I Paesi delleuro hanno il dovere
civico di cercare
le ragioni
della crescita
in un soprassalto
di riforme.
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Non «Banzai!», ma «Gamboro!» gridavano
i fedeli del partito liberal-democratico giapponese riuniti attorno
a un loro nuovo primo ministro. Lespressione, che si potrebbe
liberamente tradurre «Avanti, miei prodi!», sembra a
prima vista ingenua, un po come gli esercizi di ginnastica
degli operai della Toyota o il canto dellinno aziendale. Ma
per lo meno aveva il merito di esprimere un sentimento che manca
in Europa. Un sentimento di slancio, di ritrovata unità dintenti,
di voglia di ricominciare e di andare avanti...
I dati del PIL nei tre maggiori Paesi di Eurolandia (quelli della
Francia e della Germania, e quelli che più ci interessano,
italiani) rivelano una stanchezza del ciclo che ancora innesca
gli esami non finiscono mai un ennesimo patema delleuro.
Lattività economica in Europa si aggrappa alle esportazioni
nette per cercare un supporto aritmetico e patetico
a una crescita del Pil che ha rallentato di conserva alla fatica
delleconomia americana.
I Paesi in crisi come gli individui in crisi talvolta
quasi sperano in una convulsione, perché può fare
da catalisi al cambiamento. Ma se la debolezza delleconomia
europea dovesse diventare acuta oppure cronica, la crisi, lungi
dal concentrare le volontà, scatenerebbe le forze centrifughe
degli egoismi nazionali. Questo è lo scotto che si paga a
una costruzione in divenire: mentre la crisi in un Paese unitario
come il Giappone cerca la soluzione nelle cose da fare, la crisi
in Europa rischia, ben prima di chinarsi sul quid agendum, di strappare
il tessuto ancora fragile della sovranazionalità.
Il rallentamento delleconomia europea è per ora soprattutto
il riflesso di quello americano. Gli europei risentono del caro-petrolio
più degli americani (perché sono più dipendenti
dalloro nero e perché laltalenanza delleuro
ha rincarato lo shock petrolifero), ma soprattutto risentono della
mancanza di una dimensione continentale al loro operare. I successi
di eurolandia sul fronte delloccupazione sono frammentati
nella percezione dei cittadini europei; questi vedono gli alberi
e non la foresta, i tasselli e non il mosaico, talché quando
gli shock esterni arrivano dal petrolio o dalleconomia
americana questi minano la fiducia perché sono visti
come una minaccia monolitica di fronte alla quale ci sono soltanto
difese nazionali e non i bastioni di uneurozona che pure è
così grande da poter trovare al proprio interno ragioni e
stimoli alla crescita.
Stretti fra debolezza internazionale e sfilacciamento sovranazionale,
i Paesi delleuro hanno il dovere civico di cercare le ragioni
della crescita in un soprassalto di riforme. Se la congiuntura non
aiuta, la struttura può farlo. A che serve costruire un mercato
unico se Paesi come la Francia difendono il monopolio elettrico?
A che serve unificare la moneta e impedire di usarla per comprare
polizze di assicurazione là dove costano meno? A che serve
vantare le virtù del mercato e lasciar sopravvivere ragnatele
polverose di asfissianti regimi autorizzativi? A che serve, di fronte
al problema continentale dellinvecchiamento, procedere in
ordine sparso sul tema delle riforme pensionistiche, rinunciando
a direttive comuni che vedrebbero un totale maggiore
della somma delle parti?
Liti di condominio o stagione di riforme: i contorni netti di questa
scelta si stagliano nellombra di un ciclo in affanno. Forse
le riforme sono più facili quando leconomia va bene.
Ma, nel caso dellEuropa, sono certamente più utili
quando leconomia va male.
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