Dicembre 2002

OCCUPAZIONE E COMPETITIVITÀ

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Il lavoro al tempo della globalizzazione
Renato Caretto  
 
 

 

 

 

 

E’ questa
la vera rigidità che occorre superare,
e velocemente,
se si vuole avviare
a soluzione
il problema
disoccupazione.

 

Pur non costituendo un fenomeno nuovo nella storia del mondo occidentale, il problema dell’occupazione oggi ha assunto forme e caratteri non ascrivibili a quelli precedenti. La dimensione quantitativa del problema, così come la sua persistenza nel tempo, fanno piuttosto pensare a cause di natura strutturale, legate alle caratteristiche dell’attuale passaggio d’epoca, quello dalla società fordista alla società post-fordista.
Mezzo secolo fa, Keynes giudicava la disoccupazione di massa in una società ricca una vergognosa assurdità, che tuttavia era possibile eliminare. Oggi, le nostre economie sono tre volte più ricche rispetto ad allora. Keynes avrebbe dunque ragione di considerare la disoccupazione attuale tre volte più assurda e pericolosa, perché in una società tre volte più ricca l’ineguaglianza e l’esclusione sociale che quella disoccupazione provoca sono, almeno tre volte, più disgreganti. Non si dimentichi, inoltre, che negli anni Trenta si scontavano gli effetti della più grave crisi mai sperimentata dal capitalismo industriale, una crisi che dimezzò il settore industriale in Germania e negli Stati Uniti. Oggi, invece, la disoccupazione sembra sia diventata lo strumento per la prosperità economica: chi licenzia non è tanto l’impresa in crisi, ma quella in salute che vuole dilatare il proprio margine di competitività. E’ proprio questo che fa problema: la disoccupazione non più come sintomo o effetto di una situazione di crisi, ma come strategia per competere con successo al tempo della globalizzazione. Ebbene, la dottrina sociale della Chiesa, «che cammina con l’umanità», avverte che un ordine sociale che supinamente incorporasse tra i suoi meccanismi di funzionamento un tale uso strategico della disoccupazione non sarebbe moralmente accettabile, né – si può sostenere – economicamente sostenibile. C’è allora da chiedersi se invece di affrontare la questione a strappi, allineando suggerimenti e misure disparate, tutti in sé validi ma molto al di sotto delle necessità, non sia indispensabile riflettere sulle caratteristiche di fondo dell’attuale modello di crescita, per ricavarne linee di intervento meno rassegnate e incerte.

Premesso tutto questo, vediamo di tratteggiare nei suoi elementi basilari il fenomeno disoccupazione, quale si configura ai giorni nostri. Osserviamo in via preliminare che la disoccupazione è fenomeno tipico di un’economia di mercato di tipo capitalistico. Essa, come insegna la storia, non può esistere in società preindustriali né in società di tipo collettivistico. La nozione stessa di disoccupazione, infatti, ha senso solo in una società nella quale il lavoro, visualizzato come fattore primario della produzione, riceve una remunerazione la cui determinazione è lasciata – più o meno – alle regole di funzionamento di un apposito mercato, il mercato del lavoro. In una siffatta società, la disoccupazione è la spia di una situazione nella quale l’offerta di lavoro supera la domanda di lavoro in corrispondenza di un livello del prezzo del lavoro – il saggio di salario – che viene considerato adeguato alle capacità e alle necessità del lavoratore. Quando il mercato del lavoro non è in equilibrio – eccesso di offerta, ad esempio – si ha che vi sono soggetti desiderosi di trovare un impiego alle condizioni correnti di salario, ma non vi sono i datori di lavoro in numero sufficiente disposti ad assumerli a quelle condizioni.

Una seconda precisazione. La disoccupazione indica una carenza di posti di lavoro. Ma vi sono parecchie altre offerte e domande di lavoro che non transitano per il mercato del lavoro. Si pensi al lavoro domestico; al lavoro che entra nella produzione di servizi sociali; al lavoro erogato all’interno delle organizzazioni non profit: si tratta di attività lavorative che la società avvalora, addirittura intervenendo a livello legislativo con norme che ne decretano i modi di svolgimento, senza però che essi siano sottoposti alle regole, impersonali e anonime, del mercato del lavoro.
Quel che si vuol dire è che occorre tenere distinta la nozione di impiego o posto di lavoro, da quella, assai più ampia, di attività lavorativa. Quando si parla di disoccupazione, il riferimento è sempre e solo alla categoria dell’impiego. Accade così che la società post-industriale, al pari e forse più di quella industriale, può registrare un problema di insufficienza di posti di lavoro – cioè di disoccupazione – pur essendo vero che essa denuncia un problema di eccesso di domanda di attività lavorative che non trova risposta. Quanto a dire che un Paese può registrare, a un tempo, una situazione di elevata disoccupazione e di un’ancora più elevata domanda non soddisfatta di attività lavorative.
Ora, in ciascuna fase dello sviluppo storico è la società stessa, con le sue istituzioni, a fissare i confini tra la sfera degli impieghi e quella delle attività lavorative, vale a dire tra il lavoro remunerato secondo le regole del mercato del lavoro (il lavoro salariato, appunto) e il lavoro remunerato secondo altre regole o altre modalità. Di sfuggita, si può osservare che prima dell’avvento della (prima) Rivoluzione industriale, lavoro come attività lavorativa e posto di lavoro si coinvolgevano: avere un posto di lavoro significava lavorare, e viceversa. E’ solo con l’affermazione del sistema di fabbrica che nasce l’invenzione sociale del posto di lavoro, e con essa la figura dell’esperto di organizzazione del lavoro, il cui compito specifico è quello di trovare per ciascun soggetto, all’interno del processo lavorativo, il posto “migliore”, al fine di ottimizzare l’uso delle risorse produttive. La lingua inglese conosce due parole: job, per significare posto di lavoro; e work, per indicare il lavoro come attività lavorativa. Il job è qualcosa che si ha; il work è qualcosa che si fa. (Il vocabolario britannico si è recentemente arricchito del neologismo de-jobbing, per denotare la fine del posto di lavoro).
Ebbene, a nessuno può sfuggire che il confine tra la sfera dell’impiego e quella delle attività lavorative è nella nostra società post-fordista sostanzialmente lo stesso di quello in essere durante la lunga fase di sviluppo della società fordista. E’ questa la vera rigidità che occorre superare, e velocemente, se si vuole avviare a soluzione il problema della disoccupazione. Pensare, infatti, di dare oggi un lavoro a tutti sotto forma di impiego, cioè di posto di lavoro salariato, sarebbe pura utopia, o, peggio, pericolosa menzogna. Infatti, mentre nella società industriale l’espansione dei consumi e la lentezza del progresso tecnico permettevano al mercato del lavoro sia di assorbire la nuova manodopera sia di riassorbire la vecchia manodopera resa esuberante, nella società post-industriale questi margini di intervento sono praticamente negati. Ecco perché è necessario intervenire sul confine di cui abbiamo parlato poco fa.

Si pone la domanda: per quale ragione sembra così difficile avere ragione di quella rigidità? Perché, in altri termini, così forti sono le resistenze a prendere atto della circostanza che la nostra attuale disoccupazione è essenzialmente legata al mutamento profondo che è intervenuto nella natura del lavoro? La risposta più convincente è che ancora diffusa (e creduta) tra gli esperti è l’idea che si possa intervenire con successo sulla disoccupazione operando sui rimedi tradizionali, quelli che sono stati applicati in tempi più o meno recenti per far fronte alle tre grandi categorie di disoccupazione: quella associata all’alto costo del lavoro; quella da carenza di domanda effettiva; quella tecnologica.
Non c’è dubbio che nella situazione odierna tutti e tre i tipi di disoccupazione sono presenti, e dunque che una riforma dei metodi di finanziamento dell’assistenza sociale e/o una riforma dei sistemi di tassazione che riducesse il carico fiscale del lavoro dipendente contribuirebbe a ridurre la prima tipologia di disoccupati. E’ del pari vero che una politica di rilancio degli investimenti pubblici varrebbe a ridurre la disoccupazione keynesiana. Così come intervenendo con le cosiddette politiche attive del lavoro si andrebbe a intaccare la disoccupazione tecnologica. Ma allora, se tutto questo è risaputo, perché i governi non agiscono di conseguenza? Come si spiega che i vari governi europei abbiano lasciato che il problema occupazionale si complicasse fino ad assumere la portata attuale?
La risposta è racchiusa nelle pieghe di una duplice considerazione. Da un lato, i governi nazionali si vedono oggi costretti a cedere quote di sovranità in nome della globalizzazione, la quale impone alle politiche economiche nazionali vincoli ignoti ancora dieci-quindici anni fa. Dall’altro, i vari e molteplici rimedi, corrispondenti alle tre tipologie di disoccupazione, se messi in atto simultaneamente, tendono a produrre effetti perversi. Infatti, c’è da osservare che è bensì vero che politiche di riduzione del costo del lavoro (e, in particolare, del salario) unitamente a politiche di sostegno e di rilancio della domanda aggregata potrebbero accrescere – in alcuni settori – la produzione più rapidamente dell’aumento della produttività e contribuire così alla riduzione della disoccupazione.
Ma a quale prezzo un tale risultato positivo verrebbe raggiunto? Come l’esperienza americana indica a tutto tondo, al prezzo di accettare la comparsa di una nuova classe sociale, quella dei working poors, dei “poveri che lavorano”. Una recente indagine ci informa che nel ‘93 circa 40 milioni di soggetti, pari a quasi il 15 per cento della popolazione statunitense, si erano collocati al di sotto della soglia della povertà e che la componente più numerosa era costituita proprio da persone che lavoravano, ma la cui mansione non consentiva loro di comandare un livello retributivo che le collocasse un gradiente più su.
Nella fase dello sviluppo capitalistico pre-globalizzazione, situazioni del genere potevano – e in effetti vennero – evitate andando a ingrossare il settore residuale dell’economia, cioè quello non esposto alla concorrenza internazionale. Infatti, quando le economie erano ancora nazionali, accanto al settore aperto al confronto internazionale che occupava il numero minimo di lavoratori compatibile con le regole della concorrenza, veniva mantenuto un settore protetto da barriere doganali o istituzionali, la cui funzione era esattamente quella di assorbire i lavoratori in esubero.
Si pensi al settore pubblico, o anche al settore privato dei servizi: imprese inefficienti e iniziative non redditizie venivano tenute in vita allo scopo di fungere da cuscinetto o spugna. La globalizzazione ha praticamente eliminato questa dualità di settori: la costituzione in Europa del mercato unico interno, a partire dal ‘93, ha aperto alla concorrenza internazionale numerosi servizi tradizionalmente nazionali. Per tacere poi del fatto che l’applicazione pervasiva delle nuove tecnologie, interessando il settore dei servizi al pari di quello manifatturiero e determinando aumenti ragguardevoli di produttività, non consente più di pensare al terziario come ad un settore-spugna: la de-localizzazione è un fenomeno che sempre più riguarda anche le attività terziarie. Da ciò si deduce che è la competitività l’orizzonte sotto il quale impostare qualsiasi discorso volto a creare, oggi, posti di lavoro. Solo imprese competitive possono nascere e crescere, e così facendo possono creare impiego: i posti di lavoro crescono con l’aumento dei margini di competitività delle imprese. E’ questa la nuova regola aurea dell’occupazione. Si tratta di una novità di non poco conto rispetto al più recente passato, quando la (quasi) piena occupazione poteva essere assicurata dal mantenimento in vita dei “rami secchi” dell’economia. Ma si tratta anche – occorre dirlo – di una regola piuttosto difficile da seguire nella pratica.

In primo luogo, perché le nuove tecnologie aumentano la produttività media del sistema più di quanto si riesca ad aumentare la produzione di beni e servizi. E’ stato stimato che, nei Paesi dell’area Ocse, la produttività media cresca del 3 per cento circa all’anno. Ora, non v’è chi non veda come sia praticamente impossibile aumentare, anno dopo anno, la domanda media dei beni del 3 per cento. Si pensi a quanto è accaduto nel settore agricolo, prima, e nell’industria di base (siderurgia, cemento, chimica) in seguito: all’aumento della produttività si è accompagnato un aumento percentualmente minore della produzione e perciò una drastica riduzione dell’occupazione. Infatti, se una società che registra aumenti costanti ed elevati della produttività media vuole mantenere immutato il suo livello di impiego (e non diciamo occupazione), essa deve aumentare i propri consumi allo stesso ritmo con cui si accresce la produttività. E poiché il consumo di beni e soprattutto di servizi richiede tempo, occorre consumare sempre più freneticamente per conservare inalterato il livello di impiego.
Ma già Linder, in un celebre saggio del ‘70, aveva mostrato come l’aumento dell’intensità di consumo conduca ad un esito paradossale: il tentativo di consumare quantità sempre maggiore di beni entro uno stesso tempo di consumo diminuisce, anziché aumentare, l’utilità degli individui, quell’utilità che gli agenti razionali dovrebbero invece cercare di massimizzare.
In effetti, puntare alla crescita dell’intensità di consumo, se può servire nelle prime fasi dello sviluppo industriale, fasi in cui si realizza il modello della produzione di massa, tende a produrre una diminuzione di utilità, cioè di benessere, quando questo processo è, in larga misura, realizzato.

Una seconda ragione importante per la quale è praticamente impossibile rispettare la nuova regola aurea dell’occupazione è che essa finirebbe con lo scatenare, nelle nostre società, una forma nuova di competizione, quella che Hirsch ha chiamato competizione posizionale. Un modo efficace per comprendere di che si tratta ci viene dalla storiella che il fondatore della Sony, Akio Morito, racconta nella sua autobiografia. Un americano e un giapponese, mentre attraversano la foresta, sentono improvvisamente il ruggito minaccioso di un leone in arrivo. Il giapponese si ferma, trae dallo zainetto le scarpe da tennis e comincia a calzarle. L’americano, invece, si dà alla fuga e, nel fuggire, grida al suo compagno: – Sciocco! Credi che quelle scarpe ti basteranno a correre più veloce del leone? –. E il giapponese, di rimando: – A me non serve correre più veloce del leone. Mi basta correre più veloce di te! –. L’aspetto davvero inquietante della competizione posizionale sta in ciò: che essa esemplifica un caso concreto di competizione distruttiva: essa peggiora il benessere sia individuale sia sociale perché, mentre genera lo spreco da opulenza, lacera il tessuto sociale.
Come già Tocqueville aveva lucidamente anticipato, la competizione posizionale «nasce dall’eguaglianza come presupposto ed è finalizzata al suo superamento: l’eguaglianza di principio mette in moto la ricerca della diseguaglianza di fatto». A differenza di quanto avviene nelle gare sportive e nella familiare competizione di mercato, in cui si registrano bensì vincitori e perdenti, ma tutti possono riprendere il gioco ad uno stadio successivo sia pure in condizioni diverse, nella competizione posizionale chi è perdente lo è per sempre.

Per concludere. Non è la mancanza del know how a livello dei possibili rimedi, né è la mancanza di strumenti operativi di intervento a rendere così difficile la soluzione del problema occupazionale, oggi. Il fatto che, rimanendo all’interno dello schema concettuale che identifica la piena occupazione con il pieno impiego, il raggiungimento di questo obiettivo entra in rotta di collisione con il raggiungimento di obiettivi altrettanto leciti e importanti, quali una crescita ecologicamente sostenibile; un modello di consumo che non alieni, distorcendo le preferenze individuali; una società non stratificata e tendenzialmente “includente”.
In altri termini, il limite invalicabile di tutte le proposte, anche ingegnose, volte ad alleviare la piaga della disoccupazione, è quello di generare, nelle nostre società, pericolosi trade-offs: per distribuire lavoro a tutti, si impone un modello di consumo neo-consumista; oppure si legittimano forme nuove di povertà (le cosiddette nuove povertà); oppure ancora si restringono gli spazi di libertà dei cittadini. Tutto ciò è inaccettabile sotto il profilo etico. Siamo tutti convinti che quando si arriva a tali livelli di consapevolezza, occorre darsi il coraggio di osare vie nuove.

   
   
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