Dicembre 2002

I SIGNORI DI WALL STREET

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La “Trinità del Male”
che governa la Borsa
M.B.  
 
 

 

 

 

 

La disputa approdò
in Parlamento,
dove i due rivali
si presentarono
ciascuno con un baule di dollari
per comprare
i parlamentari.

 

Esattamente a metà degli anni Ottanta, Ivan Boesky divenne l’eroe di Wall Street, una sorta di moderno Re Mida che trasformava in oro tutto ciò che toccava e che gli veniva a tiro. Convinto di essere onnipotente, predicava apertamente l’avidità: «L’avidità è sana e bella – disse in una conferenza dedicata ai giovani –. Il mio sogno afrodisiaco è di scalare una montagna di dollari d’argento».
Boesky cessò di essere un eroe e diventò un galeotto il giorno che la Sec (Security and Exchange Commission) scoprì che basava le compravendite di azioni sull’inside trading, vale a dire sulle informazioni riservate, e pertanto su un reato grave. Gliele forniva Dennis Levine, un banchiere d’investimenti della Drexel Burnham Lambert, dietro una grossa percentuale dei guadagni. Assieme ai complici, tra i quali Michael Milken, il re dei “junk bonds”, cioè le azioni spazzatura, Boesky fu costretto a pagare centinaia di milioni di dollari di multa e scontare un anno e mezzo di prigione. La Drexel Burnham Lambert andò in bancarotta e Wall Street subì ingenti perdite. Hollywood si innamorò della vicenda e ne trasse un film con un protagonista eccellente, Michael Douglas, l’attore che ripeté parola per parola l’inno di Boesky all’avidità.
Lo scandalo è ritornato alla ribalta in occasione di un’altra bancarotta, la più grande di tutti i tempi, quella della Enron, che ha dato la stura ad una serie di scandali senza precedenti nell’America dei nostri giorni. Lo citano nuovi libri, da Le chiromanti di Howard Kurtz, un giornalista, a Gli avvoltoi di Hillary Rosenberg, un’economista, e un bestseller degli anni Novanta ristampato per la circostanza, Covo dei ladroni, di James Stewart, che non è il vecchio attore dell’America post-bellica, bensì un noto editorialista del Wall Street Journal. I libri tracciano un quadro inquietante della Borsa, «dove gli imbrogli sono tanto rispettabili quanto in passato lo furono la tratta degli schiavi e la rapina dei territori pellerossa», come scrive Kurtz. Le chiromanti sono gli analisti che spingono le azioni di società come la Enron, gli avvoltoi sono i finanzieri d’assalto, i ladroni sono gli agenti disonesti. Una “Trinità del Male”, direbbe il presidente degli Stati Uniti, da cui i risparmiatori si possono difendere soltanto con investimenti prudenti e oculati.
Per il Washington Post, Boesky, la Enron, e così via, sono un semplice ricorso storico: «Dopotutto – sottolinea il quotidiano – le frodi furono le fondamenta di alcune delle massime fortune finanziarie americane: quelle dei Vanderbilt, dei Morgan, dei Rockefeller, dei Kennedy. Questi Creso sono patrioti che manifestano il proprio patriottismo versando soldi ai politici senza chiedere nulla in cambio, se non un piccolo favore fiscale».
L’anno scorso i titoli della Enron, finanziatrice dei partiti e del presidente Bush, un tempo la settima società del mondo, precipitarono da 90 dollari a quasi zero ciascuna, lasciando sul lastrico decine di migliaia di persone. «L’America è la terra delle grandi opportunità – conclude il Washington Post –, il posto dove anche un povero immigrato italiano come Charles Ponzi può realizzare una truffa così semplice da darle il suo nome».
E’ dubbio che Ponzi, un piccolo truffatore già incarcerato ad Atlanta e a Montreal, fosse un genio finanziario: in Italia non avrebbe ingannato nessuno. Ma nella Boston del 1919, e dunque alla vigilia dei ruggenti anni Venti, la sua catena di Sant’Antonio, applicata alla Borsa, fece colpo. Ponzi fondò la Security and Exchange Company (da qui, ironia della sorte, il nome della futura Sec) promettendo agli investitori un profitto del cinquanta per cento in soli 45 giorni. Con i soldi del secondo azionista pagò il primo, con i soldi del terzo pagò il secondo, con i soldi del quarto pagò il terzo, e via di seguito. Nell’estate del 1920 Ponzi incassava 250 mila dollari al giorno, circa 280 mila euro, che nascondeva nei cassetti: una cifra colossale per quei tempi. Ovviamente, venne scoperto e imprigionato. «Il pubblico merita una spiegazione», tuonò il giudice. «Il pubblico merita esattamente ciò che ha», ribatté Ponzi.

Negli anni Sessanta, un altro italo-americano, Anthony De Angelis, un ex macellaio di New York noto come “il re dell’olio da insalata”, si ricordò di Ponzi. Creò una ditta, la Allied Crude Vegetable Oil, e si fece dare milioni di dollari da investire nei “futures” del settore. Li garantì con una sconfinata quantità di olio contenuta in enormi serbatoi. Ma l’olio era soltanto in superficie, i serbatoi erano pieni d’acqua. Due agenzie di Borsa dichiararono bancarotta e De Angelis scontò sette anni di galera.
Un uomo del tutto privo di scrupoli? Certamente, ma non come Richard Whitney, il presidente della Stock Exchange, la Borsa di New York. Negli anni Trenta, quando il presidente Franklin D. Roosevelt propose di formare la Sec, Whitney si oppose: «La massima garanzia contro le frodi sono io», sostenne fieramente. Nel 1937, però, rubò un milione di dollari dai fondi pensione e finì nelle celle del penitenziario di Sing Sing.

La truffa azionaria più spettacolare della storia è legata comunque ai Vanderbilt. Nel 1868, il commodoro Cornelius Vanderbilt, proprietario delle Ferrovie centrali di New York, tentò di comprare il pacchetto azionario delle Ferrovie Erie, controllato da Daniel Drew.
Drew accettò 7 milioni di dollari, altra somma smisurata, ma stampò una valanga di nuove azioni, conservandone così la maggioranza. Vanderbilt corruppe un giudice, che vietò a Drew di continuare. Drew ne corruppe un altro, che gli consentì di proseguire. Poi si rinchiuse in una villa protetta da poliziotti corrotti armati di cannone. La disputa approdò in Parlamento a New York, dove i due rivali si presentarono ciascuno con un baule di dollari per comprare i parlamentari. Vanderbilt non riuscì a mettere le mani sulle Ferrovie Erie, ma ci guadagnò ugualmente, scaricando le sue azioni sulla Borsa di Londra. Gli inglesi ne acquistarono centomila, per vedere il loro valore dimezzarsi nel giro di pochi giorni.
Ogni volta Wall Street ha cercato di correre ai ripari. Ma c’è da dubitare che arrivi il giorno in cui inchioderà un cartello con su scritto: «Gli scandali non abitano più qui».

   
   
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