Dovremmo avere
il coraggio
di rivisitare non
soltanto il passato, ma anche
e soprattutto
i nostri modi
di concepirlo,
di leggerlo
e interpretarlo.
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Fronte occidentale. Ultimo episodio di una vecchia storia: lAmerica
crede al libero commercio e ne predica lespansione, ma non
esita, se la politica interna lo esige, ad adottare misure protezioniste.
Quando un Presidente chiede al Congresso una procedura durgenza
(una delega per gli accordi commerciali che verranno negoziati nei
mesi seguenti), deve pagare uno scotto ai settori più vulnerabili
e meno efficienti dellindustria americana. Ma nel caso dei
dazi sullacciaio (trenta per cento imposto per proteggere
le industrie siderurgiche delle aree in cui il consenso elettorale
repubblicano è vacillante), la vicenda ha assunto aspetti
inediti.
La Commissione europea ha reagito duramente e ha preso misure difensive.
Fra laltro, a Washington, in un incontro della Trilaterale
(un circolo di riflessione e di discussione fra Europa, America
e Giappone, fondato negli anni Sessanta, in grado di orientare,
se non proprio di condizionare le politiche di sviluppo del mondo),
europei e americani si sono apertamente scontrati. E Robert Zoellick,
responsabile della politica commerciale statunitense, poco dopo
ha esortato i cinesi a non schierarsi con i «running dogs
of european imperialism», con i cani sfrenati dellimperialismo
europeo.
Nella bocca di Mao allepoca della rivoluzione culturale, o
in quella di Pol Pot ai tempi del genocidio cambogiano, la frase
non avrebbe sorpreso. Pronunciata, sia pure con un filo di ironia,
da un ministro dellamministrazione Bush, è indice,
oltre che di un discutibile gusto, di un pessimo clima.
Lo stesso clima che ha consentito a un ex premier israeliano, Benjamin
Netanyahu, di attaccare aspramente lEuropa in una conferenza
nella capitale americana. Giunto negli Stati Uniti per convincere
Bush a non ostacolare le operazioni di Sharon in Palestina, Netanyahu
ha parlato sprezzantemente della politica europea nel Vicino Oriente,
sostenendo che «da governi come questi non si sarebbe aspettato
nulla di diverso». Molti ascoltatori americani hanno annuito.
Quelli dellacciaio e della Palestina sono soltanto due fra
i numerosi temi e problemi sui quali Europa e America hanno visioni
e posizioni contrastanti. Sono divise e lontane anche su alcune
grandi questioni etico-politiche (pena di morte, tribunale penale
internazionale), sugli indirizzi di politica economica e ambientale
(protocollo di Kyoto), sul regime antitrust da applicare alle grandi
fusioni e alle grandi acquisizioni, sui rapporti con lIran,
sullopportunità di unazione militare contro lIraq,
e probabilmente (anche se se ne parla il meno possibile) sui compiti
della forza internazionale a Kabul.
Non manca chi, dietro le quinte, si adopera a ricucire i rapporti
e a ricordare lutilità dellalleanza. Ma lAmerica
di Bush è palesemente diventata, dopo l11 settembre,
unilateralista, brusca, ininfluenzabile. Vale a dire, convinta di
non dover prestare alcuna attenzione ai consigli di nessuno; mentre
lEuropa, dal canto suo, esprime la propria impotenza in alcune
circostanze (le sanzioni proposte contro Israele) con iniziative
velleitarie o avventate. E non solo. Laccordo con la Russia
è una buona cosa, ma modifica la natura della Nato e la priva
in buona parte del suo originario carattere euro-americano. I contrasti
sono inevitabili e forse anche necessari nel momento in cui lUnione
europea vuole giustamente contare più della somma dei suoi
membri. Ma Washington fa orecchio da mercante. Di qui, la crisi
dei rapporti.
Più di sessantanni fa, Churchill e Roosevelt si incontrarono
a bordo di una nave nel mezzo delloceano e firmarono la Carta
Atlantica. Se non vogliamo che quelloceano diventi più
largo, è ora di sottoscriverne unaltra, opportunamente
aggiornata. O lEuropa sarà costretta a fare da sé.
Fronte orientale. Nei secoli che lOccidente considera a torto
bui, la civiltà dellIslam era tra le più
avanzate al mondo, insieme con quella remota cinese
e con laltra in declino indiana. Che cosa è
successo da allora perché lOccidente recuperasse il
terreno perduto, ponendosi ai vertici della ricchezza e dellinfluenza,
e lIslam si vedesse bloccato, attorno alle mura di Vienna
nel 1683, in quella che sembrava una conquista inarrestabile delluniverso
cristiano? Perché, paragonato al rivale millenario, il Cristianesimo,
il mondo dellIslam è diventato povero, ignorante, frustrato?
In ultima analisi, che cosa non ha funzionato nella storia dellIslam?
Secondo uno dei più illustri islamisti contemporanei, Bernard
Lewis, docente a Princeton, i musulmani devono cercare la risposta
in se stessi, nella propria storia e nel proprio atteggiamento nei
confronti del mondo esterno.
La loro religione, di per sé, non fu nemica del progresso:
tantè che ci furono secoli nei quali essa, ancora più
centrale di oggi, non impedì che lIslam fosse «leader
nella libertà, nella scienza, nello sviluppo economico».
Né è sufficiente sostenere che il declino sia frutto
del rifiuto della modernizzazione: in molti campi, lIslam
adottò molte delle innovazioni dellOccidente (per esempio,
in campo militare, dalle armi alle flotte), senza mai raggiungerne
tuttavia lefficienza. Non era certo decisivo chiamare il fratello
di Donizetti a dirigere una banda militare per entrare nellautentica
modernità. Eppure lIslam, paradossalmente, era stato
la prima civiltà a compiere significativi progressi verso
ciò che essa percepiva come la propria missione universale;
solo che fu la moderna civiltà occidentale ad abbracciare
lintero pianeta. Oggi, come riconobbe Atatürk e come
si compiacciono di ricordare gli scienziati di computer indiani
o le società di hi-tech nipponiche, la civilizzazione dominante
è quella occidentale, e perciò gli standard occidentali
definiscono la modernità.
Sono dunque in errore molti ambienti islamici quando indicano le
responsabilità del declino al sorgere del nazionalismo, o
allimperialismo occidentale, o allabbandono della retta
via segnata dallintegrale abbandono del Corano. Per Lewis,
la responsabilità è da ricercare soprattutto in alcuni
atteggiamenti che hanno segnato viceversa lo sviluppo
del mondo cristiano: la mancata separazione tra Chiesa e Stato;
la chiusura verso il mondo esterno. Esemplare il caso del rifiuto,
proprio da parte di quel mondo islamico che era stato allavanguardia
nel campo, di tradurre, fino al XVIII secolo, qualunque testo di
medicina che provenisse dallOvest. Lo stesso si può
dire per tante altre espressioni della cultura e del sapere occidentali:
a partire dalla letteratura, in Paesi che di fatto impedirono per
secoli la stampa, ossia la più formidabile arma per il rinnovamento
della società e per lesplosione della civiltà
occidentale; fino alle arti figurative, segnate anchesse dal
rifiuto di adottare, per esempio, le tecniche della prospettiva
che denotano quello di convertirsi alle tecniche europee di misurazione
(e quindi di valutazione) del tempo e dello spazio.
Se Lewis non basta, si scorrano le pagine di un recente, bellissimo
romanzo del turco Orhan Pamuk, che ricostruisce nellIstanbul
del 1591 le deviazioni e i fanatismi di una casta pronta a uccidere
pur di impedire, appunto, alla peccaminosa tecnica della prospettiva,
proveniente da Venezia, di modificare il canone delle miniature
islamiche, stupende ma estenuate. «E principalmente
la mancanza di libertà la libertà della mente
dalla coercizione e dallindottrinamento; la libertà
delleconomia dalla corruzione; la libertà delle donne
dalloppressione maschile; la libertà dei cittadini
dalla tirannia» che spiega i guai dellIslam: dai quali
i popoli del Vicino Oriente devono uscire al più presto
avverte Lewis per sfuggire «a una spirale di odio e
risentimento, di rabbia e autocommiserazione, di povertà
e oppressione», che ha fiaccato la millenaria grandezza di
questa civiltà, e lha allontanata, frapponendovi deserti
senza vita, dallEuropa.
Fronte centrale. Cè chi sospetta che io non ami lEuropa.
In realtà, io non ho molta considerazione per questEuropa
dimezzata al modo del visconte di Calvino, soltanto maastrichtiana,
tutta esercizi finanziari e protezionismi occulti, e poco o punto
fondata sulle sue grandi e profonde radici culturali, che pure hanno
illuminato il mondo.
Non mi fido di unUnione che falsifica parmigiani, intenerisce
spaghetti, adultera vini, e aggira norme per sopraffare le economie
mediterranee a vantaggio di quelle continentali, o crea assi preferenziali,
con esclusioni premeditate, o ricorre a ipocriti maquillage su bilanci
e inflazione, discrimina nel campo della moneta unica, vota a maggioranza
assoluta, parla molte lingue allinterno e oltre i confini,
amplia i poteri della Bundesbank che poi chiama paradossalmente
Banca centrale europea, è condizionata in ogni atto rilevante
dal mal francese, dal pendolarismo britannico o dalla tracotanza
teutonica, e persino dai lampi dimbecillità del più
artificiale dei Paesi europei, quello belga.
Non avendo saputo essere né una Federazione né una
Confederazione, giustamente quella europea è stata chiamata
Unione, nel segno di una precarietà che simultaneamente prelude
alla necessità di stare insieme per contare qualcosa e un
po per non morire, e alla prospettiva della crisi, una qualsiasi
crisi prossima ventura. Un ircocervo, questEuropa, frutto
degli egoismi nazionali cuciti, e sarebbe meglio dire rattoppati,
con una defatigante attività diplomatica tutta ragione e
niente cuore, cioè tutta numeri e niente passione. Tutta
criteri economici e niente sostrato civile e culturale. E
lEuropa migliore, è vero, che ci poteva consegnare
la sua storia, non saprei dire se più grande o più
tragica del secolo appena trascorso. Unalgida Europa che trattiene,
senza cementarle e fonderle, quindici Europe ancora minate dallindistruttibile
demone dellegemonia.
Larco temporale 1905-1956 ha costituito il cuore di un processo
assai più lungo, che si può far iniziare col fatidico
1789, quando nel contesto degli Stati europei si incardinò
la ferrea realtà dello Stato nazionale, che venne
a mano a mano scalzando il vecchio equilibrio continentale risalente
alla pace di Westfalia del 1648 e teorizzato da Ranke, per approdare
alla crisi fatale di guerre e rivoluzioni che caratterizzò
la prima metà del Novecento e ritrovare poi, nella seconda
metà, il bandolo grazie al quale ricostruire larmonia
perduta.
Dalla lunga durata non può prescindere neanche lo storico
politico, quando abbraccia lo svolgimento dei fenomeni da diversi
angoli visuali, sociali, economici, istituzionali.
La grande trasformazione, che si realizzò in Europa fin dal
secolo XIX, investì infatti tanto lo Stato quanto la società,
ed ebbe la sua chiave di volta nellidea di nazione,
che si convertì in ideologia di potenza e si trasformò
in principio etnico, richiedendo una omogeneizzazione molto complessa
della sua realtà sociale.
Alcuni storici (come Andrea Graziosi) parlano di «neomercantilismo»
e di «nazionalizzazione delle masse» come fattori contigui
di un identico processo. Contigui, ma non necessariamente convergenti:
dal decorso delluno può generarsi la guerra,
da quello dellaltro la rivoluzione, e i due processi
si trovano inestricabilmente intrecciati nei rapporti tra gli Stati-nazione
e in quelli allinterno di essi.
Da questi presupposti escono modificati sia la cronologia sia il
rilievo storico degli eventi. La Prima guerra mondiale risulta necessariamente
il punto di precipitazione di questi processi. Guerra atroce, per
il numero di caduti, mutilati, gasati, feriti da tutti i versanti
dei suoi numerosi fronti, per il nesso nuovo, mai fino a quel punto
sperimentato, tra organizzazione e tecnologia, per la brutalità
usata sulle popolazioni civili, in cui è implicito quasi
tutto ciò che avverrà nel Secondo conflitto mondiale,
in cui luso della violenza tra le linee, nelle linee, fuori
dalle linee, sembra non avere quasi confini. Guerra nella quale
si sperimenta un grado di dominio dello Stato sulla società,
mai prima concepito, nellorganizzazione economica e produttiva,
negli strumenti di propaganda, nella spersonalizzazione degli individui.
La macchina dello Stato ne esce più forte, disposta a nuovi
esperimenti, mentre la civilisation, che nel primo decennio
del Novecento sembrava aver toccato il suo apice, si rivela «una
sottile pellicola, fragile, sopra un fondo di barbarie» che,
come ha notato Aron, a sua volta viene a sostituirsi ad essa come
«un fondo permanente e più ancora inveterato».
Una guerra, dunque, che porta lEuropa a una condizione di
arretramento in cui inoltre nessuna delle cause che lavevano
determinata è stata rimossa. Il Trattato di Versailles è
testimonianza massima di questa cecità. Ma soprattutto, sono
i fenomeni stessi prodotti dalla guerra a generare, nel ventennio
seguente, il secondo atto della tragedia europea. Il principio dellautodeterminazione,
bandiera del wilsonismo, straccia il tessuto dellEuropa centro-orientale,
mosaico complesso di nazionalità diverse, conviventi da secoli
sugli stessi territori. Un processo che non si chiuderà neppure
con il 1945 e che vedrà ancora, fin verso il 1950, migrazioni
di popoli, tedeschi, ucraini, polacchi, baltici, russi, italiani,
con la definitiva scomparsa della Mitteleuropa, lasciando in vita
ancora due realtà multietniche, la Russia sovietica e la
Jugoslavia titina, che hanno fatto buon ultime i conti con questi
problemi.
A questo primato conferito al nazionalismo, come motore
del secolo scorso, vanno ricondotti i grandi fenomeni totalitari
dai caratteri eminentemente ideologici, cioè astratti, ma
che a differenza di altri, nella storia, si sono incarnati in esperienze
reali e ferocemente conflittuali, che portarono allo
sfarinamento del Vecchio Continente. Fino al giorno in cui la Patarina,
la campana del Campidoglio, annunciò che dai lutti e dalle
macerie ancora fumanti era sorta lEuropa dei Sei, nocciolo
nucleare (voluto da eccelsi spiriti) di quella che idealmente era
immaginata come la Patria europea, e che via via è
diventata soltanto somma di patrie tedesche, francesi, italiane...,
che più che fondersi, confinano; e spesso, più che
confinare, si fronteggiano.
Non è il migliore dei mondi possibili. Eppure, è
il nostro mondo. Di qua e di là, in Occidente come in Oriente,
non essendoci altri modelli di società mature ma aperte,
che non siano tentate da risacche isolazioniste (gli Stati Uniti)
o da spirito di rivalsa (luniverso islamico). O che non contrappongano
neoimperialismi economici a teocrazie totalizzanti, gli uni e le
altre inficianti le spinte di orchestrazione culturale che sono
alla base (o che dovrebbero essere alla base) della mutazione del
Vecchio Continente da mosaico di Patrie ad ununica Patria.
E questa non è utopia. Molto probabilmente a proposito
dovremmo avere il coraggio di rivisitare di tanto in tanto
non soltanto il passato, ma anche e soprattutto i nostri modi di
concepirlo, di leggerlo e interpretarlo.
Tanto per fare un esempio: perché il Medio Evo dovrebbe terminare
(e la modernità cominciare) nel 1492? Daccordo:
tutti siamo convinti che qualunque forma di periodizzazione è
convenzionale, più che altro simbolica. Ma anche i simboli
hanno una loro forza. In quellanno Colombo sbarcò nel
Nuovo Mondo, ma a lungo si ritenne che fosse arrivato in una qualche
parte della costa dellAsia. Ci vollero una buona ventina di
anni, prima che ci si rendesse conto di quanto la nuova scoperta
avesse cambiato lo stato delle cose. Anche la morte del Magnifico
Lorenzo e la conquista cristiana di Granada, accaduti nello stesso
fatale 1492, hanno un valore simbolico discutibile:
nessuno di questi accadimenti cambiò le cose sul serio.
Che per davvero si stesse entrando nelletà nuova lo
si capì verso il biennio 1516-1517. Limpero turco,
che aveva già fagocitato quello bizantino, incamerò
anche limpero egiziano. Intanto, proprio nel 1517 Martin Lutero
definì a Wittenberg le basi per la Riforma della Chiesa:
da allora si spaccò la Cristianità e si avviò
con estrema chiarezza il processo di laicizzazione del potere.
Lanno precedente, nel 1516, Tommaso Moro più
tardi martire della fede cattolica aveva scritto il suo trattato
sullUtopia: il regno perfetto di tutte le virtù umane,
il regno nel quale gli uomini agiscono come se il peccato originale
non li avesse toccati. Ma si trattava di un regno minacciato da
due limiti.
Primo limite: era ou topos, non-luogo, il posto che non cè,
al modo dellisola di Peter Pan. Secondo limite: se esistesse,
vanificando il peccato come conseguenza del Peccato Originale, vanificherebbe
anche la Redenzione. Una virtù fondata secondo la Ragione
e la Natura rende inutile la testimonianza cristiana, quindi Cristo
stesso. Il che, se era ovvio allinterno del Grande Modello
di Tommaso Moro, cioè di Platone, era tragico per la società
del XVI secolo.
LUtopia fonda la modernità pretendendo che la perfezione
possa essere conseguita facendo a meno della Rivelazione. Noi sappiamo
tuttavia che tutti gli esperimenti fondati nella pretesa del conseguimento
della perfezione altro non hanno mai prodotto, quando hanno tentato
di realizzarsi, se non sistemi in qualche modo (gerarchico o livellatore)
liberticidi. Quel che si è andato in effetti disegnando,
da Campanella a Orwell, è stata la trospettiva totalitaria.
Fino ad oggi, peraltro, le intenzioni degli utopisti sono state
gratificate del riconoscimento di una loro intrinseca eticità.
I rovinosi risultati di alcune utopie delle quali si è tentata
la realizzazione sono stati spesso considerati con indulgenza alla
luce della bontà delle intenzioni, o della presunzione che
le intenzioni fossero per definizione buone: e non, al contrario,
intenzioni deliberatamente false, e pertanto parte integrante di
metodi e di obiettivi che hanno condotto al fallimento, con macerie
fisiche, psicologiche, economiche e politiche conseguenti.
Allora: la globalizzazione è unutopia totalizzante?
Lespansione di una teocrazia (anche con il ricorso alla dialettica
delle armi) è unutopia totalizzante? E lEuropa
può essere lantidoto preventivo a queste utopie che,
se perseguite e realizzate con determinazione, possono preludere
a ricorsi storici dagli esiti tuttavia imprevedibili?
Sono domande che sottendono una profonda riflessione sui significati
portanti, costitutivi della nostra cultura, della nostra civiltà,
del nostro codice genetico emerso dalle esperienze maceranti della
tradizione continentale. Che sono esperienze intrise di sangue da
guerre civili, certamente; ma anche di portati umanistici, etici,
scientifici, che nessun ou topos può sfarinare, reclutandoli
nominalisticamente fra i sacchi di carbone, vuoti neri
tra le galassie remote dal concreto globo terracqueo. Domande, dunque,
che reclamano risposte decisive. E condivise.
Cè una solitudine oggettiva dellEuropa, che
sembra accompagnarsi a un irriducibile anacronismo. Fra tutte le
civiltà avvicendatesi nel pianeta dalla nascita della
Storia, quella europea è stata senza dubbio lunica
forte: per idealità etica, per tendenziale universalità,
per complessità culturale, per organizzazione civile, per
libertà di pensiero politico e religioso, e via dicendo.
Ma lepoca attuale, della cosiddetta post-modernità,
è contrassegnata dalla caduta di tutti i modelli forti,
a partire dalla logica dei saperi. Nel 1976 due pensatori francesi,
Deleuze e Guattari, pubblicarono un piccolo pamphlet, in cui al
grande principio classico degli alberi-radici, cioè
dei sistemi concettuali verticali, bisognosi di un saldo
fondamento, veniva opposto il principio del rizoma,
ossia di una vegetalità orizzontale, di un «sistema
acentrico, non gerarchico, senza automa centrale, unicamente definito
da una circolazione di Stati». Il pensiero a sviluppo orizzontale,
senza fondamento e alberatura, debole, anarchico, frammentario,
oggi pare avanzare dovunque. Economia e politica, scienza e arte,
costume e diritto, ne sono conquistati. Siffatta debolezza
è la forza vincente dei nostri giorni.
Qui non si tratta di pronunziare giudizi di valore, né di
parteggiare acriticamente. Occorre osservare e riflettere da neutrali
per capire: come cancellare lanacronismo e la solitudine del
Vecchio Continente? Convertendo la tipologia di soggetto forte
in quella di soggetto debole, e con il ridotto rigore
delle forme omologando allattualità listituzione,
quasi a renderla più competitiva sullo scacchiere
planetario? Oppure accentuando la tipologia della forza
e puntando al fascino trainante di unUnione che può
anche stare dentro la globalizzazione, non fosse altro che per umanizzarla,
sottraendole le sorti dellintero mondo delluomo?
Nel primo caso, attenuate troppo le forme, si rischia di perdere
listituzione nellinforme. Nel secondo, accentuandole
eccessivamente, listituzione corre il pericolo di finire nella
maniacalità del formalismo.
Tertium datur? Risponderà la politica, arte del possibile.
A noi, fragili dubbiosi uomini stradali, restando solo lenigmatico
dialogo con adorabili parole di Isaia: Guardia, che notizie
dalla notte? . E la vedetta: Shomèr-mamillàilah!
. «Viene il mattino e anche la notte!». La luce
aggavignata alla tenebra. E insieme con noi ribolle un oceano di
interroganti...
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