Di fronte al Mezzogiorno dItalia, uno scacchiere instabile,
quello del Vicino Oriente, e un territorio continentale lacerato
da malattie, corruzione, violenza tribale, con un unico nemico:
se stesso. Ciò condiziona fortemente lo sviluppo delle relazioni
fra lEuropa mediterranea e le finestre di fronte,
mentre lalibi della colonizzazione non è più
credibile come alibi alla povertà e allarretratezza
di centinaia di milioni di persone.
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Il discredito che colpisce gli africani non ha leguale nella
storia contemporanea dellumanità. Durante i secoli
della tratta dei negri, eravamo senza alcun dubbio delle vittime.
Oggi siamo noi stessi i principali becchini del nostro presente
e del nostro futuro.
Alla fine dellera coloniale disponevamo di apparati statali
certo embrionali, ma che avevano il grande merito di assolvere efficacemente
i compiti elementari che erano stati loro affidati: sicurezza, sanità
pubblica, sistema scolastico nazionale, manutenzione delle vie di
comunicazione. Oggi, nella maggior parte dei nostri Paesi, gli Stati
sono liquefatti: le guardie pretoriane e le milizie politico-etniche
hanno soppiantato lesercito, la polizia e la gendarmeria si
sono ridotte a ombra di se stesse. Linsicurezza è generalizzata,
le nostre strade e le vie delle nostre città sono ridotte
alla condizione di bassifondi.
La tragedia dellAids ci ricorda drammaticamente che con amministrazioni
efficienti e responsabili avremmo potuto arginare questo flagello
nella fase iniziale. Invece più di venti milioni di africani,
in maggioranza giovani e quadri altamente addestrati, sono già
stati strappati alla vita, vittime delle tergiversazioni dei nostri
Stati e di un clima sociale deleterio e frivolo in cui si è
dissolto il senso della responsabilità individuale e collettiva.
Le crisi politico-militari e le violenze di ogni specie, limpoverimento
degli Stati presi in ostaggio da consorterie predatrici, la propensione
dei dirigenti a preoccuparsi essenzialmente della loro sicurezza
e dei mezzi per conservare il potere: tutto ciò ha condotto
un po dappertutto al naufragio di un settore così decisivo
per il presente e il futuro come quello dellistruzione.
Linsicurezza e il disordine generalizzato, la criminalizzazione
strisciante di Stati sempre più controllati da sistemi mafiosi,
le goffaggini amministrative e lassenza di regole trasparenti
tutti fenomeni generati da una corruzione endemica
fanno sì che gli investitori privati non si affollino certo
alle nostre porte. E anche i donatori pubblici ci considerano ormai
pozzi senza fondo e casi di accanimento terapeutico.
Più di quarantanni dopo londata indipendentista
degli anni Sessanta, non possiamo più continuare a imputare
la responsabilità esclusiva delle nostre disgrazie al colonialismo,
al neocolonialismo delle grandi potenze, ai bianchi, agli uomini
daffari stranieri, a chi più ne ha più ne metta.
Occorre che accettiamo finalmente la realtà: i principali
colpevoli siamo noi.
Lo slittamento dei nostri Paesi verso la violenza, il lassismo nella
gestione degli affari pubblici, il saccheggio su grande scala, il
rifiuto del riconoscimento reciproco da parte di etnie e regioni:
tutto questo ha cause prevalentemente endogene. Ammetterlo sarà
il punto di partenza della presa di coscienza, e dunque della saggezza.
Mi si potrà obiettare che questo significa liquidare troppo
facilmente le responsabilità del mondo esterno. Ma sono quarantanni
che non facciamo altro (soprattutto noi, gli intellettuali) che
lanciare accuse di questo tipo. Il problema è che oggi gli
accusati non prestano più la minima attenzione alle nostre
requisitorie, le quali, sia detto per inciso, sono discretamente
invecchiate, perché il mondo di cui parliamo non è
più il loro.
Al di là del Mediterraneo e dellAtlantico, le nostre
lamentele, il nostro gesticolare non interessano più a nessuno.
La mia paura è in verità che ci stiamo sbagliando
di pianeta. Dopo la fine del conflitto ideologico tra Est e Ovest,
gli africani non costituiscono più una posta da guadagnare
o da perdere, perché non pesano più nella nuova competizione,
quella della conquista di mercati in espansione. L1,5 per
cento degli scambi commerciali mondiali (e il 40 per cento di questo
1,5% riguarda il Paese di Mandela): ecco ciò che rappresenta
lAfrica subsahariana sul nuovo scacchiere del nostro pianeta.
In altre parole, noi non siamo niente, e non abbiamo voce in capitolo.
Non è difficile rendersene conto, per poco che si presti
attenzione alle preoccupazioni dei grandi decisori, ai flussi commerciali
e ai centri dinteresse dei media.
In questo inizio del terzo millennio, esiste dunque per noi unurgenza
assoluta: è indispensabile che riflettiamo su che cosa noi,
in prima persona, dobbiamo fare per voltare le spalle alla logica
dellautodistruzione, per tentare di reinserirci nelleconomia
mondiale e per cercare ad ogni costo di farla finita con la marginalizzazione.
Il primo segno che attendono da noi i rari uomini di buona volontà
che si esprimono ancora in favore dellAfrica è che
cominciamo finalmente a denunciare la radice della malattia africana:
noi stessi, in altre parole i nostri dirigenti, le nostre élites,
e anche le nostre popolazioni, la cui rassegnazione talvolta disarmante
lascia il campo libero ai signori della guerra e offre un margine
di manovra ai governi tribalisti e prevaricatori. Un principio di
visibilità della nostra presa di coscienza deporrebbe a nostro
favore e incoraggerebbe coloro i quali ritengono che non è
ragionevole cancellare dal gioco mondiale più di 700 milioni
di africani subsahariani.
In questo consiste infatti laltra faccia del dibattito sullAfrica:
nel senso che bisogna dare allafro-pessimismo radicale. Col
pretesto che esistono impedimenti che sono alimentati dagli stessi
africani, e che creano problemi apparentemente insolubili, il punto
di vista sempre più diffuso nei Paesi sviluppati è
che si deve ignorare una volta per tutte il Continente Nero, rivelatosi
congenitamente incapace di farsi carico di se stesso. Dunque, basta
con lAfrica, essa è perduta per lo sviluppo, a tal
punto che diventa problematica persino lassistenza umanitaria,
lunica cosa che sia ancora possibile fare nel nostro Continente.
Incredibile miopia! LAfrica è contigua allEuropa:
lo Stretto di Gibilterra misura una quindicina di chilometri, e
circa duecento chilometri separano il Capo Bon dalla Sicilia. La
decomposizione di un Continente così vicino non può
non porre dei problemi a nord del Mediterraneo. L11 settembre
2001 ci insegna che linterdipendenza è più che
mai la regola sul nostro pianeta, e che i problemi sono molto più
condivisi di quanto generalmente si pensi. Non esistono più
compartimenti stagni.
In occasione del vertice che ha organizzato a Dakar il 17 ottobre
dello scorso anno, e che purtroppo non ha mobilitato molti dirigenti
africani, il presidente Aboulaye Wade ha osservato, con una formula
azzeccatissima, che lAfrica è diventata un grande imbuto
attraverso il quale passa ogni sorta di traffici illeciti. Basta
osservare la sicurezza nei nostri aeroporti e alle nostre
frontiere terrestri e marittime, la facilità con cui stranieri
poco raccomandabili possono procurarsi i nostri passaporti diplomatici,
accompagnati da valigie altrettanto diplomatiche che
servono a far transitare sottobanco diamanti, oro, valuta (anche
falsa), droga e ogni specie di refurtiva.
Dunque, nulla da obiettare, quando i nostri amici francesi ci interpellano
con franchezza sullo sgretolamento dei nostri Paesi, di cui siamo
i principali responsabili. E bene che non abbiamo paura di
dirci la verità in faccia. Il complesso del colonizzatore
non ha più ragion dessere: lamicizia deve ormai
nutrirsi di verità, comprese le verità sgradevoli.
I peggiori per noi sono quelli che giocano a lisciarci il pelo.
La pacca sulla spalla è certamente un gesto amichevole, a
condizione però che non ci rafforzi nellidea infantile
secondo la quale siamo le gentili e innocenti vittime di un complotto
internazionale contro lAfrica. Non devono adularci. Quanto
a noi, guadagneremo in credibilità a partire dal momento
in cui saremo capaci di guardarci allo specchio, riconoscendo finalmente
che tutto quel che ci accade è innanzitutto colpa nostra.
Saremo allora più credibili, quando diremo a tutti coloro
che considerano lAfrica un Continente perduto che hanno torto.
Essa è sicuramente in panne, ma decretare la sua definitiva
uscita di scena non risolve alcun problema. Tra la condiscendenza,
che significa disprezzo e riduzione a uno stato infantile, e labbandono
mascherato, che è una forma della politica dello struzzo,
cè posto per un esame responsabile della crisi africana.
Un esame del genere non può non cominciare che prendendo
le distanze dai luoghi comuni, e in particolare dalle generalizzazioni
frettolose e dalle conclusioni radicali.
LAfrica è un continente. E il primo, elementare
punto che occorre ricordare. Su cinquantatré Stati, ce ne
devono pur essere due, tre o quattro disposti a imboccare la via
della serietà. Soltanto unosservazione attenta e non
dogmatica permetterà di individuarli. E una volta trovatili,
linteresse dellAfrica, dellEuropa e del mondo
esige che siano risolutamente sostenuti, rinunciando a quella politica
dei finanziamenti a pioggia che non ha mai avviato un ciclo di sviluppo.
Un appoggio deciso e massiccio accordato a Paesi che abbiano chiaramente
manifestato la loro volontà di uscire dallimpasse mediante
la serietà e il lavoro duro servirebbe da contro-esempio
per i cattivi amministratori.
E daltronde ciò che aveva preconizzato il presidente
francese in occasione del XVI vertice che nel 1990 riunì
i capi di Stato africani e quello francese. Non bisogna cadere nella
trappola della concentrazione dellattenzione sui soli signori
della guerra. Oggi, infatti, per attirare gli occhi della comunità
internazionale non è meglio essere un capo ribelle o un presidente
sovvertitore, che non un amministratore serio e discreto?
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