Temibile,
il dilemma:
lEuropa diventerà una specie di super Svizzera o aspira
a diventare una
potenza, con unica
politica estera
e unica politica
di difesa?
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Erano in molti ad attendersi che, con lavvento della globalizzazione,
in Europa si sarebbe affermato uno spirito di sovranazionalità:
di fronte alla concorrenza non soltanto di natura economico-finanziaria
di potenze vittoriose (come gli Stati Uniti), o in fase di riorganizzazione
dopo le rottamazioni ideologiche (come lex Unione Sovietica),
o in crescita potenziale (lIndia, la Cina), il Vecchio Continente
non avrebbe potuto che scegliere la via della più stretta
coesione; e questa avrebbe dovuto passare necessariamente attraverso
la cessione di quote di sovranità legislativa ad organismi
non nazionali, ma, appunto, continentali. Era stato questo il patto
nucleare dellEuropa dei Sei, che emerse da una constatazione
elementare: gli orrori causati dal potere assoluto degli Stati-nazione
andavano superati in virtù di una limitazione di quei poteri
e di una progressiva delega di sovranità agli organi comuni,
e superiori, di governo economico e politico. Ciò era reso
possibile da una duplice strategia: della memoria, sulla quale fondare
un sistema di valori condivisi; dellautodisciplina, da attuare
col ricorso sistematico, anche se parziale, alla sovranazionalità.
A mano a mano che si definiva la posta in gioco della guerra fredda
Ovest-Est, il patto costitutivo dellEuropa comunitaria si
caratterizzava per un triplice ripudio: del nazionalismo nazifascista,
del totalitarismo marxista, delle dominazioni coloniali. In altri
termini, la formula del diniego, prevalendo su quella affermativa,
diventava consustanziale al processo di costruzione europea. Lidea
di pacifica convivenza allinterno dei Sei, la forza centripeta
esercitata sul resto dEuropa, lesportazione del modello
oltre i confini continentali, erano fondate su questo invalicabile
non possumus riaffermato in Campidoglio, col Trattato di Roma.
A questo ordine di cose si erano assoggettati i Paesi che avevano
vinto o perso il secondo conflitto mondiale. Ma si erano piegate
soprattutto le nemiche totali di sempre, Francia e Germania. La
Francia aveva deciso di mettere una pietra sopra la violazione del
principio di convivenza, della propria integrità territoriale,
dei diritti delluomo. La Germania aveva scelto di non recriminare
sulle distruzioni vendicative di Dresda e di Colonia, oltre che
sul punto più doloroso del dopoguerra: la deportazione di
dieci milioni di tedeschi dai territori recuperati dai sovietici,
dai polacchi, dai cecoslovacchi. Di questi dieci milioni, (di civili,
si badi bene, non di militari), ben due milioni erano stati uccisi
in modo brutale.
In centinaia di migliaia i tedeschi del Volga, dapprima nel 41,
poi nel 45-46, erano stati deportati in Siberia e nellAsia
centrale; quelli scacciati dalla Polonia erano stati oltre sei milioni;
quelli espulsi dalla Cecoslovacchia tre milioni e mezzo; dallUngheria
e dalla Slovenia, centomila. Avevano trovato così applicazione
spietata i famosi Decreti Benes, vale a dire le 143
leggi che nel 45-46 erano state volute dal presidente
cecoslovacco per regolare la questione dei Sudeti.
Decreti di cui si è tornato a parlare anche ai nostri giorni:
da parte di Praga, per uniniziativa nazionalista che non ha
ragion dessere, dopo le generose aperture di Vaclav Havel,
e soprattutto alla vigilia dellingresso della Repubblica Ceca
in Europa; e da parte della Baviera, dellAustria e dellUngheria,
che furono nazionalità punite con una politica brutale di
deportazioni, di spoliazioni e di privazioni di diritti.
Coniugando simultaneamente memoria e oblio, lEuropa dei Sei
aveva cercato di superare il Male prodotto dai miti delle razze
e dei confini inviolabili. Fino al giorno della caduta del Muro
di Berlino, quando fu evidente che la sconfitta del totalitarismo
marxista non venne vissuta né amministrata politicamente
al modo della sconfitta del nazifascismo. La divaricazione ha poi
finito col compromettere lidea dEuropa voluta dai Padri
Fondatori. I nuovi arrivati, infatti, non ritengono di dover rimettere
in questione il loro bagaglio nazionale. Difendono lordine
di Yalta, e dunque quello post-bellico, che hanno appreso nelle
scuole di partito, avvelenando con insipienza le relazioni tra i
popoli e mettendo a rischio il principio della sovranazionalità
come diniego e superamento del pensiero nazional-totalitario e dei
suoi orrori di ieri.
Allargare lUnione europea ai Paesi dellEst, in una situazione
come questa, comporta non poche preoccupazioni. Non a caso cè
chi ricorda che proprio dalla Mitteleuropa sono partite nel secolo
scorso due guerre mondiali. Qui si concentrava, e sembra tornare
a concentrarsi, il maggior numero di sussulti nervosi e di atteggiamenti
contraddittori. Qui le nazionalità confliggono in nome di
una memoria che sintomaticamente non è temperata o riassorbita
dalloblio.
E una risacca che globalizza soltanto linstabilità.
Se negli anni Trenta il groviglio dei problemi era individuato nelle
clausole di Versailles, oggi il nodo gordiano è identificato
ancora una volta in un Trattato internazionale, quello di Potsdam.
Nel primo caso, con conseguenze nefaste per lEuropa delle
Nazioni; oggi, per lEuropa allargata.
Chi, in modo palese o carsico, continua a riproporre discriminazioni
verso popolazioni europee diverse, è fuori dagli ordinamenti
giuridici, dalle consuetudini e dallesemplarità etica
dellUnione europea. E bene tenerlo presente, in vista
delle decisioni da prendere nel non lontano 2004.
Ciò non toglie che, come sostiene il presidente dellIstituto
universitario europeo di Firenze, Yves Mény, lEuropa
possa esimersi dal disegnare un certo numero di confini, cinque
per lesattezza, nellambito di una Comunità allargata
e, possibilmente, più forte. Lobiettivo della politica
democratica, infatti, può essere definito come quello di
tracciare linee di demarcazione, affinché ciascuno possa
compiere le proprie scelte in funzione di opzioni più o meno
radicali. Al contrario, la caratteristica dei sistemi non democratici
(a prescindere dalla loro natura) è proprio lassenza
o il rifiuto delle divergenze interne. Questo meccanismo di inclusione/esclusione,
sottolinea Mény, funziona con altrettanta chiarezza sia nelle
tribù primitive sia nelle monarchie assolute e nelle dittature.
La politica democratica è invece larte di costruire
frontiere che polarizzano le opinioni e le scelte: uno degli esempi
più semplici e noti è la frattura sinistra/destra,
ma le linee di divisione che attraversano le democrazie (e che spesso
si sovrappongono in maniera molto complessa) sono multiple: religioso/laico/borghese/proletario,
urbano/rurale, centro/periferia, interventisti/liberali.
Comunque, per il futuro di unUnione europea saldamente consolidata,
a quindici, o venticinque o addirittura ventisette partners, i confini
prevedibili (auspicabili) sono:
1) Completare leliminazione delle frontiere interne e creare,
invece, frontiere esterne. Labbattimento delle frontiere interne
è stato un obiettivo sempre dichiarato (e solo parzialmente
realizzato). Occorre fare qualcosa di più. Per chiarire:
la mobilità dei fattori produttivi è quasi totale,
eccetto che per quei cittadini che si scontrano tuttora con parecchi
ostacoli pratici nella vita quotidiana di europei (sistemi di protezione
sociale, regimi fiscali, pensioni, ecc.). Ma è opportuno
sopprimere anche le barriere interne legate ai sistemi di valori,
alle culture nazionali o locali? In questo campo, è bene
diffidare di tutte le forme di giacobinismo giuridico e politico,
sia per motivi empirici (un Paese integrato come gli USA dimostra
che questo processo non è incompatibile con una diversità/eterogeneità
anche superiore rispetto a quella che esiste in Europa), sia per
ragioni normative (la diversità/diversificazione costituisce
lo stimolo migliore per la competizione e per il criterio di valutazione
ideale).
2) Affrontare la questione dei confini esterni. Per ora, lUnione
è una sorta di open-ended process che richiama alla memoria
quanto è accaduto negli Stati Uniti, che spinsero progressivamente
le loro frontiere fino al Pacifico (lepopea del West durò
più o meno ventanni), ma furono fermati a nord e a
sud dal Canada e dal Messico. Visto che il grande allargamento
dellUnione sembra entrato nelle fasi finali, è il momento
di porsi la domanda: Whats next? Che cosa accadrà
dopo? LUnione sarà in grado di reggere dimensioni così
grandi? E su quali basi, su quali criteri saranno definiti i confini
futuri: di unEuropa storica, o geografica, oppure concepita
come puro spazio economico o come progetto politico?
3) Altro tipo di frontiera, molto delicato, quello che separa le
competenze dellUnione da quelle degli Stati membri. Quelle
comunitarie sono eccezionali e limitate a pochi settori (ad esempio,
la pesca); quelle degli Stati sono ancora esclusive (difesa, politica
estera, politica fiscale, istruzione, politiche sociali...), e ogni
atto volto a limitarle è visto come unespropriazione,
con conseguenti venti di fronda, inizialmente da parte dei Länder
tedeschi, poi da parte dei diversi Stati, non ultimo quello italiano.
Il dibattito è legittimo e aperto, ma ad una conclusione
si dovrà gradualmente pervenire.
4) Affrontare il problema delle relazioni tra democrazia e mercato.
Come ha notato Altwater, «se la massima espressione della
razionalità economica è la deregulation, la massima
espressione della razionalità politica è la regolamentazione»:
sarà quindi necessario definire i limiti e le sfere di influenza
reciproca. Qual è la parte che deve rimanere affidata alla
politica, ai cittadini, al voto, alle scelte ideologiche, ai valori
non commerciali? E quale al mercato, ai produttori, ai consumatori
e ai regolatori non politici?
5) Separare affari interni ed esterni. Nella prima versione della
Comunità, gli Stati membri avevano mantenuto integralmente
le prerogative esterne, tranne che in materia di commercio. In compenso,
avevano ceduto numerosi elementi di sovranità, soprattutto
in materia economica, mantenendo un nocciolo duro di Stato (polizia,
sicurezza, giustizia, moneta). Dopo mezzo secolo, le carte si sono
rimescolate: quel che consideravamo interno (ad esempio,
limmigrazione) tende a diventare esterno; e viceversa (come
nel caso di una minaccia a un singolo Paese o un cambiamento politico
radicale in unarea nazionale). Anche in questo campo vanno
definiti i nuovi orizzonti dellUnione: lEuropa sarà
simile alla Germania degli anni Sessanta, «un gigante economico,
ma un nano politico», con la conseguenza che le politiche
estera e di difesa sarebbero al più coordinate, ma di fatto
appannaggio dei singoli Stati? Cioè: diventerà una
specie di super Svizzera? O aspira a diventare una potenza,
con unica politica estera e unica politica di difesa? Temibile dilemma.
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