Dicembre 2002

L’EUROPA UTILE

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Costi e ricavi
Mario Pinzauti  
 
 

 

 

 

 

Il principio della
sussidiarietà
stabilisce
che l’Europa ha il
diritto e il dovere
di intervenire quando a livelli nazionali non si riesca
a raggiungere
soluzioni
soddisfacenti.

 

Ma quanto ci costa, l’Europa! E’, questo, il lamento-protesta che ogni tanto ci sentiamo ripetere in dichiarazioni politiche e articoli di giornali da parte di chi considera una sciagura l’integrazione europea qual è già oggi e, peggio ancora, quale potrà essere domani con l’allargamento a 10 dei 13 Paesi candidati, una sua costituzione, modifiche alle strutture e alle regole delle istituzioni, eccetera eccetera.
Questi eurocritici, in qualche caso veri e propri euronemici – purtroppo ben rappresentati e non solo in quel Paese che, tradizionalmente è il bastian contrario dell’Unione, cioè la Gran Bretagna – oltre a dare una doppia o tripla sottolineatura ai molti insuccessi politici dell’Europa comunitaria, ne denunciano con sdegno i costi, secondo loro enormi, scandalosi, inversamente proporzionali ai risultati ottenuti e forse, forse (questa, per la verità, è un’ipotesi sostenuta solo da una minoranza di euroavversari) causa o concausa delle difficoltà economiche che oggi affliggono un buon numero dei Paesi del nostro continente, Italia compresa.

Il tema di questo capitolo della nostra rubrica “l’Europa utile” è una risposta alle critiche e agli attacchi cui, poco sopra, abbiamo fatto accenno. Critiche e attacchi che – lo chiariamo subito – non hanno, sotto i piedi, una solida e seria base di lancio. Non sono cioè sostenuti da dati e fatti attendibili.
A questo proposito già dicono quanto basta i seguenti dati che l’on. Guido Podestà, Vicepresidente del Parlamento europeo, ha recentemente ricordato in un’intervista al Corriere della Sera. Nel ‘92, ha detto Podestà, i governi dei Paesi dell’Unione concordarono di mettere a disposizione delle istituzioni europee risorse che non superassero l’1,27 per cento del loro Prodotto interno lordo. Bene: a tutt’oggi ci si è sempr emantenuti sotto tale tetto massimo, nel 2002 ci si ferma all’1,05 per cento. Ma ancora più interessanti, ha aggiunto il Vicepresidente del Parlamento europeo, sono i dati sull’uso che l’Unione fa del denaro che arriva alle sue casse. Il 20 per cento copre le spese per il funzionamento delle istituzioni e per le loro iniziative politiche, l’80 per cento ritorna ai Paesi della famiglia comunitaria sotto forma di contributi per la politica agricola, per i fondi strutturali a favore delle regioni più povere, eccetera. E l’insieme di queste uscite costa ad ognuno dei 376 milioni di cittadini dell’Unione 14 centesimi di euro al giorno. E’ troppo?
Potrebbe anche esserlo se quel venti per cento di spese per le istituzioni fosse assorbito dagli stipendi dei dipendenti (20 mila solo quelli della Commissione), dai costi dei megapalazzi di Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo e da quelli di iniziative politiche che, spesso e volentieri, si concludono con buchi nell’acqua, come purtroppo è spesso accaduto e accade per i molti tentativi di mediazione internazionale condotti dall’ineffabile e per certi aspetti patetico Javier Solana, “mister PESC”, lo sfortunato e solitario esecutore della fantomatica Politica Estera e di Sicurezza Comune (appunto, la PESC) dell’Unione Europea.
Ma c’è dell’altro: che fa tornare i conti e ci dice che i soldi spesi per l’Europa – i 14 centesimi al giorno di cui ha parlato Guido Podestà – sono, per i cittadini dell’Unione, un ottimo investimento. E’ con questi soldi che, tra l’altro, si finanzia l’“Europa utile”, quella delle iniziative di cui i 376 milioni di uomini e donne che risiedono nell’Unione beneficiano direttamente.
Come crediamo di aver documentato nei nostri precedenti articoli, queste iniziative danno infatti agli europei garanzie per la tutela della loro salute e per la difesa dei loro diritti di consumatori, affrontano il problema della lotta alla disoccupazione, favoriscono il raggiungimento di pari opportunità per le donne, gli anziani, gli handicappati, creano le condizioni per la ricerca di nuove fonti energetiche. E molto ancora.
Un molto ancora che sotto il titolo dell’“Europa utile”, dell’Europa che ripaga, e con interessi altissimi, i contributi che l’alimentano, è, si può dire, non stop: nel senso che è un susseguirsi continuo di nuove iniziative.
Alcune, tra le ultime, fanno letteralmente notizia, grossa notizia. Accade, ad esempio, per le correzioni negli interventi per la politica agricola, per i piani diretti a contenere la crisi della pesca e i riflessi negativi che essa provoca sull’occupazione (solo in Italia i pescatori recentemente rimasti senza lavoro sono 8.000). Accade per le norme che si propongono di por fine alle abissali differenze di prezzi che per l’acquisto delle auto ancora sopravvivono tra un Paese e l’altro di un’Unione Europea che pure già nove anni fa ha costituito e messo in funzione un mercato unico. Accade per le nuove regole che, grazie a una paziente opera di tessitura condotta dalla Commissione Europea, sono state stabilite l’estate scorsa per il telelavoro, un genere di attività che agli esordi, pochi anni fa, nell’Unione coinvolgeva poche migliaia di persone, oggi assicura pane e companatico a 4 milioni e 500 mila persone e in un futuro prossimo impegnerà 10 milioni di europei.

I limiti dello spazio di cui disponiamo su questa Rivista ci obbligano a dare solo una rapida occhiata alle ultime novità sull’attività dell’“Europa utile”. Almeno su una delle notizie prima accennate – l’accordo per il telelavoro – vogliamo tuttavia fornire qualche particolare in più, partendo da due considerazioni che sottolineano l’importanza del fatto. Considerazione numero uno: da questo accordo nasce il primo contratto di lavoro europeo. Considerazione numero due: l’Europa sociale, da decenni vagheggiata, mostra finalmente di poter esistere in carne e ossa.
Lasciamo ora che, a sostegno di queste valutazioni, parli l’avvenimento. L’intesa – che stabilisce garanzie prima inesistenti per tutti coloro che operano nel settore del telelavoro – è stata raggiunta l’estate scorsa a Bruxelles tra i rappresentanti delle imprese e quelli dei sindacati dei lavoratori. E’ un’intesa che vale non solo per l’Italia, la Francia o altri singoli Stati membri dell’Unione, ma per tutti i 15 Paesi dell’Europa comunitaria. E’ dunque un contratto europeo, il primo finora sottoscritto. E, come vedremo più avanti, nasce e sta per operare grazie ai buoni uffici dell’“Europa utile”.
«Un avvenimento storico»: così lo definisce Anna Diamantopoulos, il commissario europeo responsabile dei problemi dell’occupazione. E guardando i fatti non si può certo accusarla di forzature retoriche. Il primo contratto europeo è il punto d’arrivo di un impegno congiunto delle istituzioni dell’Unione e delle forze sociali. Parte da un’iniziativa della Commissione Europea che oltre due anni fa, nel giugno del 2000, apre una serie di consultazioni con i rappresentanti dei lavoratori e quelli degli imprenditori. Le consultazioni continuano nel 2001 fino a che si creano le condizioni per una trattativa diretta tra le parti. Nell’ottobre del 2001, sempre con la collaborazione della Commissione, sindacati e imprese iniziano la ricerca dell’accordo. E la concludono l’estate scorsa, a Bruxelles: con un contratto europeo, il primo dall’inizio del processo d’integrazione, reso possibile dall’iniziativa dell’“Europa utile”, nel caso specifico rappresentata dalla Commissione.
Secondo il commissario Diamantopoulos, questo contratto farà da battistrada a molte altre successive soluzioni di dimensioni europee di problemi riguardanti il mondo del lavoro, dando sempre maggiore visibilità e autorevolezza all’Europa sociale. E’ una previsione realistica. Tanto è vero che la Commissione sta già progettando nuovi interventi che, com’è avvenuto per il telelavoro, la impegnino nel ruolo di mediatore dell’Europa sociale. E’ un ruolo che non esisteva. E che ora non solo è attivo, ma funziona. E che, in un certo senso, introduce anche nel campo del lavoro il principio della sussidiarietà, in quanto stabilisce che, anche su questo terreno, l’Europa ha il diritto e il dovere di intervenire quando a livelli nazionali non si riesca a raggiungere soluzioni soddisfacenti.
E’ proprio quanto è avvenuto per il telelavoro. Prima che – attraverso la Commissione – l’“Europa utile” ci mettesse lo zampino, soluzioni nazionali erano state cercate e spesso anche trovate in diversi Paesi dell’Unione: ad esempio in Italia con l’accordo tra CONFAPI e CGIL, CISL e UIL e in Gran Bretagna con il contratto della British Gas. Le regole concordate con queste intese davano tuttavia insufficienti garanzie a una parte dei lavoratori impegnati nel settore, particolarmente a coloro che svolgono la loro attività a domicilio o in viaggio. Non adeguata attenzione si dava inoltre alla dimensione internazionale che il telelavoro sempre di più assume e ai nuovi diritti e doveri che questa attività ormai senza frontiere impone a chi la esercita.
Senza rinnegare i contratti nazionali un contratto europeo stava così diventando necessario e urgente. Le consultazioni e le sollecitazioni della Commissione prima, le trattative tra imprenditori e sindacati poi hanno riconosciuto e risolto quest’esigenza. Si è arrivati a un contratto che stabilisce princìpi e regole valide in tutta l’Unione. E l’“Europa utile” ha così di nuovo manifestato la sua forza anche se, purtroppo, contemporaneamente, l’Europa politica – su cui abbiamo pianto insieme a voi, cari lettori, nel nostro precedente articolo [Apulia, III/settembre 2002, N.d.R.] – ha continuato e continua a confermare la sua debolezza e la sua impotenza: nei fumosi dibattiti alla Convenzione, nelle trattative sui grandi problemi internazionali, come il Medio Oriente e l’Iraq, in tante altre sedi.

   
   
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