Dobbiamo puntare
a un tasso
di crescita superiore non soltanto a quello attuale, ma anche
a quello potenziale del nostro sistema.
|
|
Non sono tempi da pensiero debole. Necessitano obiettivi
forti, capaci di mobilitare, con coerenza e rigore, tutte le risorse
disponibili. Non sappiamo se abbia ragione uno storico socialista
come Max Gallo, già ministro di Mitterrand, nel ritenere
che lItalia sia il vero laboratorio politico dEuropa:
«Perché alcuni aspetti impliciti nella vittoria dei
conservatori esistono in modo più o meno chiaro
anche nel resto del Vecchio Continente».
O se, con una punta di ironia, non abbia torto leconomista
Jean Paul Fitoussi, consigliere di Jospin, nel ricordare che un
modello di politica economica non dura più di un decennio:
«Potrebbe essere la volta dellItalia. Perché
no?».
Comunque sia, vale la pena di registrarlo, proprio perché
dobbiamo darci un obiettivo sintetico al quale tendere con tutto
limpegno e con assoluta convergenza di sforzi. E questo non
può che essere un traguardo di sviluppo economico più
rapido.
In effetti, dobbiamo puntare a un tasso di crescita superiore non
soltanto a quello attuale, ma anche a quello potenziale
del nostro sistema, compresso da rischi inflazionistici legati alle
rigidità e alle sacche di inefficienza.
In realtà, è precisamente la crescita potenziale frenata
e addirittura vincolata in Italia, (come daltronde in Europa,
secondo la Banca centrale europea, a quel tasso del 2-2,5 per cento
che si ritiene compatibile con un target dinflazione inferiore
al 2 per cento). Vincolata da molteplici cause, ma soprattutto dal
ritardo nel varo di riforme strutturali in molti campi, a cominciare
dal welfare.
Di recente, Tommaso Padoa Schioppa lo ha confermato, esortando a
non abbassare la guardia e a continuare il processo del definitivo
riordino dei conti pubblici previsto da Maastricht: quali che siano
le condizioni della congiuntura.
Purtroppo, il tasso di crescita potenziale di Eurolandia è
inferiore a quello degli Stati Uniti, e ancor più lo è
quello dellItalia. Ma lo sono, appunto, sia luno che
laltro, per ragioni essenzialmente strutturali (oltre che
cicliche). Sembra evidente, allora, che la relazione fra la crescita
economica dellItalia e quella dellEuropa non può
essere vista in contrapposizione e tanto meno in unottica
di diffidenza univoca, almeno per quanto attiene ai vincoli posti
alla finanza pubblica dal patto di stabilità.
Mario Monti è stato esplicito circa la fiducia di Bruxelles
nelle scelte del governo italiano a questo proposito. E si sa quante
preoccupazioni (non sempre sincere) per eventuali trasgressioni
avesse destato il programma fiscale del nostro governo, imperniato
su una graduale, ma incisiva riduzione delle imposte coniugata con
la realizzazione di grandi opere e di indilazionabili infrastrutture,
(in generale, una rivoluzione dal lato dellofferta).
Il rallentamento della crescita delleconomia italiana rispetto
alla media Ocse fra il 1992 e il Duemila ha cancellato il vantaggio
relativo accumulato negli ultimi ventotto anni, anche se larretramento
corrisponde soltanto al 24 per cento del vantaggio massimo toccato
nel 1980 (si veda il Rapporto sulleconomia globale e lItalia,
di Mario Deaglio, per il Centro Einaudi e Lazard).
La nostra perdita di competitività è preoccupante.
Dunque, il punto fondamentale resta la spinta al cambiamento nei
futuri programmi. Il sentiero è però in salita, anzi
in cresta, direbbero gli alpinisti: come il Pic Tyndall sul Cervino.
La decisione dei governi europei di consentire maggior flessibilità
ai bilanci pubblici potrà aiutarci.
Ma dobbiamo realizzare una crescita del Prodotto interno lordo superiore
al tasso dinflazione, rovesciando così lesperienza
passata. Lobiettivo è un forte aumento della produttività,
una superproduttività.
|