Dicembre 2002

ALLARGAMENTO DELL’UE

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Europe in rotta di collisione
Gianmarco Moretti  
 
 

 

 

 

 

La popolazione
tedesca
sta invecchiando
a un ritmo tale
che la necessità
di un certo tipo
di manodopera
diventerà presto un bisogno disperato.

 

Nessuno, più della Germania, beneficerà dell’allargamento ad Est dell’Unione europea. Nessuno, più della Germania, teme l’allargamento. L’atteggiamento del Cancelliere germanico e della sua coalizione racchiude con disinvoltura questi due estremi. Negli ultimi tempi Berlino, dopo aver premuto per una moratoria di ben sette anni prima di concedere ai lavoratori dei nuovi Paesi membri la libera circolazione nel mercato Ue, è tornata a recitare il ruolo di difensore d’ufficio del processo d’espansione, definendo fra l’altro ricattatoria la posizione della Spagna, che vorrebbe legare il proprio assenso a precise garanzie sull’afflusso di fondi strutturali anche all’indomani dell’ingresso dei nuovi Stati dell’Europa Centro-Orientale.

Nel mirino della Germania c’è anche l’Italia, che ha espresso la volontà di garantire gli interessi del Mezzogiorno (anche in questo caso come ricettore di aiuti finanziari Ue) e la loro compatibilità con l’arrivo di un gruppo di Paesi a basso reddito: atteggiamento che non è piaciuto al governo tedesco. «E’ inaccettabile che la Spagna e l’Italia cerchino di legare al processo di allargamento questioni che con l’allargamento non hanno nulla a che vedere», ha tuonato il ministro delle Finanze teutonico. Probabilmente, la posizione di Madrid e quella di Roma non brilleranno per prospettiva storica e lungimiranza, e forse sono una manifestazione poco elegante, dal punto di vista formale e diplomatico, della difesa degli interessi nazionali. Ma la Germania è ben lontana dagli slanci ideologici e passionali nei confronti dell’Europa che avevano contraddistinto la politica di Helmut Kohl. Tanto più lontana, quanto più si avvicina l’ora di un’Unione europea allargata a 20-25 Paesi, evento ormai più che probabile entro la fine di questo decennio.
Quando parla di questa Europa, il Cancelliere non dimentica mai gli aspetti più importanti di politica interna, le paure della gente di confine e le sacche di arretratezza economica e sociale dei Länder orientali.
Ci sono ormai decine di analisi e studi, da parte di esperti più o meno filogovernativi, che propongono le stime più svariate sull’ipotetico afflusso di lavoratori dall’Est in Germania e in Europa. L’impressione è che ci sia una generale sopravvalutazione del fenomeno. Le stime vanno da 1,2 a 1,8 milioni, in un arco di tempo compreso tra i dieci e i quindici anni successivi all’ingresso dei primi Paesi.
Alcuni organi di stampa tedeschi hanno ricordato che, in occasione dell’allargamento a Sud, l’Europa visse un’analoga ansia collettiva, a quanto è dato sapere mal riposta: «Quando Spagna e Portogallo aderirono all’Unione europea, spagnoli e portoghesi cominciarono in realtà a tornare a casa, allettati dalle prospettive di sviluppo che l’integrazione europea avrebbe offerto alle economie dei loro Paesi».
Il presupposto che dovrebbe alimentare la presunta invasione di lavoratori dall’Est è legato soprattutto al differenziale di reddito, ma questo da solo non basterebbe a spiegare flussi migratori potenzialmente così consistenti. Altre motivazioni, di carattere personale e quindi di difficile misurazione, sarebbero all’origine degli spostamenti. Molte analisi, inoltre, non tengono conto di un elemento che già contraddistingue il mercato del lavoro nei Paesi che stanno negoziando l’ingresso con la Commissione europea: la manodopera meno qualificata, quella proveniente dall’industria pesante e dall’agricoltura, è caratterizzata da una scarsa mobilità interna. Alle porte di Varsavia, di Budapest e di Praga, capitali con punte di ricchezza e dinamismo che danno l’illusione di uno sviluppo all’europea, non premono per il momento masse di diseredati.
C’è un altro aspetto, meno evidente a livello ufficiale, che preoccupa la Germania, poiché potrebbe avere un impatto più significativo sulla dinamica occupazionale: è la libera circolazione delle società di servizio. In teoria, questo capitolo del negoziato è stato già chiuso con Polonia, Ungheria, Estonia, Slovenia e Repubblica Ceca, i cinque Paesi probabili candidati al primo round (il “little bang”) di allargamento, e la Commissione ha fatto sapere che non intende riaprirlo in alcun modo. Sembra però che Berlino stia cercando di contrattare alcune garanzie dietro le quinte, per il timore che la moratoria sulla libera circolazione dei lavoratori possa essere tranquillamente aggirata attraverso società di servizio con sede in un nuovo Paese membro.
L’atteggiamento tedesco rappresenta ancora il fattore decisivo in grado di determinare la velocità o meno del processo di allargamento. Molti osservatori politici fanno inoltre notare che un contributo decisivo alla difficoltà generale dei negoziati nasce in realtà dal raffreddamento dei rapporti tra Germania e Polonia. I tempi della riconciliazione e della foga passionale con cui il Cancelliere Kohl parlava ai suoi “amici polacchi” nei primi anni di democrazia e libero mercato sono davvero lontani. Riaffiorano tra i due Paesi diffidenze, paure, luoghi comuni. La Germania ha paura di essere invasa da baffuti disoccupati che bevono vodka, la Polonia vede già i propri terreni agricoli nelle mani di ricchi imprenditori bavaresi.
La bassa tensione ideale che il Cancelliere sta mostrando nei confronti dell’allargamento è paradossalmente la miglior garanzia possibile sul rapido ingresso dei Paesi dell’Est. La popolazione tedesca sta invecchiando a un ritmo tale che la necessità di un certo tipo di manodopera diventerà presto un bisogno disperato. La Germania ha finora mostrato un modo più elegante di tutelare i propri interessi, riconducendoli nell’ambito formale dei negoziati per l’adesione tra candidati e Commissione Ue. Un atteggiamento in apparenza meno politico e pregiudiziale, ma molto più efficace per la tutela dell’interesse nazionale che preme a Berlino non meno di quanto prema a Roma o a Madrid.

   
   
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