Dicembre 2002

L’ALTRA CRISI

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Abulica Europa
Mabel  
 
 

 

 

 

 

I Paesi dell’euro hanno il dovere
civico di cercare
le ragioni
della crescita
in un soprassalto
di riforme.

 

Non «Banzai!», ma «Gamboro!» gridavano i fedeli del partito liberal-democratico giapponese riuniti attorno a un loro nuovo primo ministro. L’espressione, che si potrebbe liberamente tradurre «Avanti, miei prodi!», sembra a prima vista ingenua, un po’ come gli esercizi di ginnastica degli operai della Toyota o il canto dell’inno aziendale. Ma per lo meno aveva il merito di esprimere un sentimento che manca in Europa. Un sentimento di slancio, di ritrovata unità d’intenti, di voglia di ricominciare e di andare avanti...
I dati del PIL nei tre maggiori Paesi di Eurolandia (quelli della Francia e della Germania, e quelli che più ci interessano, italiani) rivelano una stanchezza del ciclo che ancora innesca – gli esami non finiscono mai – un ennesimo patema dell’euro. L’attività economica in Europa si aggrappa alle esportazioni nette per cercare un supporto – aritmetico e patetico – a una crescita del Pil che ha rallentato di conserva alla fatica dell’economia americana.

I Paesi in crisi – come gli individui in crisi – talvolta quasi sperano in una convulsione, perché può fare da catalisi al cambiamento. Ma se la debolezza dell’economia europea dovesse diventare acuta oppure cronica, la crisi, lungi dal concentrare le volontà, scatenerebbe le forze centrifughe degli egoismi nazionali. Questo è lo scotto che si paga a una costruzione in divenire: mentre la crisi in un Paese unitario come il Giappone cerca la soluzione nelle cose da fare, la crisi in Europa rischia, ben prima di chinarsi sul quid agendum, di strappare il tessuto ancora fragile della sovranazionalità.
Il rallentamento dell’economia europea è per ora soprattutto il riflesso di quello americano. Gli europei risentono del caro-petrolio più degli americani (perché sono più dipendenti dall’oro nero e perché l’altalenanza dell’euro ha rincarato lo shock petrolifero), ma soprattutto risentono della mancanza di una dimensione continentale al loro operare. I successi di eurolandia sul fronte dell’occupazione sono frammentati nella percezione dei cittadini europei; questi vedono gli alberi e non la foresta, i tasselli e non il mosaico, talché quando gli shock esterni arrivano – dal petrolio o dall’economia americana – questi minano la fiducia perché sono visti come una minaccia monolitica di fronte alla quale ci sono soltanto difese nazionali e non i bastioni di un’eurozona che pure è così grande da poter trovare al proprio interno ragioni e stimoli alla crescita.

Stretti fra debolezza internazionale e sfilacciamento sovranazionale, i Paesi dell’euro hanno il dovere civico di cercare le ragioni della crescita in un soprassalto di riforme. Se la congiuntura non aiuta, la struttura può farlo. A che serve costruire un mercato unico se Paesi come la Francia difendono il monopolio elettrico? A che serve unificare la moneta e impedire di usarla per comprare polizze di assicurazione là dove costano meno? A che serve vantare le virtù del mercato e lasciar sopravvivere ragnatele polverose di asfissianti regimi autorizzativi? A che serve, di fronte al problema continentale dell’invecchiamento, procedere in ordine sparso sul tema delle riforme pensionistiche, rinunciando a direttive comuni che vedrebbero un “totale” maggiore della somma delle parti?
Liti di condominio o stagione di riforme: i contorni netti di questa scelta si stagliano nell’ombra di un ciclo in affanno. Forse le riforme sono più facili quando l’economia va bene. Ma, nel caso dell’Europa, sono certamente più utili quando l’economia va male.

   
   
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