Dicembre 2002

I NODI DELLA GLOBALIZZAZIONE NELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI

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L’enigma delle nobili parentele
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

 

 

Non vi può essere società civile
mondiale senza una politica mondiale, senza fonti nuove
di legittimazione politica.

 

«Voglio essere franco anche se faccio fatica ad essere serio». Questa battuta di un vecchio comico fotografa con sufficiente approssimazione lo stato d’animo dei Signori che oggi tessono le trame della politica internazionale. Un esempio. Se un ministro dell’economia presente alla riunione del G7 tenuta dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre ha sottoscritto il documento con cui si è deciso d’immettere forte liquidità nel sistema economico per rendere concrete le prospettive di ripresa, oggi non può smentire se stesso e l’impegno preso in quella sede.
Se i conti della sua Azienda sono deludenti (come accade nei maggiori Paesi occidentali) egli deve restare “forzosamente” ottimista. E’ franco perché ci offre una sua intima convinzione, ma non è serio.

Nelle vicende internazionali si avverte più sensibilità per la rappresentazione politica degli interessi che per le alchimie diplomatiche dosate nel rispetto della legalità. Il dialogo multipolare ha creato inedite e nobili parentele (si pensi alla recente attrazione nell’orbita occidentale di grandi Paesi come Russia, Cina, Pakistan), ma coltiva più ragioni di sospetto e fattori d’instabilità rispetto al vecchio e collaudato dialogo bipolare. Esige un rapido aggiornamento dei codici di comportamento e delle chiavi di lettura dal momento che il tradizionale “massaggio delle anime” praticato sistematicamente dai massimi vertici del potere ha perduto smalto e forza di persuasione (si vedano i fallimenti della diplomazia americana nella crisi israeliano-palestinese).
Proprio in Medio-Oriente si ottengono risultati più concreti sperimentando dialoghi regionali. Un accordo tra due grandi leader scomparsi – re Hussein di Giordania e il siriano Hafez el Assad – ha consentito di ripristinare il mitico “treno di Lawrence” sulla tratta Amman-Damasco. Un treno simbolo del riscatto e dell’indipendenza araba riattivato col chiaro intento di avvicinare popoli fratelli dilaniati da conflitti apparentemente insolubili. Un atto significativo di coesistenza pacifica. Una conferma della realpolitik dei piccoli passi, della necessità di operare per traguardi intermedi, non per obiettivi finali.
Per rendere più intelligibili gli sviluppi delle relazioni internazionali torna utile la distinzione inglese tra policy (interventi urgenti e concreti) e politics (politica-immagine confezionata nelle trincee ideologiche).
Attualmente l’unico fatto rilevante è dato dal sostanziale cambiamento di rotta nella politica estera degli Stati Uniti, passata dopo l’11 settembre dalla dottrina della deterrenza (munirsi di un arsenale nucleare per effettuare in caso di attacco una ritorsione senza possibilità di replica) alla dottrina della guerra preventiva (colpire per primi quei nemici che rappresentano minaccia per la sicurezza nazionale e globale). All’età della moral dissuation si sovrappone l’età del terrore.
Ragionando in questa nuova ottica gli studiosi di politica internazionale devono fare i conti con l’analisi anticipatrice di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà che si porta dietro domande inquietanti. Stiamo vivendo davvero il tramonto della civiltà occidentale?
Sulla scena internazionale intanto abbondano le dichiarazioni di guerra mediatica che creano sibillini scenari esoterici con il risultato di sfilacciare e indebolire le ragioni che hanno dato vita alla grande coalizione (Enduring Freedom riunisce 90 Paesi) per combattere l’«asse del male» (i Paesi che praticano o sponsorizzano il terrorismo internazionale).
Le crisi regionali permangono, mentre continuano ad aleggiare sentimenti e motivazioni psicologiche da “Manhattan transfert”. I talebani sono stati sconfitti ma il futuro politico dell’Afghanistan resta incerto. Il terrorismo islamico, privatizzato e globalizzato, non colpisce più gli Stati Uniti, ma resta attivo in Tunisia, Kashmir, Filippine, Afghanistan, Pakistan, Cecenia e altri Paesi del Commonwealth post-sovietico. La crisi israeliano-palestinese resta insoluta mentre resta alto il livello di tensione con l’Iraq (l’evento bellico diventa fattore di destabilizzazione per tutta la penisola arabica).
La dottrina americana della guerra preventiva fa aumentare gli eventi da stress ossidativo, moltiplicando le ragioni di tensione di lungo periodo (talvolta la voce dei falchi costituisce elemento di disturbo del cordoglio americano). Ma ad ogni crocevia è attesa la decisione della Sfinge Americana, che attualmente appare ispirata da un forte desiderio di esercizio solitario del potere.
Dopo il crollo del comunismo il potere egemone degli americani ha fatto aumentare i fattori di radicalizzazione del conflitto Nord-Sud. Il contrasto ideologico-politico USA-URSS costituiva una sorta di stanza di compensazione per tutti quei Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina che attraverso un movimento pendolare tra le due aree d’influenza usufruivano degli aiuti dei due blocchi. Così la contrapposizione ideologica Est-Ovest finiva paradossalmente per produrre utili ammortizzatori sociali sul versante Nord-Sud, alimentando costruttive tematiche di dialogo. La cultura imperiale della globalizzazione riduce invece oggettivamente gli spazi del dialogo politico, offrendo ai Paesi poveri un unico interlocutore, la potenza americana, verso cui cresce l’area dei fobici sospetti.
L’intreccio di ragioni che ora producono disordine dovrebbe suggerire agli attori di primo piano maggiore sensibilità verso le tragedie dei popoli diseredati e i temi dello sviluppo sostenibile che non sono affatto estranei al recupero delle crisi che stiamo vivendo (l’opzione militare lascia insoluti questi problemi).
Keynes era solito ripetere che a governare il mondo sono le idee più che gli interessi (principalmente fonti energetiche e petrolio nell’attuale momento storico). Dunque, l’agenda della politica internazionale deve rivalutare come istanza prioritaria il dialogo sui progetti di difesa dell’ecosistema e sulle libertà fondamentali civili e politiche del cittadino universale, uscendo dal vicolo cieco degli “show” di basso profilo (vertici “vested interests” per l’agricoltura, la fame, il clima, l’acqua, l’immigrazione, l’ambiente).
Una domanda appare appropriata. Si può fare una guerra per dare nuovo ordine alla politica delle fonti energetiche continuando ad incrementare il livello di questi consumi?
L’indifferenza per gli abissi plebei denuncia miopia politica e carenze gravi che attengono agli standard di formazione culturale delle democrazie moderne e delle loro classi dirigenti, alla capacità di immaginare voti nuovi caratterizzati da forti connotazioni universali, andando oltre i voti d’interesse amministrati e custoditi nei recinti barocchi. Ci riferiamo in particolare a quel curioso fenomeno per cui all’entusiasmo esercitato dalla world music (musica multietnica) non corrisponde altrettanto interesse per le altre espressioni di cultura “melting pot” (calderone di fusione) che storicamente si collegano alla migliore tradizione umanistica occidentale (la letteratura meticcia è di moda ma non fa costume, non incide sulla formazione del consenso politico).

Recentemente un’interessante provocazione è stata lanciata dall’economista giapponese Kenichi Ohmae, fautore della globalizzazione estrema. «Poiché non esiste un contrappeso politico all’espansione dei mercati, bisognerebbe consentire ai cittadini del mondo di eleggere il Presidente degli Stati Uniti». La denuncia è palese. Non vi può essere società civile mondiale senza una politica mondiale, senza fonti nuove di legittimazione politica. Un sogno antico, già fatto proprio da Alessandro il Macedone (350-323 a.C.). Usò il suo espansionismo imperiale per portare a sintesi i valori della civiltà ellenica e di quella orientale.
Al di là delle questioni d’influenza e di potere geopolitico, gli assilli maggiori per le strategie di stabilizzazione delle relazioni internazionali vengono dall’iperconsumo (carbone e altre fonti energetiche – tematiche in evidenza a Johannesburg, settembre u.s., prestigioso meeting celebrativo del dissenso globale) e dall’iperpopolazione (tema noto e insoluto, a lungo dibattuto in sede Onu). Sono di fatto problematiche contrapposte poiché l’aumento della popolazione presuppone risorse illimitate mentre le strategie di contenimento dei consumi presuppongono la consapevolezza di avere a disposizione risorse limitate. Queste convinzioni di segno opposto hanno bisogno di un lungo lavoro interdisciplinare per trovare il punto di equilibrio, razionalmente compatibile con i fattori moltiplicativi della crescita.
L’opera di denuncia viene fatta da tempo ma non darà mai risultati concreti se di questa contraddizione non si farà carico il dialogo politico. Una seconda contraddizione riguarda la scarsità di risorse naturali a fronte dell’abbondanza di risorse umane. Ne consegue che l’immigrazione a circuito chiuso e con rapida rotazione appare un ammortizzatore sociale troppo rigido e talvolta schizzoide e autolesionista, se riferito a quei Paesi sviluppati che denunciano un forte deficit demografico (anche questa è una questione di equilibrio tra immigrati e autoctoni).

Un’altra contraddizione di forte impatto sociale riguarda l’affermazione del liberismo di mercato bilanciata da scelte politiche di nuovo dirigismo statalista (di estrazione lobbista, non più marxista). Crescono le istanze che invocano nuove leggi per correggere le distorsioni del capitalismo malato. Non va dimenticato tuttavia che il moto perpetuo del capitalismo oscilla tra speculazione al rialzo e al ribasso (le bolle speculative). L’essenza stessa del capitalismo risiede nei comportamenti speculativi che di fatto sfuggono ad ogni ipotesi di controllo (il capitalismo senza speculazione non è creativo, non esiste).
Adesso si fa strada l’idea che un’interpretazione fondamentalista del mercato produce eccessi liberisti e devianze morali pericolose per la stabilità del sistema. Dunque, una netta sfiducia nelle capacità di autoregolamentazione del mercato e delle professioni. E dallo spirito calvinista americano prendono forma le nuove crociate per un riordino legato a forme più rigide di regolamentazione (per onestà bisogna dire che di fronte alla caduta di Wall Street c’è un’economia americana sana, con una produttività in continua crescita). L’America (società e istituzioni) si trova unita nel chiedere al mondo delle imprese un ritorno ai valori originari del capitalismo.

Onestà, frugalità, discrezione, senso etico della professione, secondo l’insegnamento dei Ford, dei Rockefeller, dei Buddenbrook. Si avverte un forte richiamo all’autocritica, all’introspezione e alla responsabilità individuale e collettiva. Ammonimenti ricordati annualmente dal suono dello shofar (antico corno) nelle celebrazioni del Capodanno ebraico. Tutto ciò spiega la rapidità dell’intervento legislativo nell’adottare correttivi che limitano l’autonomia decisionale del top management e perseguono la determinazione di princìpi etici standard. Nella ricerca di riordino del sistema capitalista le vicende europee non offrono stimoli di grande significato propositivo. Tuttavia le aspettative generali del mercato e dei risparmiatori sono tutte orientate ad aumentare la trasparenza e ad evitare le incursioni fraudolente. Sono aspettative legittime dal momento che la globalizzazione dei mercati finanziari eleva la soglia dei rischi e la loro diversificazione. Da qui la necessità di rivedere la mappa dei controlli governativi creando più stretti rapporti di cooperazione internazionale. Diventa urgente il problema della razionalizzazione delle autorità di controllo, dei loro compiti e delle procedure amministrative utilizzate: per banche, assicurazioni, non profit, concorrenza, attività industriali strategiche (energia, telecomunicazioni, ecc.). Altre esigenze di regolamentazione riguardano l’area specifica delle responsabilità di gestione, di consulenza e certificazione: per i rapporti controllori-controllati, per la duplicazione delle funzioni, per i trattamenti economici privilegiati, per le oscure regole organizzative delle holding, per la latitanza della pubblicità e dell’informazione aziendale, per le devianze prodotte dalla deregulation, per la trasparenza dei bilanci (sul caso Italia si legga il recente lavoro del giurista Mario Cera, La regolamentazione dei soggetti finanziari nell’attività normativa delle società, Giuffrè, Milano, 2002).

«Anime semplici abitano talvolta corpi complessi», ricordava Flaiano. E la tutela delle anime semplici diventa adesso obiettivo primario del nuovo ordine economico.
Nel crogiuolo delle relazioni internazionali il contenzioso USA-Ue non aiuta a smussare le rigidità esistenti. L’entusiasmo solidaristico di un anno fa è gradatamente scemato, sopraffatto da motivi di litigiosità strisciante: sulla Corte penale internazionale, sui programmi attuativi dello sviluppo sostenibile, sull’uso della forza nelle relazioni internazionali, sull’adozione di sanzioni negli scambi commerciali. Predominano le tendenze centrifughe, con un’America arroccata nell’unilateralismo decisionale motivato dall’orgoglio nazionale ferito ed una timida Europa, afflitta dalle traversie che incontra il suo processo di unità politica.
Se l’Europa non ha le carte in regola per farsi ascoltare, l’America non ha un piano strategico globale. C’è dunque una vasta area progettuale dove la verifica dei rapporti transatlantici potrebbe approdare ad un dialogo meno condizionato dai reciproci fattori interni di disturbo. Con sicuro beneficio di possibili iniziative unitarie utili alla Comunità internazionale ed alla stabilizzazione delle alleanze.

Anche in questo caso una dose maggiore di cultura “melting pot” potrebbe dare utili risultati. Il presupposto di un’unica Comunità pluralistica renderebbe più agevole i temi di una politica compensativa, capace di apprezzare le ragioni di pari opportunità e di pari convenienza.
In fondo gli equilibri della Comunità internazionale si reggono sui rapporti di forza interstatali e sulla solidità delle coalizioni di Stati. Per ridurre le barriere noi/loro e coltivare la crescita di una società globale aperta, costruita su valori civili di democrazia condivisa.
L’esatto contrario dell’opzione terrorista, che politici con intuizioni allenate dovrebbero leggere come pressing per conciliare gli opposti. Bloccando il proselitismo e la pubblicità che dilatano l’eco delle ansie e delle speranze rivoluzionarie.
Non si può predicare il vangelo della democrazia moderna offrendola in uno stand da Esposizione Universale, accreditato presso l’Onu o altra istituzione internazionale.

   
   
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