Dicembre 2002

KEYNES ALL’ORIZZONTE?

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Il sistema dell’incertezza
Mario Sarcinelli  
 
 

 

 

 

 

Cosa fare,
in un mondo che la globalizzazione ha reso più piccolo e più omogeneo nel bene come nel male:
bisogna guardare
ai punti di forza
e ai segnali positivi.

 

Non v’è tavola rotonda, incontro sociale o soltanto chiacchierata tra amici a cui non si richieda all’economista presente (e oggi ve ne sono tanti...) di dire la sua opinione sull’andamento dell’economia, sul rischio di un rafforzamento del dollaro o, addirittura, sui tempi necessari per la ripresa delle quotazioni azionarie. Il malcapitato, dopo qualche tentativo di schermirsi, cerca d’incardinare la risposta sul passato invece che sul futuro, sull’analisi piuttosto che sulla previsione. Perché tanta cautela? Per timore di sbagliare o di indurre in errore altri, ad esempio un imprenditore o un policymaker? Difficile crederlo, perché la previsione è stata sempre arte rischiosa e chi la pratica ne è consapevole.
Tuttavia, nell’attuale situazione mondiale, essa è diventata di gran lunga più aleatoria che in passato a causa di un grado d’incertezza anormalmente elevato. Seguendo il Fondo monetario, è possibile elencarne i principali fattori.

1) Gli Stati Uniti sono certamente l’unica superpotenza sotto il profilo politico e militare, ma si sono rivelati, dopo l’eclissi del Giappone e l’ancor forte dipendenza dell’Europa dalle esportazioni, l’unico vero motore della crescita; il disavanzo Usa nelle partite correnti di cui hanno beneficiato tanto l’Asia quanto l’Europa ne è la prova. La quasi recessione americana del 2001 e l’ansia con la quale si guarda ai suoi dati congiunturali sono frutto dei timori di una ricaduta, di un double dip.
Né manca chi, per scaramanzia più che per convinzione, fa un parallelo tra le vicende giapponesi (scoppio della bolla sui mercati azionario e immobiliare e successivo decennio di recessioni altalenanti, con crescita media dell’1 per cento, deflazione dei prezzi, esaurimento delle opzioni della politica monetaria e fiscale, rispettivamente per l’azzeramento del tasso d’interesse e per l’esplosione del debito pubblico) e quelle americane, similari ma non troppo (distruzione di ricchezza a Wall Street per ottomila miliardi di dollari, boom immobiliare con caratteristiche sempre più speculative, afflosciarsi del tasso di crescita, bassa inflazione, scarsi margini di manovra per la politica monetaria, ritorno in disavanzo del bilancio federale).

2) Un secondo fattore di pervasiva incertezza a livello mondiale è il prezzo del petrolio. Non solo esso è attualmente elevato, intorno ai 30 dollari al barile, ma rischia di schizzare verso l’alto se il riacutizzarsi della crisi in diversi scacchieri del Vicino Oriente e tra questi e quasi tutto il mondo occidentale, sia pure con diversità di accenti e sfumature, sfocerà in una guerra. La determinazione del presidente Bush nel combattere i regimi che hanno offerto o sono sospettati di dare rifugio o di essere conniventi col terrorismo internazionale lascia poche speranze per una soluzione incruenta. Perciò, i mercati cominciano a porsi domande circa la durata della guerra, i possibili danni alla capacità di estrazione e trasporto del petrolio non solo in Iraq, ma in tutto il Vicino Oriente, gli effetti sulla congiuntura mondiale.
Ogni qualvolta si è avuto un aumento forte e improvviso del prezzo dell’energia, esso ha funzionato come uno shock esogeno che ha spinto in recessione l’economia mondiale. Ciò è accaduto anche all’indomani dell’operazione “Desert Storm”, la cui vittoriosa conclusione non fu sufficiente al presidente Bush senior per essere riconfermato nel mandato. Per minimizzare i rischi recessivi è necessario sperare che la guerra sia breve e che l’infrastruttura petrolifera ne resti sostanzialmente indenne.

3) Altri elementi che contribuiscono all’incertezza sistemica hanno natura finanziaria. Le quotazioni sul mercato azionario americano si sono ridimensionate fortemente e, per l’accresciuta correlazione, l’andamento si è manifestato anche nelle altre Borse; tuttavia, in America si sono manifestate forti smagliature nel governo societario e nei rapporti tra manager, agenzie di revisione, analisti di mercato e banche d’affari, con danno non solo per gli azionisti, ma anche per l’immagine e la fairness del mercato finanziario. La regolamentazione è stata resa più dura e la giustizia anche penale sta procedendo contro coloro che per smodata avidità si sono resi colpevoli di illeciti; per restaurare la fiducia incrinata ci vorranno impegno nel perseguire gli abusi e tempo per dimenticare le perdite subite.
Per il momento, in assenza di segnali decisi dal settore reale, resta la volatilità, figlia appunto dell’incertezza. Inoltre, la difficile situazione dell’America Latina, con l’eccezione del Cile e del Messico, sta portando a un aumento dei premi per il rischio, a una riduzione dei flussi di capitale. Infine, la dimensione del disavanzo sull’estero degli Stati Uniti prima o poi non potrà evitare al dollaro un deprezzamento significativo, prospettiva che riempie di timori il cuore degli europei.

Cosa fare, quindi, in un mondo che la globalizzazione ha reso più piccolo e più “omogeneo” nel bene come nel male? Bisogna guardare ai punti di forza e ai segnali positivi per trarre da essi fiducia. Ad esempio, negli Stati Uniti, nonostante lo sgonfiamento della bolla e lo shock terroristico, nessuna istituzione finanziaria è diventata insolvente. Se si fa il raffronto con la Grande Crisi che vide la caduta di migliaia di banche, ci si rende conto che la gestione dei rischi, la loro ripartizione sul mercato e il monitoraggio da parte dei supervisori hanno reso il sistema molto più resistente. In Giappone, segnali positivi per la politica di ristrutturazione derivano dalla decisione della Banca centrale di acquistare i titoli azionari posseduti dalle banche, e, soprattutto, dal rimpasto di gabinetto che ha portato a unificare nelle mani del ministro delle Finanze, favorevole ad usare denaro pubblico per ricapitalizzare le banche, le competenze in questa materia.
Per l’Europa, infine, non si può non prendere atto con soddisfazione del realismo del Commissario Solbes e del presidente della Commissione Prodi nel proporre per la discussione all’Eurogruppo e all’Ecofin la reinterpretazione del Patto di stabilità e crescita in termini strutturali, invece che nominali; è sperabile che l’annunciata opposizione dei Paesi “virtuosi” non renda più difficile il cammino sul sentiero della ragionevolezza.
Tuttavia, non solo per l’Europa, ma soprattutto per il nostro Paese, le riforme strutturali (liberalizzazioni, privatizzazioni, riequilibrio e completamento dei regimi pensionistici, ecc.) non possono attendere sine die, se si vuole ampliare il prodotto potenziale e ridurre il surriscaldamento dei prezzi quando il reddito tornerà a crescere a tassi soddisfacenti. A questo riguardo, il richiamo del Governatore Fazio alle responsabilità istituzionali del Parlamento è logico, ma uno spirito di concordia e di dialogo in Italia come in Europa è condizione necessaria per configurare e condividere il bene comune. Anche l’eccessivo spirito di parte contribuisce all’incertezza.

   
   
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