamo in Romania, più che in Francia. Siamo un Paese sempre meno industriale, per un declino che si profilava inesorabilmente da anni, mentre all’epoca dell’euro si creano più di prima reddito e occupazione: ma altrove, non da noi.
Questo, il quadro generale, drammaticamente obiettivo. Si aggiunga quel che ha detto di recente (a Capri) il Governatore della Banca d’Italia. Fazio ne ha avute per tutti: per i partiti, i sindacati, gli enti locali e le lobby che vogliono condizionare il Parlamento sovrano; per i parlamentari che non curano gli interessi generali; per le imprese, che come lo Stato, nel Sud dovrebbero fare la loro parte; per l’Esecutivo, che dovrebbe fare le riforme strutturali senza perdere altro tempo né accampare altre scuse.

Tribuna inedita, quella dei Giovani industriali scelta dal Governatore. Tribuna senza precedenti. Ma l’intervento non è stato un gesto di pura cortesia. Fazio lo aveva preparato da settimane, con grande meticolosità, sapendo che il suo nuovo richiamo alle riforme strutturali per liberare l’economia italiana sarebbe arrivato nel bel mezzo delle indiscrezioni (e delle critiche) sulla Finanziaria e della bufera sul Mezzogiorno fra governo, industriali e sindacati.
Un segnale inequivocabile: nel documento (23 pagine, sotto il titolo “Impresa, democrazia e sviluppo economico”) non è mai citata, se non una sola volta, e di sguincio, la moneta unica; in compenso sei pagine sono dedicate al 1995. Perché questa data? Perché quello fu l’anno di una delle più gravi crisi finanziarie del dopoguerra.Ma fu anche l’ultimo anno nel quale le prerogative della Banca d’Italia furono dispiegate in tutta la loro ampiezza. Nel ‘96 sarebbe iniziata la corsa verso l’euro, e la politica sarebbe tornata saldamente al timone dell’economia. L’esecutivo fu costretto a varare una manovra correttiva. Fazio ricorda che si dovette soltanto all’intervento tempestivo della Banca centrale, che guidava da poco meno di due anni, se la situazione non precipitò. Per frenare l’inflazione, che aveva ripreso a correre, e per frenare il cambio fra lira e marco, la Banca d’Italia intervenne nel giro di due mesi con due distinte manovre sui tassi. Le aspettative di inflazione si fermarono e la lira si risollevò. Fazio precisa che «l’apprezzamento della lira dalla seconda metà del ‘95 ha un solo precedente storico». Nel 1947 il Governatore di allora, Donato Menichella, «fece risalire il cambio, che da circa 200 lire per dollaro era disceso a oltre 900, fino al di sotto delle 600 lire per dollaro». E’ ancora nel “magico” ‘95 che il prodotto interno lordo, pur spinto «dalle esportazioni favorite dall’ulteriore indebolimento del cambio», salì del 2,9 per cento. Ma, secondo il Governatore, proprio quello è stato l’anno che ha segnato l’inizio del declino.
Ne ha avuto per tutti, il Governatore: partiti, sindacati, enti locali e lobbies che vorrebbero condizionare il Parlamento sovrano; per i parlamentari che non curano gli interessi generali; per le imprese che, come lo Stato, nel Mezzogiorno devono fare la loro parte; e anche per l’esecutivo, che a questo punto deve fare le riforme strutturali. Così, denuncia la perdita di competitività dell’Italia, l’indebolimento della struttura industriale, il paragone impietoso fra le grandi imprese francesi, britanniche, americane e quelle dell’Italia, dove le aziende con più di 500 addetti rappresentano meno del 15 per cento dell’occupazione industriale. Così come sottolinea anche la perdita di quota del commercio internazionale, la scarsa presenza di imprese italiane nei settori tecnologici, e arriva a puntare il dito sull’incapacità «del settore privato di cogliere i vantaggi della stabilizzazione monetaria e finanziaria». Per commentare amaramente: «Non abbiamo tenuto il passo delle altre economie industriali».
I dati che hanno ispirato questa vera e propria filippica ce li fornisce Eurostat. Procediamo per capitoli. Si sostiene che il tasso di disoccupazione sia sceso nel nostro Paese attorno al 10 per cento. In realtà, questo è un dato scorretto (per le grandi divaricazioni interne alla Penisola, fra Nord, Centro e Sud) e imparagonabile al resto dei Paesi europei. Fra l’altro, molti da noi non dichiarano neanche di cercare lavoro, convinti come sono che è del tutto inutile. Allora, conviene attestarsi su un altro dato: quello dell’occupazione. Ebbene, la percentuale di italiani che lavorano tra quelli che avrebbero l’età per farlo (cioè tra i 15 e i 64 anni) è pari al 53 per cento. Questo è il dato più basso d’Europa. E’ sotto la Grecia, la Spagna e il Portogallo. Siamo i soli per i quali tale livello è diminuito, passando dal 54,1 del 1991 al 53,4 del 2000. In questi dieci anni il citato tasso è cresciuto del 10 per cento in Irlanda, tanto per fare un esempio.
Il record negativo ce lo teniamo stretto soprattutto in campo femminile. Le donne che lavorano sono soltanto il 37 per cento. In Grecia siamo al 40, in Irlanda al 51, in Olanda c’è stato un incremento in dieci anni dal 48 al 61 per cento.
Attenzione: proprio nei Paesi Bassi questa crescita dell’occupazione femminile ha coinciso con la diffusione del part-time, che nella zona di Amsterdam caratterizza il 67 per cento dei rapporti di lavoro, mentre da noi siamo al 12 per cento (in Europa: 31 per cento). I sindacati e la Confindustria non amano il part-time, non si capisce bene perché. La conseguenza di questa trascuratezza ci riguarda tutti. Infatti, in un Paese in cui sono in pochi a lavorare è inevitabile che i costi sociali ricadano proprio su questi pochi. Il risultato è un alto costo del lavoro, con una paga in busta più bassa e col carico sociale più alto d’Europa. E quasi tutto è destinato alle pensioni, mentre le spese per il sostegno della famiglia, che in Europa assorbono il 4 per cento circa delle spese sociali, da noi giungono appena allo 0,9 per cento.
Poi ci si lamenta se si fanno pochi figli. Come si fa? Non c’è quasi il part-time, non si sostiene la famiglia, le tasse giungono al 44 e passa per cento, contro una media europea del 40,2. Che fare? Devono lavorare più persone, occorre promuovere un più facile contatto tra domanda e offerta di lavoro, invece di tornare periodicamente sulla storia delle “gabbie salariali”, che pare stiano tanto a cuore al cinico vampirismo leghista e a qualche supporter che occupa stanze di bottoni della super-economia. E occorre puntare allo sviluppo del Sud. A proposito del quale, le polemiche rischiano di diventare roventi.

«Ci dicono che per il Sud non c’è una lira. Ed è vero, questi incentivi sono tutti in euro». Il viceministro dell’economia si compiace della battuta, sfodera le carte e cita velocemente: ci sono 1.800 “meuro” (cioè milioni di euro) immediatamente utilizzabili. Non c’è alcun problema per il credito di imposta, per la legge 488, per la 64, per i prestiti d’onore. Anche il vice-premier computa: nel 2003 si passerà da 12 a 14 miliardi di euro a disposizione del Sud. Di questi 14, alle imprese andranno 9,7 miliardi. I restanti 4,3 miliardi serviranno ad accendere altrettanti miliardi di finanziamenti europei. In totale, la cifra sale a 18 miliardi di euro. E ancora: nella Finanziaria è previsto un incremento del 26,2 per cento di risorse per il Mezzogiorno, mentre gli enti locali – per dire – rimangono al palo.
Insomma, il 2003 sarà l’anno record per il Sud. Le cifre sono lì, non facilmente contestabili. Certo, si potrebbe discutere all’infinito sull’origine dei finanziamenti, cercare di ricostruire quanto è stato ereditato dal vecchio esecutivo e quanto è stato aggiunto dal nuovo. Ma alle imprese, ai sindacati e alle categoria in genere molto di questo quasi non interessa più. Lo stesso vice-premier ha provato ad aggiustare il tiro, osservando che semmai sarebbe il caso di cominciare a discutere sui meccanismi di funzionamento degli incentivi. Ma al Tesoro gli esperti che si occupano di queste cose guardano ancora più avanti: «A dicembre potremmo assistere ad uno scontro senza precedenti all’interno del governo. Ad un’operazione di chiarimento definitivo della strategia da seguire nel Sud». Che cosa mai potrà succedere a dicembre? Semplice. Il Cipe, Comitato interministeriale per la programmazione economica, dovrà decidere come suddividere le risorse tra tutte le leggi di incentivo confluite nell’ormai celebre Fondo Unico. A quel punto, il presidente del Consiglio e un ristretto numero di ministri si troveranno a scegliere tra filosofie e politiche di intervento diverse, talvolta anche contraddittorie. Un conto, ad esempio, è dare spinta (e risorse) al credito d’imposta e, in parte, alla 488, cioè a incentivi automatici concessi a qualunque impresa, ovunque si trovi, qualunque sia la merce prodotta. Tutt’altra cosa è accordare la precedenza ai patti territoriali o anche ai “contratti di programma”, vale a dire a micro-modelli di sviluppo integrato, costruiti intorno a una fabbrica, o a un singolo distretto specializzato. Insomma, intorno a una “vocazione” o a un’ “idea” imprenditoriale. Il problema, quindi, non sarà più dire “quante risorse” ci sono, ma “a che cosa servono”.
Il tema è stato appena sfiorato nei documenti ufficiali. O meglio, nel Documento di programmazione economica e finanziaria (Dpef), tanto quanto nel Patto per l’Italia, e infine nella Finanziaria, si trovano dettagli abbondanti sugli interventi “di cornice”, cioè le strade, le reti idriche, gli elettrodotti. Mentre manca una qualsiasi indicazione su quali settori scommettere: quali industrie? quali servizi? quali tecnologie? Molti guardano a quanto è avvenuto nel Galles, dove l’Agenzia governativa per lo sviluppo (Wda) ha favorito i settori ritenuti competitivi (in quel caso, auto e indotto, elettronica e informatica), lasciando fuori dalla porta tutti gli altri (abbigliamento e manifatture tradizionali). Con risultati eccellenti.
Il governo italiano, almeno fino a questo momento, ha messo in campo un approccio quasi esclusivamente “quantitativo”, anche perché c’è qualche titolare di dicastero che è del tutto allergico a promuovere leggi o incentivi che spingano in una o nell’altra direzione, ritenendo invece importante che si predispongano le vele (cioè fisco leggero, flessibilità del lavoro, infrastrutture), e che si attenda il sopraggiungere del vento che dia luogo alla ripresa.
Ma nell’Esecutivo, nell’amministrazione dello Stato e nelle Regioni (cui toccano competenze decisive sulla programmazione economica) si è ampliata anche una corrente “qualitativa”. Basti pensare, per fare un esempio, al paziente lavoro di cucitura dei patti territoriali tentato, con esiti alterni, dal Dipartimento per la coesione (guidato da Fabrizio Barca). Oppure alla riformulazione della 488 (bandi di gara specializzati per settore), avviata dall’ex ministro dell’Industria e proseguita, sia pure con altri criteri, dall’attuale titolare delle Attività produttive. Il primo confronto (più probabilmente, il primo scontro) tra “quantità” e “qualità”, o come dicono al Tesoro, tra “programmatori” e “incentivisti” è previsto, appunto, per dicembre, con code velenose all’inizio del nuovo anno.

La Svimez ha compilato una graduatoria provinciale sulla base dei tassi di disoccupazione al 2000. Con il 30,5 per cento di senza lavoro, Reggio Calabria si conferma ai vertici che, l’anno precedente, condivideva a pari merito con Enna: la provincia siciliana (30,2 per cento) perde la maglia nera e “conquista” il secondo posto. Al terzo si conferma Catanzaro (28,9 per cento) e al quarto sale Palermo (28,6 per cento), che un anno prima era al quinto, preceduta da Vibo Valentia, che nel 2000 si piazza al sesto (26,3 per cento).
Sul versante opposto, Lecco guadagna il primato della provincia con il più basso tasso di disoccupazione (1,7 per cento), seguita da Bolzano (2,1 per cento) che nel 1999 era invece al vertice della graduatoria delle aree virtuose.
Secondo l’elaborazione, è necessario arrivare al 32° posto per trovare la prima provincia (Frosinone) non meridionale. Soltanto cinque province del Sud (le quattro abruzzesi, più Isernia) presentano tassi di disoccupazione inferiori alla media italiana.
Va sottolineato che gli alti tassi di senza lavoro nel Mezzogiorno si associano quasi dappertutto a tassi di attività sensibilmente più bassi rispetto al Centro-Nord. Si varia dal 58,1 per cento di Bolzano al 39,7 per cento di Trapani. Più in generale, il tasso di attività del Nord-Est (52,3 per cento) è di circa 10 punti superiore alla media del Sud (43,9 per cento).
Si tratta di un’ulteriore dimostrazione degli squilibri territoriali che fanno del caso dell’Italia una particolarità in Europa anche rispetto a Paesi, come la Germania e soprattutto la Spagna, che presentano forti differenze tra le regioni.
Come hanno evidenziato anche gli ultimi dati Istat, relativi ai primi mesi di quest’anno, il Mezzogiorno ha messo a segno una crescita occupazionale superiore alla media nazionale. E’ stata una ripresa del lavoro già percepita lo scorso anno e nel 2000, quando 76 province su 103 registrarono aumenti dell’occupazione: di queste, 28 su un totale di 35 sono dislocate nel Sud. In termini assoluti, Roma è stata la provincia che ha avuto la performance migliore, seguita da Torino, Milano e Bari. Con aumenti superiori all’8 per cento guidano questa classifica le province di Livorno e Belluno, seguite da Trieste e Alessandria. Nel Sud, gli incrementi percentuali più elevati si sono registrati a Potenza, ad Enna e a Lecce.
Di pari passo va l’andamento dei disoccupati, che sono diminuiti in 79 province. Le flessioni maggiori, per quanto riguarda le persone in cerca di occupazione, si sono avute a Modena, Asti e Venezia. Al Sud, i miglioramenti più significativi si sono registrati ad Enna, Reggio Calabria, Catania e Vibo Valentia. In ventitré province (13 al Nord e 10 al Sud), i disoccupati risultano aumentati. In una, (Trapani), situazione immutata. Un vistoso risultato negativo si è avuto ad Agrigento, dove i disoccupati sono cresciuti del 50 per cento.
Nel complesso, il Sud ha messo a segno una discesa dei senza lavoro, arrivati al 21 per cento, contro il 22 per cento dell’anno precedente. Ma, in sintesi, va chiarito: i tassi di disoccupazione registrati a Nord confermano i paradossi del mercato del lavoro italiano: molte province di Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte presentano performance d’eccellenza a livello europeo e devono fare i conti con la carenza di manodopera. Al contrario, il Mezzogiorno viaggia con tassi di disoccupazione ancora abnormi, e che nel caso delle donne sono superiori addirittura al 40 per cento.
Svimez fa una considerazione conclusiva: poco meno del 90 per cento della popolazione del Centro-Nord risiede in province nelle quali i senza lavoro sono meno del 10 per cento: nel Nord-Est i tre quarti vivono in aree con tassi inferiori al 5 per cento. Nel Sud la popolazione che risiede in province con tassi inferiori al 5 per cento è appena il 5 per cento del totale (era del 3 per cento nel ‘99), mentre il 33 per cento deve fare i conti con quote superiori al 25 per cento.

L’Est europeo: perché è più vicino, perché la manodopera non è ancora cara, perché gli ostacoli alla libera circolazione delle merci, anche quelle che viaggiano sui binari del perfezionamento passivo, sono ormai quasi del tutto abbattute. Le cifre parlano chiaro: l’87,9 per cento, cioè la quasi totalità della delocalizzazione produttiva italiana del settore abbigliamento, maglieria e corsetteria, oltre alle calzature, avviene nell’Europa centro-orientale. La parte del leone la fa la Romania con circa un terzo del totale, ma ci sono anche la Croazia (11 per cento), l’Ungheria (7,4 per cento), l’Albania, la Polonia, Paesi storici del contoterzismo italico. Accanto a loro, le nuove frontiere del perfezionamento passivo, come Moldavia, Ucraina, Montenegro, Bielorussia: insomma, quei Paesi che a causa del livello di vita e dei salari ancora molto bassi attraggono gli imprenditori sempre in cerca di tagli ai costi nei segmenti labour intensive.
E il decentramento produttivo comincia a scoprire aree come la Lituania e l’Estonia, che hanno una grande tradizione nel tessile, anche se durante il regime comunista hanno confezionato quasi esclusivamente divise per l’Armata Rossa.
Quando si parla di delocalizzazione, però, è bene distinguere. Per la piccola industria italiana, che mira solo a delocalizzare le fasi del lavoro in cui il costo della manodopera incide di più, e poi reimporta in Italia il tutto, Paesi come l’Ungheria e la Polonia hanno fatto il loro tempo. Vi si lavora ancora, soprattutto nelle regioni meno sviluppate. Ma i governo locali hanno scarso interesse a questo tipo di aziende che portano, certo, posti di lavoro, ma non arricchiscono il tessuto industriale dell’area e possono senza problemi trasferire il lavoro in un altro Paese, con salari più bassi e con infrastrutture non troppo scadenti. Un esempio per tutti, l’Ungheria, che ormai punta su altri settori, dall’auto alla meccanica e all’elettronica: i governi che si sono succeduti negli ultimi tre anni hanno aumentato i minimi salariali, con buona pace dei contoterzisti puri del tessile che comunque una volta o l’altra sono destinati a spostarsi, quasi certamente verso la Moldavia, l’Ucraina e la Bielorussia.
Diversa è invece l’azienda che mira non soltanto a delocalizzare, ma anche a internazionalizzarsi, cioè, alla lunga, a produrre una serie di articoli in loco e magari a cercare di penetrare nel mercato locale o in quelli limitrofi. In tal caso, alcuni Paesi danno molte più garanzie di altri, sia dal punto di vista della qualità che della logistica. E offrono maggiori vantaggi a chi vuole radicarsi davvero sul territorio.
Est europeo a parte, ci rimane molto. La Tunisia, ad esempio. E, oltre alla Corea del Sud e alla Thailandia, è il tempo della Cina e dell’India, soprattutto con prodotti di penetrazione sui mercati locali, i cui numeri sono indiscutibilmente imponenti. Come quelli della Russia.

Con tutto questo, anche, il Sud deve fare i conti. E li devono fare lo Stato, le Regioni e gli imprenditori, oltre alle forze sociali. Perché non è più possibile puntare sull’impresa tradizionale, che va a cercare manodopera a buon prezzo oltre tutte le frontiere, ma occorre puntare sulle nuove produzioni e sulle nuove tecnologie, procedendo in via preliminare alla formazione dei futuri addetti. E’ tutto un contesto che è necessario predisporre, nel momento in cui il Sud non è più quello fermo a Eboli e le risorse umane non provengono più dalle campagne o dai pascoli, dall’artigianato elementare o dalle attività senza nome, che non fosse quello della pura e avventurosa sopravvivenza. Parte, dal Mezzogiorno, materia grigia colta, con preparazione di base a livello di diploma o di laurea, con predisposizione alle professionalità tecniche di medio e alto livello. Cioè: si è di fronte ad elementi che non è più possibile usare, come accadeva negli anni Cinquanta e Sessanta, come materia informe da sfruttare e da sottopagare, ma come soggetti culturalmente superiori alla media, antropologicamente disposti all’inventiva e al lavoro creativo, tradizionalmente votati al sacrificio in nome del successo: cioè a tutto il contrario di quanto le leggende metropolitane sui meridionali fannulloni e sfaticati hanno accreditato strumentalmente, o per ignoranza, o per malafede, fino a poco fa.
E’ con queste risorse umane che politici, forze sociali, imprenditori devono fare i conti; ed è con costoro che gli amministratori delle regioni meridionali devono creare ragioni d’intrapresa, di sviluppo, di progresso economico, civile, sociale, al modo di quanto hanno fatto gli irlandesi e i francesi del Borinage, gli spagnoli d’Andalusia o i tedeschi dello Schleswig-Holstein: azioni strutturali, non interventi come quando piove; imprese vive, non premorte o comatose dalla nascita; iniziative coordinate, reti di aziende complementari e di indotto, ingresso nelle nuove tecnologie, sfruttando tutte le opportunità, locali, nazionali, europee, e non più fumo negli occhi o fabbriche succursali che poi sono le prime ad esser chiuse, appena si profili un’ombra di crisi. E’ questa la più concreta delle rivoluzioni economiche che si possano fare per tirar fuori dal limbo un terzo e più del territorio nazionale, il maggior Sud d’Europa, dove – è ben non dimenticarlo mai – è nata la civiltà occidentale.

 

 

Lamberto de Francovich
Edoardo Damiani

Il problema non è chiedersi che cosa ci si guadagni. Piuttosto, bisogna pensare a quanto si perde, oggi, con il Sud in condizioni di marginalità.

 

Sud o deriva

Sud tradito? Scorriamo l’elenco delle accuse: rispetto agli anni precedenti, questi i passi indietro: meno 20 per cento di investimenti nelle regioni meridionali, e meno 40 per cento di investimenti per le imprese. Meno 100 per cento di investimenti per l’imprenditoria femminile. Per le infrastrutture, su quindici priorità, quattordici sono al Nord, solo una (il Ponte sullo Stretto di Messina) al Sud. Previsione per il 2002: media di crescita del Mezzogiorno di nuovo inferiore dello 0,5 per cento rispetto a quello del Centro-Nord, con una netta inversione di tendenza rispetto al recente passato, quando il Sud è cresciuto per occupazione e numero di imprese. Il governo difende interessi localizzati altrove, senza capire che il Sud è prioritario per la competitività del Paese: prova ne sia lo stop ai patti territoriali, privi di risorse finanziarie.
In effetti, è un andamento lento quello che caratterizza il Mezzogiorno negli ultimi anni. Eravamo quasi disabituati a questa storia, tanto che ci eravamo entusiasmati di fronte a una serie di segnali positivi. Dal 1996 l’economia dell’area cominciava a manifestare una vivacità prima sconosciuta. E si verificavano aumenti della crescita del Prodotto interno lordo, dal ‘96 al 2000, del 2 per cento medio annuo; negli occupati, circa 500 mila al saldo; nelle esportazioni, che oggi rappresentano l’11 per cento di quelle del Paese; negli investimenti fissi lordi, cresciuti del 4,2 per cento medio annuo.
Il miracolo, in realtà, era poco più di un limitato movimentismo, sicuramente non correlato allo sforzo dell’Unione europea su tali territori, cosiddetti “a obiettivo Uno”. Tanto che nel frattempo questo insufficiente impegno ha portato a un progressivo saldo demografico negativo di alcune regioni, evidenziato dai dati provvisori dell’ultimo censimento: in particolare di Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia.
E’ sufficiente un pur sommario confronto con alcuni Paesi dell’Est europeo, prossimi all’ingresso in Ue, per accorgersi che gli incrementi registrati sono stati assolutamente contenuti, oltre che insufficienti. Infatti, nello stesso periodo la Polonia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Romania sono cresciute, in media annua, rispettivamente del 4,8 per cento, del 4 per cento, del 3,3 per cento e del 3,2 per cento. Ma anche gli altri Paesi dell’Unione che rientrano, alcuni per intero come il Portogallo e la Grecia, altri in buona parte come la Spagna, nell’obiettivo Uno hanno avuto crescite più consistenti rispetto al Mezzogiorno, con tassi rispettivamente del 3,3 per cento, del 3 per cento e del 2,96 per cento in media annua dal ‘97 al 2001.
E per non essere ripetitivi non facciamo il confronto con la tigre europea, quell’Irlanda che si posiziona su tassi medi di crescita di oltre il 5 per cento annuo.
La motivazione profonda di tale diversa performance del Sud rispetto alle altre aree a ritardo di sviluppo dell’Europa dei Quindici e a quelle che si stanno preparando per il potenziale allargamento ha origini molteplici. Molti affermano che la mancata infrastrutturazione, la criminalità organizzata ancora esistente, la mancanza di una fiscalità più favorevole, l’insufficiente flessibilità salariale o la sgangherata macchina burocratica siano le cause di un lento avviarsi del processo di sviluppo per tali aree. Ma scambiano le conseguenze del mancato impegno della politica con le cause del mancato decollo. Se queste fossero le cause, e non le conseguenze, non si potrebbe spiegare come realtà come quelle citate, caratterizzate da problemi altrettanto se non più consistenti di arretratezza, invece siano riuscite ad avere tassi di crescita interessanti, che per il Mezzogiorno rimangono obiettivi di programmazione economica e finanziaria passati e presenti, mai raggiunti.

E allora le ragioni vanno cercate altrove, in particolare nel fatto fondamentale che il Mezzogiorno è stato per anni una deriva lasciata a se stessa. Il problema della contrattazione delle modalità di erogazione dei fondi europei, un problema minore, riguardante soltanto poveri meridionali. Ricordiamo tutti, dopo che a Catania, ministro del Tesoro Ciampi, si dibatté sulle “cento idee” per lo sviluppo, il balletto delle nomine del responsabile del Dipartimento delle politiche di coesione del ministero del Bilancio: Barca, Passacantando, Scognamiglio, in un momento nel quale bisognava contrattare le regole di Agenda 2000 con i burocrati dell’Unione, convinti di avere a che fare con burocrazie mitteleuropee piuttosto che con traballanti strutture istituzionali, comuni, province, regioni, dedite più a lotte tribali che a promozione di sviluppo e occupazione nei loro territori.
E il risultato di tali incertezze sta tutto nelle difficoltà di avviamento di Agenda 2000, dovute sì a insufficienze delle amministrazioni locali, ma anche a una costruzione complessa che ripropone la sindrome del pane duro al neonato, per cui questi muore di fame pur avendo a disposizione un alimento che però non è capace di utilizzare.
Le previsioni per il 2002 sono caratterizzate da una crescita che è di poco superiore a quella del Centro-Nord, come avviene di solito nei momenti di stanca del ciclo economico. Ma siamo sempre a livelli tali da non risolvere né il problema del divario che, al limite, non può essere fondamentale, né il problema più importante della mancata utilizzazione delle risorse disponibili: il capitale umano formato, costretto a spostarsi con un danno non indifferente, e risorse finanziarie disponibili che vengono utilizzate in altre parti del Paese per trovare possibilità di investimento che in loco non riescono ad avere.
Una buona accelerazione della spesa dei fondi strutturali degli ultimi mesi, che ha consentito la chiusura del QCS ‘94-‘99 con risultati soddisfacenti, è stata importante. Ma il problema va affrontato anche con dosi di fantasia che consentano il recupero di quelle storture conseguenti a un andamento che non può mutare nel brevissimo periodo. E che prevedano, oltre agli interventi sui cinque elementi di blocco (infrastrutture, cartelli del crimine, flessibilità salariale, fiscalità compensativa, semplificazione amministrativa) dei salti di fantasia.
E mentre va avanti l’impegno sul progetto-simbolo come quello del Ponte sullo Stretto, occorre immaginare interventi ricostituenti o di catenaccio: come ricostituire dosi di capitale umano per sopperire alla fuoriuscita inevitabile di giovani formati; come far trasferire grandi Enti, nazionali o europei, nelle realtà metropolitane meridionali che equilibrino il numero preoccupante di giovani costretti a lasciare le regioni meridionali.
O immaginare grandi eventi sportivi o politici che costringano, in tempi certi, a confrontarsi con problemi strutturali, come quello della mancanza di acqua, o del mancato completamento di importanti opere pubbliche, che rischiano senza tali scadenze di rimanere irrisolti. Tutto ciò è impegnativo, ma anche il problema non è di quelli semplici, considerato che riguarda un’area più popolata di molti Paesi dell’Unione e di quelli che a breve entreranno in Europa.

Ora si muove il presidente della Confindustria, il quale sostiene che si debba aprire una “banca delle idee” per il Sud: «Io so che le risorse non sono un problema: ci sono i fondi comunitari, ci sono i capitali internazionali. L’importante è avere idee, progetti, per promuovere azioni di sviluppo. Di più: non ci sono più grandi banche meridionali e le fondazioni rimaste hanno un patrimonio molto modesto, cosa che riduce notevolmente le capacità d’investimento sul loro territorio. Per questo ritengo che una quota-parte delle risorse delle fondazioni del Nord debbano essere investite nel Mezzogiorno. Purché, sia chiaro, vi siano iniziative serie da sostenere. C’è una provata debolezza progettuale da parte delle Regioni, e non solo di quelle meridionali. Nel Sud c’è stata anche una non sempre sufficiente capacità di proposta da parte dei ceti imprenditoriali. Ecco: il Comitato Mezzogiorno di Confindustria sta lanciando delle fondazioni per studiare progetti di sviluppo e metterli a disposizione delle Regioni».
Il problema non è chiedersi che cosa ci si guadagni. Piuttosto, bisogna pensare a quanto si perde, oggi, con il Sud in condizioni di marginalità. Ci guadagna lo sviluppo complessivo dell’Italia. Infatti, se il contesto non cambia radicalmente, sarà sempre più difficile portare cervelli e intelligenze nelle aziende extra-meridionali. Oggi nel mondo i migliori talenti vanno dove trovano un’evidente qualità della vita, i migliori centri di ricerca e le migliori opportunità di mercato. Per attrarre investimenti di valore occorre saper compiere un autentico salto nella qualità dello sviluppo del contesto sociale e della vivibilità.
«Credo fino in fondo nelle possibilità del Mezzogiorno», sostiene D’Amato. «Abbiamo i migliori giovani d’Europa, un ceto di imprenditori che ha dimostrato di essere vitale e di credere in se stesso. Abbiamo opportunità straordinarie, ma dobbiamo essere capaci di progettare e di realizzare da noi il nostro futuro». Ma a che genere di progetti si pensa? Non soltanto alle opere pubbliche, alle strade, agli acquedotti, alle comunicazioni. Ma anche, se non soprattutto, alla nascita di distretti industriali dotati di servizi di altissima qualità, di sistemi turistici integrati che sappiano valorizzare le ricchezze artistiche, culturali e paesaggistiche. Quando queste iniziative saranno a regime, si sarà in grado di promuovere occupazione e sviluppo veri e duraturi. Altrimenti per l’intero Paese i problemi torneranno a riproporsi, aggravati. E non ci sarà più tempo, né modo, per risolverli.

Ampliando il discorso, possiamo dire in generale che attualmente viviamo in un’epoca post-strutturalistica, dove gli eventi non sono più governati da leggi che li annunciano anzitempo, ma accadono per il sovrapporsi di azioni, circostanze e congiunture che sembrano assemblate dal caso o frutto di uno spericolato “bricolage” degli attori. Eppure, il flusso della cronaca procede a zig zag entro argini ben riconoscibili fissati dalla storia. Esistono “perni regolatori” che hanno istradato lungo vie diverse le storie dei capitalismi nazionali messi a confronto dall’economia contemporanea.
Pertanto, rendere esplicite le radici storiche che hanno regolato i comportamenti delle persone e delle imprese nella storia industriale italiana, significa anche offrire un interessante spaccato delle relazioni che si sono intrecciate tra società, economia e politica nelle diverse fasi dell’Unità nazionale fino ai nostri giorni.
Uno dei tratti distintivi del nostro Paese va cercato in una sorta di vocazione storica alla “rincorsa” dell’altrui modernità. In altre parole, l’Italia non ha mai cessato di inseguire un modello di modernità che, avendo preso forma altrove, è stato artificialmente trapiantato da noi, non senza qualche forzatura. Di qui, le debolezze intrinseche di un apparato produttivo nato e sviluppato senza rivoluzione industriale, di una borghesia affermatasi senza rivoluzioni borghesi.

L’Italia si è insomma specializzata nel ruolo, intrinsecamente precario, dell’ultimo arrivato: il “latecomer” che rincorre gli altri sfruttando, se può, qualche buona occasione o qualche scivolo preferenziale, per trovarsi però ben presto impigliato nelle maglie della propria costitutiva diversità. Fino a che il gioco è durato, l’Europa è stata la stella polare di questa rincorsa. Ci ha offerto una straordinaria occasione di crescita indotta dopo la seconda guerra mondiale (fino al “miracolo economico”) e un ancoraggio sicuro nel corso della ristrutturazione post-anni Settanta. Ma oggi l’Europa ha portato il sistema italiano nel mare aperto della concorrenza globale, mettendo in corto circuito le croniche eredità di una storia perennemente imbrigliata da tre questioni irrisolte, che emergono a scadenze ricorrenti.

Prima tra tutte, la “questione proprietaria”. In un capitalismo povero di capitali privati, lo sviluppo industriale si è retto su due perni: le Partecipazioni statali, da un lato, e la proprietà pubblica delle banche, dall’altro. Due strutture proprietarie che fanno del rapporto privilegiato con lo Stato la loro ragione di forza e di debolezza. Per differenza, il capitalismo privato è rimasto limitato a un nucleo ristretto di poche grandi imprese, a proprietà familiare, anch’esse frenate da un assetto proprietario poco rispondente alla necessità della modernizzazione industriale.
L’impresa familiare, infatti, ha il vantaggio di dare una soddisfacente stabilità alla linea di comando, funzionando come un ottimo volano della crescita in tempi di ordinaria amministrazione, ma dà luogo a tutta una serie di “defaillances” quando le imprese devono accelerare il ritmo di innovazione. Per una ragione evidente: in tutti i casi in cui le esigenze del controllo contrastano con quelle dello sviluppo, l’impresa familiare tende inevitabilmente a privilegiare le prime, sacrificando le seconde. La preoccupazione di “blindare” la catena di controllo impedisce infatti alla famiglia proprietaria di espandere la base finanziaria in funzione delle esigenze di innovazione o di crescita e di espansione.
Il “nodo” proprietario, dunque, mette in campo protagonisti che risultano, per ragioni diverse, costituzionalmente deboli: grande impresa pubblica, capitalismo familiare, banche abituate a un mercato protetto. Questa triade ha avuto la sua stagione d’oro negli anni del “miracolo economico”, ma ha mostrato poi il fiato grosso non appena si è cominciato davvero a fare i conti con capitalismi nazionali più evoluti, sulla scena europea, e con le esigenze della concorrenza globale.
Negli ultimi anni, le cose sono, in linea di principio, cambiate, per effetto delle privatizzazioni (di imprese e banche) e con l’adozione di regole competitive più aperte. Ma si è trattato di un cambiamento rimasto in gran parte sulla carta: i nuovi attori che sono emersi dallo “scongelamento” del vecchio sistema proprietario non si sono infatti allontanati troppo dai canoni classici del capitalismo familiare. Le poche scalate ostili che si sono verificate sono state rapidamente recuperate da “interventi concordati” con il nucleo storico dell’industria italiana.
L’irrisolta “questione proprietaria” si è sommata così al peso delle altre due forze frenanti: la “questione dimensionale” e quella “tecnologica”. Ambedue nascono dall’aver compensato la debolezza della grande impresa, diffusa sul territorio e attestata in settori tradizionali. Nonostante tutti i loro meriti, le piccole imprese forniscono oggi all’economia italiana una base d’appoggio debole, inadeguata rispetto alle esigenze di scala e di innovazione tecnologica imposte dalla nuova concorrenza europea e globale. Abbiamo imprese che sono spesso troppo piccole e settori che sono spesso troppo tradizionali per acquistare peso e deterrenza nel riposizionamento competitivo dei capitalismi nazionali.
Non è tuttavia il caso di abbandonarsi al pessimismo, in fatto di futuro dell’industria italiana. Infatti, esistono spazi di azione e di concorrenza non ancora praticati, che potrebbero dare nuova vitalità al capitalismo nazionale. E’ vero tuttavia che la storica vocazione a “rincorrere” gli altri Paesi oggi non basta più: bisogna vincere resistenze all’innovazione e al cambiamento che stanno diventando sempre più forti. C’è il pericolo che si realizzi una saldatura tra i diversi bisogni di conservazione e tutela che emergono dal perdurare delle tre questioni irrisolte, ciascuna delle quali continua ad agire sottotraccia, indebolendo la ricerca di regole più trasparenti e di maggiore certezza nelle responsabilità. Il blocco proprietario che mira a difendere gli equilibri in essere può infatti trovare un terreno comune con interessi diffusi e popolari che vedono con preoccupazione i possibili effetti di mercati più aperti e contendibili.
Rimane una domanda finale: se non sia possibile alleggerire il peso delle diversità che la storia ci ha lasciato in consegna, accettando fino in fondo la nostra differenza e smettendo di rincorrere la modernità altrui. Forse l’uso migliore che si può fare della nostra diversità nell’economia globale è quello di utilizzarla per elaborare una nozione originale di modernità, a partire da quei campi in cui non abbiamo nessuno da inseguire, per il semplice fatto che ci siamo trovati, tra una cosa e l’altra, tra uno scatto vitale e l’altro, tra un coinvolgimento di tutte le aree della Penisola e l’altro, in testa alla corsa. Forse, la soluzione del quarto problema frenante è proprio qui: in un’altra – l’ennesima – riconquista del Mezzogiorno.

 

 

 

Ezio Marani

Alle Regioni è stato attribuito oltre il 70 per cento dei miliardi di euro assegnati dal Quadro comunitario di sostegno alle aree del Sud.

 

Meglio di prima
ma sempre in ritardo

Accelera la spesa dei fondi di Agenda 2000 per il Sud, ma resta ancora alto il ritardo rispetto agli impegni assunti con Bruxelles. L’ultima rilevazione del ministero dell’Economia attesta che al 31 dicembre 2001 risultava utilizzato il 70 per cento dell’obiettivo di spesa programmato. Un risultato positivo, se confrontato con l’1 per cento raggiunto nel corso del 2000, ma che comunque non consente facili ottimismi. In valori assoluti, i fondi concretamente erogati per i programmi delle Regioni e delle amministrazioni centrali superano i 2,1 miliardi di euro, vale a dire poco più del 4,2 per cento degli oltre 51 miliardi messi a disposizione dal Qcs (Quadro comunitario di sostegno) per il 2000-2006. Rispetto alla spesa programmata mancano all’appello circa 800 milioni. Le autorità italiane sottolineano che il dato reso noto, relativo all’ultimo trimestre del 2001, è molto probabilmente inferiore a quello che emergerà a consuntivo. Infatti, per le rilevazioni precedenti (secondo e terzo trimestre 2001), come chiarisce il Dipartimento per lo Sviluppo, «il progressivo assestamento dei dati ha determinato un netto miglioramento delle performances registrate nelle prime rilevazioni».
E’ evidente, però, che il miglioramento dei dati in corso d’opera non potrà comunque coprire la differenza del 30 per cento tra quello che è stato effettivamente speso e quanto Regioni e governo centrale si erano impegnati con l’Unione europea a utilizzare (la spesa programmata) entro la fine dello scorso anno. Un ritardo preoccupante, soprattutto se proiettato sul futuro.
Già a partire da quest’anno, ma in modo particolare dal 2003 al 2005, la programmazione finanziaria del Quadro comunitario di sostegno concordata con Bruxelles impone che dovrà essere utilizzato più del 50 per cento dei 51 miliardi di euro messi a disposizione del Mezzogiorno. In caso contrario, il nuovo regolamento comunitario (introdotto proprio per evitare i recuperi dell’ultimo momento) prevede il disimpegno automatico delle risorse non spese – rispetto a quelle programmate – nel biennio precedente. In altre parole, il taglio dei fondi non avverrà nel 2008 (data ultima per i pagamenti), ma incomincerà già alla fine di quest’anno.

Ecco perché non può essere sottovalutato il ritardo accumulato in questi primi anni, in cui era già prevista una spesa modesta per consentire una chiusura “morbida” del vecchio programma 1994-‘99 e dare tempo ai programmi infrastrutturali di arrivare alla fase di realizzazione effettiva. Le autorità italiane hanno espresso soddisfazione per l’accelerazione della spesa verificatasi in questi mesi; ma esse stesse hanno ripetutamente ribadito che, per ottimizzare l’uso delle risorse e per evitare i tagli di Bruxelles, è indispensabile una rivisitazione dei programmi delle Regioni che sono stati redatti «sulla spinta di scadenze contingenti». Tant’è che nelle stesse comunicazioni pubbliche viene sottolineato che, «in considerazione, comunque, dei rischi di disimpegno che permangono per singoli fondi di singole Regioni», si stanno accuratamente esaminando «le criticità, al fine di adottare tutte le iniziative del caso».
E’ alle Regioni, infatti, che è stato attribuito oltre il 70 per cento dei 51 miliardi di euro assegnati dal Quadro comunitario di sostegno alle aree del Sud. E andando a guardare gli ultimi dati disponibili, si scopre che l’andamento dei singoli programmi è tutt’altro che omogeneo, in quanto le percentuali di spesa variano fra il 13,7 per cento della Sicilia e il 104 per cento della Sardegna. Dati indicativi, si sottolinea al Dipartimento per lo Sviluppo, in quanto occorrerà verificare anche lo stato di attuazione delle procedure.
Anche per le Amministrazioni centrali la media non è indicativa dei risultati raggiunti dai singoli programmi: al 204 per cento del Pon Pesca si contrappone lo zero per cento dei Trasporti (approvato con un anno di ritardo), programmi che anche in termini di attribuzione delle risorse pesano in modo assai diverso.

 

 

 

Miriam Donati

Il lavoro familiare non solo continua a differenziare le donne dagli uomini, ma anche le donne tra di loro, rispetto alla possibilità di rimanere sul mercato del lavoro remunerato.

 

Donne del Sud
tra famiglia e lavoro

Dal 1993 al 2001 in Italia ci sono state forti trasformazioni sul mercato del lavoro: sul lato della domanda, ma anche dell’offerta. Esse segnalano mutamenti non soltanto economici e produttivi, ma anche nell’organizzazione familiare e della vita quotidiana. E’ quanto emerge dal Rapporto annuale dell’Istat.
Al centro di queste trasformazioni stanno i mutati comportamenti delle donne. Mentre l’occupazione maschile, dopo il periodo di forte declino dei medi anni Novanta, ha recuperato per attestarsi su valori sostanzialmente simili a quelli iniziali, quella femminile è aumentata del 14 per cento. Questo aumento ha origine non solo nelle mutate caratteristiche della domanda, ma anche nell’aumento del tasso di attività delle donne, vale a dire della quota di donne che si presentano sul mercato del lavoro e si aspettano di rimanervi.
Ciò in parte spiega perché sia contestualmente aumentato anche il tasso di disoccupazione femminile, che rimane consistentemente più alto di quello maschile (13 per cento, contro il 7 per cento medi nazionali). Esso è anche nettamente superiore, a differenza che per quello maschile, alla media europea, che è attestata per le donne attorno al 9 per cento. Peraltro, le donne sono coinvolte più degli uomini in rapporti di lavoro di breve durata. E ricevono in media una remunerazione più bassa del 25-40 per cento.
L’accresciuta partecipazione delle donne al mercato del lavoro, pur in condizioni di persistente disuguaglianza, ha consolidato una tendenza iniziata già a partire dagli anni Settanta: le donne non lavorano più per il mercato prevalentemente da giovani e nubili, per abbandonarlo poi quando si sposano e hanno figli; come i loro coetanei maschi, oggi entrano più tardi (perché restano di più a scuola) nel mercato del lavoro e ci rimangono anche durante le fasi di formazione della famiglia: benché non manchino uscite per cause familiari, che segnalano la persistente difficoltà delle donne italiane a conciliare lavoro e famiglia.
Le differenze territoriali si intrecciano, e insieme scompigliano quelle tra uomini e donne. Basti pensare che nel Centro-Nord il tasso di disoccupazione femminile, pari al 7,2 per cento, è meno della metà di quello maschile nelle regioni meridionali. Ma anche nel Mezzogiorno il comportamento femminile è in forte cambiamento, trascinato, come e più che nel resto del Paese, dall’aumento della scolarità femminile.
La bassa scolarità, insieme alla condizione familiare, sta emergendo come il fattore di maggiore differenziazione tra comportamenti e opportunità femminili. Nonostante l’aumento della partecipazione femminile nelle età centrali e in tutte le condizioni familiari, queste ultime infatti continuano a costituire un forte elemento di differenziazione a parità di età. Tra le donne single dai 30 ai 39 anni il tasso di attività è vicino al 90 per cento, non molto distante da quello maschile; scende di dieci punti tra quelle in coppia senza figli e non supera il 56 per cento tra quelle con figli. Tra queste ultime è anche diffuso il part-time. Di più, le donne con figli hanno anche un tasso di disoccupazione più alto sia delle single sia delle coniugate senza figli.
Il lavoro familiare, in altri termini, non solo continua a differenziare le donne dagli uomini, le mogli dai mariti, ma anche le donne tra di loro, rispetto alla possibilità di rimanere sul mercato del lavoro remunerato. Queste differenze appaiono più nette nei confronti territoriali, ma anche tra donne con titoli di studio diversi. Non sorprendentemente, le donne con titolo di studio più elevato riescono a conciliare meglio responsabilità familiari e partecipazione al mercato del lavoro.
Dalla prospettiva delle famiglie, questi mutamenti nei comportamenti delle donne implicano un aumento delle famiglie in cui vi è più di un lavoratore e soprattutto in cui lavora la moglie-madre; anche se la loro percentuale è ancora lontana dalla media europea. Ciò ha conseguenze non soltanto sulla disponibilità di reddito, ma anche sulla disponibilità di lavoro familiare e di cura, nonché sulla domanda di servizi e di organizzazione dei tempi di lavoro e di vita. Tra il 1993 e il 2001 le famiglie con più di un occupato sono aumentate di oltre 671 mila unità, arrivando alla cifra di 5 milioni e 400 mila famiglie. Viceversa, sono rimaste stabili le famiglie senza alcun occupato tra le persone in età di lavoro.
Data la diversa distribuzione territoriale del fenomeno, mentre nel Centro-Nord sono molto aumentate le famiglie con due occupati, senza tuttavia provocare una polarizzazione tra famiglie con più di un occupato e famiglie senza occupati, nel Mezzogiorno è avvenuto precisamente questo: sono aumentati entrambi i tipi di famiglie e quindi anche il livello di disuguaglianza. Di più: nelle regioni del Sud d’Italia è anche alta la quota di famiglie (8 per cento, il doppio rispetto al Nord) in cui tutti gli occupati hanno un contratto di lavoro atipico, laddove nelle altre regioni il lavoro atipico all’interno della famiglia si combina molto più spesso con la presenza di lavoratori che viceversa hanno contratti standard.
Il forte grado di omogamia matrimoniale, unito ai mutamenti nella domanda di lavoro, infatti, oggi più di un tempo produce una polarizzazione tra le famiglie sulla base delle risorse dei loro diversi componenti, in particolare della coppia: con conseguenze sugli stili di vita, il livello e il tipo di consumi, ma anche sul destino dei figli.
A livello nazionale, le famiglie con componenti in età di lavoro in cui nessuno è occupato costituiscono il 4,6 per cento, ma il 9,6 per cento nel Mezzogiorno, a fronte dell’1,6-1,9 per cento del Nord e del 3,3 per cento del Centro. Si tratta di dati ancora relativamente contenuti, a motivo della prolungata permanenza dei giovani in famiglia e alla minore incidenza, nel nostro Paese, del fenomeno dell’instabilità coniugale, che è comunque in crescita.

   
   
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