Dicembre 2002

POLITICA ECONOMICA

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Produttività per la crescita
Mario Talamona  
 
 

 

 

 

 

Dobbiamo puntare
a un tasso
di crescita superiore non soltanto a quello attuale, ma anche
a quello “potenziale” del nostro sistema.

 

Non sono tempi da “pensiero debole”. Necessitano obiettivi forti, capaci di mobilitare, con coerenza e rigore, tutte le risorse disponibili. Non sappiamo se abbia ragione uno storico socialista come Max Gallo, già ministro di Mitterrand, nel ritenere che l’Italia sia il vero laboratorio politico d’Europa: «Perché alcuni aspetti impliciti nella vittoria dei conservatori esistono – in modo più o meno chiaro – anche nel resto del Vecchio Continente».
O se, con una punta di ironia, non abbia torto l’economista Jean Paul Fitoussi, consigliere di Jospin, nel ricordare che un modello di politica economica non dura più di un decennio: «Potrebbe essere la volta dell’Italia. Perché no?».
Comunque sia, vale la pena di registrarlo, proprio perché dobbiamo darci un obiettivo sintetico al quale tendere con tutto l’impegno e con assoluta convergenza di sforzi. E questo non può che essere un traguardo di sviluppo economico più rapido.
In effetti, dobbiamo puntare a un tasso di crescita superiore non soltanto a quello attuale, ma anche a quello “potenziale” del nostro sistema, compresso da rischi inflazionistici legati alle rigidità e alle sacche di inefficienza.
In realtà, è precisamente la crescita potenziale frenata e addirittura vincolata in Italia, (come d’altronde in Europa, secondo la Banca centrale europea, a quel tasso del 2-2,5 per cento che si ritiene compatibile con un target d’inflazione inferiore al 2 per cento). Vincolata da molteplici cause, ma soprattutto dal ritardo nel varo di riforme strutturali in molti campi, a cominciare dal welfare.
Di recente, Tommaso Padoa Schioppa lo ha confermato, esortando a non abbassare la guardia e a continuare il processo del definitivo riordino dei conti pubblici previsto da Maastricht: quali che siano le condizioni della congiuntura.
Purtroppo, il tasso di crescita potenziale di Eurolandia è inferiore a quello degli Stati Uniti, e ancor più lo è quello dell’Italia. Ma lo sono, appunto, sia l’uno che l’altro, per ragioni essenzialmente strutturali (oltre che cicliche). Sembra evidente, allora, che la relazione fra la crescita economica dell’Italia e quella dell’Europa non può essere vista in contrapposizione e tanto meno in un’ottica di diffidenza univoca, almeno per quanto attiene ai vincoli posti alla finanza pubblica dal patto di stabilità.
Mario Monti è stato esplicito circa la fiducia di Bruxelles nelle scelte del governo italiano a questo proposito. E si sa quante preoccupazioni (non sempre sincere) per eventuali trasgressioni avesse destato il programma fiscale del nostro governo, imperniato su una graduale, ma incisiva riduzione delle imposte coniugata con la realizzazione di grandi opere e di indilazionabili infrastrutture, (in generale, una “rivoluzione” dal lato dell’offerta).
Il rallentamento della crescita dell’economia italiana rispetto alla media Ocse fra il 1992 e il Duemila ha cancellato il vantaggio relativo accumulato negli ultimi ventotto anni, anche se l’arretramento corrisponde soltanto al 24 per cento del vantaggio massimo toccato nel 1980 (si veda il Rapporto sull’economia globale e l’Italia, di Mario Deaglio, per il Centro Einaudi e Lazard).
La nostra perdita di competitività è preoccupante. Dunque, il punto fondamentale resta la spinta al cambiamento nei futuri programmi. Il sentiero è però in salita, anzi in cresta, direbbero gli alpinisti: come il Pic Tyndall sul Cervino. La decisione dei governi europei di consentire maggior flessibilità ai bilanci pubblici potrà aiutarci.
Ma dobbiamo realizzare una crescita del Prodotto interno lordo superiore al tasso d’inflazione, rovesciando così l’esperienza passata. L’obiettivo è un forte aumento della produttività, una superproduttività.

   
   
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