E questa
la vera rigidità che occorre superare,
e velocemente,
se si vuole avviare
a soluzione
il problema
disoccupazione.
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Pur non costituendo un fenomeno nuovo nella storia del mondo occidentale,
il problema delloccupazione oggi ha assunto forme e caratteri
non ascrivibili a quelli precedenti. La dimensione quantitativa
del problema, così come la sua persistenza nel tempo, fanno
piuttosto pensare a cause di natura strutturale, legate alle caratteristiche
dellattuale passaggio depoca, quello dalla società
fordista alla società post-fordista.
Mezzo secolo fa, Keynes giudicava la disoccupazione di massa in
una società ricca una vergognosa assurdità, che tuttavia
era possibile eliminare. Oggi, le nostre economie sono tre volte
più ricche rispetto ad allora. Keynes avrebbe dunque ragione
di considerare la disoccupazione attuale tre volte più assurda
e pericolosa, perché in una società tre volte più
ricca lineguaglianza e lesclusione sociale che quella
disoccupazione provoca sono, almeno tre volte, più disgreganti.
Non si dimentichi, inoltre, che negli anni Trenta si scontavano
gli effetti della più grave crisi mai sperimentata dal capitalismo
industriale, una crisi che dimezzò il settore industriale
in Germania e negli Stati Uniti. Oggi, invece, la disoccupazione
sembra sia diventata lo strumento per la prosperità economica:
chi licenzia non è tanto limpresa in crisi, ma quella
in salute che vuole dilatare il proprio margine di competitività.
E proprio questo che fa problema: la disoccupazione non più
come sintomo o effetto di una situazione di crisi, ma come strategia
per competere con successo al tempo della globalizzazione. Ebbene,
la dottrina sociale della Chiesa, «che cammina con lumanità»,
avverte che un ordine sociale che supinamente incorporasse tra i
suoi meccanismi di funzionamento un tale uso strategico della disoccupazione
non sarebbe moralmente accettabile, né si può
sostenere economicamente sostenibile. Cè allora
da chiedersi se invece di affrontare la questione a strappi, allineando
suggerimenti e misure disparate, tutti in sé validi ma molto
al di sotto delle necessità, non sia indispensabile riflettere
sulle caratteristiche di fondo dellattuale modello di crescita,
per ricavarne linee di intervento meno rassegnate e incerte.
Premesso tutto questo, vediamo di tratteggiare nei suoi elementi
basilari il fenomeno disoccupazione, quale si configura ai giorni
nostri. Osserviamo in via preliminare che la disoccupazione è
fenomeno tipico di uneconomia di mercato di tipo capitalistico.
Essa, come insegna la storia, non può esistere in società
preindustriali né in società di tipo collettivistico.
La nozione stessa di disoccupazione, infatti, ha senso solo in una
società nella quale il lavoro, visualizzato come fattore
primario della produzione, riceve una remunerazione la cui determinazione
è lasciata più o meno alle regole di
funzionamento di un apposito mercato, il mercato del lavoro. In
una siffatta società, la disoccupazione è la spia
di una situazione nella quale lofferta di lavoro supera la
domanda di lavoro in corrispondenza di un livello del prezzo del
lavoro il saggio di salario che viene considerato
adeguato alle capacità e alle necessità del lavoratore.
Quando il mercato del lavoro non è in equilibrio eccesso
di offerta, ad esempio si ha che vi sono soggetti desiderosi
di trovare un impiego alle condizioni correnti di salario, ma non
vi sono i datori di lavoro in numero sufficiente disposti ad assumerli
a quelle condizioni.
Una seconda precisazione. La disoccupazione indica una carenza
di posti di lavoro. Ma vi sono parecchie altre offerte e domande
di lavoro che non transitano per il mercato del lavoro. Si pensi
al lavoro domestico; al lavoro che entra nella produzione di servizi
sociali; al lavoro erogato allinterno delle organizzazioni
non profit: si tratta di attività lavorative che la società
avvalora, addirittura intervenendo a livello legislativo con norme
che ne decretano i modi di svolgimento, senza però che essi
siano sottoposti alle regole, impersonali e anonime, del mercato
del lavoro.
Quel che si vuol dire è che occorre tenere distinta la nozione
di impiego o posto di lavoro, da quella, assai più ampia,
di attività lavorativa. Quando si parla di disoccupazione,
il riferimento è sempre e solo alla categoria dellimpiego.
Accade così che la società post-industriale, al pari
e forse più di quella industriale, può registrare
un problema di insufficienza di posti di lavoro cioè
di disoccupazione pur essendo vero che essa denuncia un problema
di eccesso di domanda di attività lavorative che non trova
risposta. Quanto a dire che un Paese può registrare, a un
tempo, una situazione di elevata disoccupazione e di unancora
più elevata domanda non soddisfatta di attività lavorative.
Ora, in ciascuna fase dello sviluppo storico è la società
stessa, con le sue istituzioni, a fissare i confini tra la sfera
degli impieghi e quella delle attività lavorative, vale a
dire tra il lavoro remunerato secondo le regole del mercato del
lavoro (il lavoro salariato, appunto) e il lavoro remunerato secondo
altre regole o altre modalità. Di sfuggita, si può
osservare che prima dellavvento della (prima) Rivoluzione
industriale, lavoro come attività lavorativa e posto di lavoro
si coinvolgevano: avere un posto di lavoro significava lavorare,
e viceversa. E solo con laffermazione del sistema di
fabbrica che nasce linvenzione sociale del posto di lavoro,
e con essa la figura dellesperto di organizzazione del lavoro,
il cui compito specifico è quello di trovare per ciascun
soggetto, allinterno del processo lavorativo, il posto migliore,
al fine di ottimizzare luso delle risorse produttive. La lingua
inglese conosce due parole: job, per significare posto di lavoro;
e work, per indicare il lavoro come attività lavorativa.
Il job è qualcosa che si ha; il work è qualcosa che
si fa. (Il vocabolario britannico si è recentemente arricchito
del neologismo de-jobbing, per denotare la fine del posto di lavoro).
Ebbene, a nessuno può sfuggire che il confine tra la sfera
dellimpiego e quella delle attività lavorative è
nella nostra società post-fordista sostanzialmente lo stesso
di quello in essere durante la lunga fase di sviluppo della società
fordista. E questa la vera rigidità che occorre superare,
e velocemente, se si vuole avviare a soluzione il problema della
disoccupazione. Pensare, infatti, di dare oggi un lavoro a tutti
sotto forma di impiego, cioè di posto di lavoro salariato,
sarebbe pura utopia, o, peggio, pericolosa menzogna. Infatti, mentre
nella società industriale lespansione dei consumi e
la lentezza del progresso tecnico permettevano al mercato del lavoro
sia di assorbire la nuova manodopera sia di riassorbire la vecchia
manodopera resa esuberante, nella società post-industriale
questi margini di intervento sono praticamente negati. Ecco perché
è necessario intervenire sul confine di cui abbiamo parlato
poco fa.
Si pone la domanda: per quale ragione sembra così difficile
avere ragione di quella rigidità? Perché, in altri
termini, così forti sono le resistenze a prendere atto della
circostanza che la nostra attuale disoccupazione è essenzialmente
legata al mutamento profondo che è intervenuto nella natura
del lavoro? La risposta più convincente è che ancora
diffusa (e creduta) tra gli esperti è lidea che si
possa intervenire con successo sulla disoccupazione operando sui
rimedi tradizionali, quelli che sono stati applicati in tempi più
o meno recenti per far fronte alle tre grandi categorie di disoccupazione:
quella associata allalto costo del lavoro; quella da carenza
di domanda effettiva; quella tecnologica.
Non cè dubbio che nella situazione odierna tutti e
tre i tipi di disoccupazione sono presenti, e dunque che una riforma
dei metodi di finanziamento dellassistenza sociale e/o una
riforma dei sistemi di tassazione che riducesse il carico fiscale
del lavoro dipendente contribuirebbe a ridurre la prima tipologia
di disoccupati. E del pari vero che una politica di rilancio
degli investimenti pubblici varrebbe a ridurre la disoccupazione
keynesiana. Così come intervenendo con le cosiddette politiche
attive del lavoro si andrebbe a intaccare la disoccupazione tecnologica.
Ma allora, se tutto questo è risaputo, perché i governi
non agiscono di conseguenza? Come si spiega che i vari governi europei
abbiano lasciato che il problema occupazionale si complicasse fino
ad assumere la portata attuale?
La risposta è racchiusa nelle pieghe di una duplice considerazione.
Da un lato, i governi nazionali si vedono oggi costretti a cedere
quote di sovranità in nome della globalizzazione, la quale
impone alle politiche economiche nazionali vincoli ignoti ancora
dieci-quindici anni fa. Dallaltro, i vari e molteplici rimedi,
corrispondenti alle tre tipologie di disoccupazione, se messi in
atto simultaneamente, tendono a produrre effetti perversi. Infatti,
cè da osservare che è bensì vero che
politiche di riduzione del costo del lavoro (e, in particolare,
del salario) unitamente a politiche di sostegno e di rilancio della
domanda aggregata potrebbero accrescere in alcuni settori
la produzione più rapidamente dellaumento della
produttività e contribuire così alla riduzione della
disoccupazione.
Ma a quale prezzo un tale risultato positivo verrebbe raggiunto?
Come lesperienza americana indica a tutto tondo, al prezzo
di accettare la comparsa di una nuova classe sociale, quella dei
working poors, dei poveri che lavorano. Una recente
indagine ci informa che nel 93 circa 40 milioni di soggetti,
pari a quasi il 15 per cento della popolazione statunitense, si
erano collocati al di sotto della soglia della povertà e
che la componente più numerosa era costituita proprio da
persone che lavoravano, ma la cui mansione non consentiva loro di
comandare un livello retributivo che le collocasse un gradiente
più su.
Nella fase dello sviluppo capitalistico pre-globalizzazione, situazioni
del genere potevano e in effetti vennero evitate andando
a ingrossare il settore residuale delleconomia, cioè
quello non esposto alla concorrenza internazionale. Infatti, quando
le economie erano ancora nazionali, accanto al settore aperto al
confronto internazionale che occupava il numero minimo di lavoratori
compatibile con le regole della concorrenza, veniva mantenuto un
settore protetto da barriere doganali o istituzionali, la cui funzione
era esattamente quella di assorbire i lavoratori in esubero.
Si pensi al settore pubblico, o anche al settore privato dei servizi:
imprese inefficienti e iniziative non redditizie venivano tenute
in vita allo scopo di fungere da cuscinetto o spugna. La globalizzazione
ha praticamente eliminato questa dualità di settori: la costituzione
in Europa del mercato unico interno, a partire dal 93, ha
aperto alla concorrenza internazionale numerosi servizi tradizionalmente
nazionali. Per tacere poi del fatto che lapplicazione pervasiva
delle nuove tecnologie, interessando il settore dei servizi al pari
di quello manifatturiero e determinando aumenti ragguardevoli di
produttività, non consente più di pensare al terziario
come ad un settore-spugna: la de-localizzazione è un fenomeno
che sempre più riguarda anche le attività terziarie.
Da ciò si deduce che è la competitività lorizzonte
sotto il quale impostare qualsiasi discorso volto a creare, oggi,
posti di lavoro. Solo imprese competitive possono nascere e crescere,
e così facendo possono creare impiego: i posti di lavoro
crescono con laumento dei margini di competitività
delle imprese. E questa la nuova regola aurea delloccupazione.
Si tratta di una novità di non poco conto rispetto al più
recente passato, quando la (quasi) piena occupazione poteva essere
assicurata dal mantenimento in vita dei rami secchi
delleconomia. Ma si tratta anche occorre dirlo
di una regola piuttosto difficile da seguire nella pratica.
In primo luogo, perché le nuove tecnologie aumentano la
produttività media del sistema più di quanto si riesca
ad aumentare la produzione di beni e servizi. E stato stimato
che, nei Paesi dellarea Ocse, la produttività media
cresca del 3 per cento circa allanno. Ora, non vè
chi non veda come sia praticamente impossibile aumentare, anno dopo
anno, la domanda media dei beni del 3 per cento. Si pensi a quanto
è accaduto nel settore agricolo, prima, e nellindustria
di base (siderurgia, cemento, chimica) in seguito: allaumento
della produttività si è accompagnato un aumento percentualmente
minore della produzione e perciò una drastica riduzione delloccupazione.
Infatti, se una società che registra aumenti costanti ed
elevati della produttività media vuole mantenere immutato
il suo livello di impiego (e non diciamo occupazione), essa deve
aumentare i propri consumi allo stesso ritmo con cui si accresce
la produttività. E poiché il consumo di beni e soprattutto
di servizi richiede tempo, occorre consumare sempre più freneticamente
per conservare inalterato il livello di impiego.
Ma già Linder, in un celebre saggio del 70, aveva mostrato
come laumento dellintensità di consumo conduca
ad un esito paradossale: il tentativo di consumare quantità
sempre maggiore di beni entro uno stesso tempo di consumo diminuisce,
anziché aumentare, lutilità degli individui,
quellutilità che gli agenti razionali dovrebbero invece
cercare di massimizzare.
In effetti, puntare alla crescita dellintensità di
consumo, se può servire nelle prime fasi dello sviluppo industriale,
fasi in cui si realizza il modello della produzione di massa, tende
a produrre una diminuzione di utilità, cioè di benessere,
quando questo processo è, in larga misura, realizzato.
Una seconda ragione importante per la quale è praticamente
impossibile rispettare la nuova regola aurea delloccupazione
è che essa finirebbe con lo scatenare, nelle nostre società,
una forma nuova di competizione, quella che Hirsch ha chiamato competizione
posizionale. Un modo efficace per comprendere di che si tratta ci
viene dalla storiella che il fondatore della Sony, Akio Morito,
racconta nella sua autobiografia. Un americano e un giapponese,
mentre attraversano la foresta, sentono improvvisamente il ruggito
minaccioso di un leone in arrivo. Il giapponese si ferma, trae dallo
zainetto le scarpe da tennis e comincia a calzarle. Lamericano,
invece, si dà alla fuga e, nel fuggire, grida al suo compagno:
Sciocco! Credi che quelle scarpe ti basteranno a correre
più veloce del leone? . E il giapponese, di rimando:
A me non serve correre più veloce del leone. Mi basta
correre più veloce di te! . Laspetto davvero
inquietante della competizione posizionale sta in ciò: che
essa esemplifica un caso concreto di competizione distruttiva: essa
peggiora il benessere sia individuale sia sociale perché,
mentre genera lo spreco da opulenza, lacera il tessuto sociale.
Come già Tocqueville aveva lucidamente anticipato, la competizione
posizionale «nasce dalleguaglianza come presupposto
ed è finalizzata al suo superamento: leguaglianza di
principio mette in moto la ricerca della diseguaglianza di fatto».
A differenza di quanto avviene nelle gare sportive e nella familiare
competizione di mercato, in cui si registrano bensì vincitori
e perdenti, ma tutti possono riprendere il gioco ad uno stadio successivo
sia pure in condizioni diverse, nella competizione posizionale chi
è perdente lo è per sempre.
Per concludere. Non è la mancanza del know how a livello
dei possibili rimedi, né è la mancanza di strumenti
operativi di intervento a rendere così difficile la soluzione
del problema occupazionale, oggi. Il fatto che, rimanendo allinterno
dello schema concettuale che identifica la piena occupazione con
il pieno impiego, il raggiungimento di questo obiettivo entra in
rotta di collisione con il raggiungimento di obiettivi altrettanto
leciti e importanti, quali una crescita ecologicamente sostenibile;
un modello di consumo che non alieni, distorcendo le preferenze
individuali; una società non stratificata e tendenzialmente
includente.
In altri termini, il limite invalicabile di tutte le proposte, anche
ingegnose, volte ad alleviare la piaga della disoccupazione, è
quello di generare, nelle nostre società, pericolosi trade-offs:
per distribuire lavoro a tutti, si impone un modello di consumo
neo-consumista; oppure si legittimano forme nuove di povertà
(le cosiddette nuove povertà); oppure ancora si restringono
gli spazi di libertà dei cittadini. Tutto ciò è
inaccettabile sotto il profilo etico. Siamo tutti convinti che quando
si arriva a tali livelli di consapevolezza, occorre darsi il coraggio
di osare vie nuove.
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