Quella attuale
è uneconomia
che ha esaltato
la globalizzazione
e che ora si trova di fronte a forti spinte per la difesa
dei mercati e delle
identità nazionali.
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Quella che stiamo vivendo è
uneconomia che è diventata sempre di più, non
soltanto per leffetto 11 settembre, uneconomia dellincertezza,
ma ancora di più dellirrazionalità. Uneconomia
che ha esaltato la globalizzazione e che ora si trova di fronte a
forti spinte per la difesa dei mercati e delle identità nazionali.
Uneconomia che ha visto diradarsi le prospettive di crescita
e che è costretta a riscoprire il difficile sentiero di una
competizione sempre più aspra. Il giro di boa del millennio
sembra aver consumato in un battito dali le vecchie regole e
i vecchi modelli. Ma ha anche dimostrato il pericolo delle nuove illusioni.
L11 settembre ha reso tragicamente evidente la fragilità
globale del sistema politico ed economico. Ma già nella seconda
metà del 2000 si erano raccolte le briciole della bolla speculativa
della new economy, e dalla fine degli anni Novanta la crisi delle
economie asiatiche e della Russia aveva spezzato la speranza in una
crescita senza frenate e senza confini. E così che il
mondo, come è messo in risalto dal Settimo Rapporto sullEconomia
Globale del Centro Einaudi-Lazard, non scoppia certamente di
salute.
E giusto parlare ancora di una fase di economia dellemergenza?
Oppure limmagine degli attentati alle Twin Towers si va sfocando,
per lasciare spazio a un lento ritorno alla normalità? «Dallemergenza
stiamo uscendo, sempre che non intervengano altri fatti politici»,
risponde Mario Deaglio, economista e autore del Rapporto, intitolato
Economia senza cittadini?. Ma le incognite sono ancora
molte, emergono segni di stanchezza da parte dei consumatori e «la
fiducia non si traduce in veri progetti di spesa».
Alcuni meccanismi del sistema economico globale degli anni Novanta
risultano incrinati da fatti non direttamente correlati con la situazione
di emergenza: pesa la situazione argentina, mentre la crisi della
Enron ha colpito al cuore la credibilità del sistema contabile
delle grandi imprese e ha segnato «una sorta di sconfitta
morale del capitalismo finanziario americano».
E lItalia? In questo faticoso cammino per riagganciare una
ripresa particolarmente sfuggente, il nostro Paese si distingue
per una serie di inefficienze e di rigidità che trasformano
la strada in un percorso a ostacoli. Per Giuseppe Monateri, docente
alluniversità di Torino e alla Bocconi di Milano, la
giustizia civile è «un servizio-chiave per la coesione
della società e il funzionamento dei mercati». Ebbene,
la macchina della giustizia italiana è mastodontica quanto
inefficiente.
La flessibilità normativa (vale a dire la capacità
«di far fronte ai mutamenti del mondo esterno e quindi di
mantenersi a livelli competitivi accettabili») è tra
le più basse dEuropa: fatto uguale a zero lindice
di rigidità degli Stati Uniti, lItalia è in
testa alla classifica sia dei peggiori sia nel caso di società
per azioni, sia in quello di società in nome collettivo o
individuali. E se il giudizio sullinsieme della giustizia
è «fortemente negativo», per Monateri si deve
aggiungere «un analogo pessimismo sulle possibilità
di adeguamento del sistema». La conclusione è semplice:
lItalia si trova al margine della globalizzazione.
Daltra parte, è vero anche che tutta la globalizzazione,
così comè stata concepita finora, sembra scricchiolare:
il quadro complessivo del pianeta, sostiene Deaglio, «è
incerto ed esitante, incline a una serie di aggregazioni regionali
secondo le linee di una comune cultura, più che a una vera
globalizzazione che si identifichi con un unico mercato mondiale.
Non si tratterà, però, di regioni chiuse, ma di aree
in vivace comunicazione reciproca. Una globalizzazione arcipelago».
Nello stesso tempo, mentre la consistenza demografica della civiltà
occidentale e di quella giapponese appaiono in netto calo percentuale
negli ultimi trentanni, sono in forte aumento islamici, africani
e latino-americani. Ben diversa è la dinamica del prodotto
lordo, con una forte ripresa dellOccidente (e della Cina)
e un calo di africani, latino-americani e islamici. Questi ultimi,
in particolare, con un prodotto che cresce poco e una popolazione
che cresce molto, subiscono un notevole peggioramento in termini
relativi, ma spesso anche assoluti.
Su tutto, poi, aleggia ancora unombra scura. E lincertezza,
reintrodotta sulla scena economica dagli avvenimenti dell11
settembre. Deaglio mette le mani avanti e confessa il proprio (ma
non solo) disorientamento: «Di fronte a situazioni di questo
tipo i normali strumenti degli economisti non risultano particolarmente
efficaci». Il rischio è compatibile con lattività
economica, lincertezza no, perché non segue principii
di razionalità.
Gli economisti, dunque, sono privi di schemi adeguati alla situazione
(«Sappiamo di non sapere», dicono parafrasando Socrate),
e possono solo raggiungere conclusioni minime. E cioè che
la crisi argentina e la crisi Enron hanno modificato il quadro globale,
che siamo di fronte a una congiuntura di tipo nuovo e a un nuovo
interventismo dei governi.
La fase recessiva iniziata lanno scorso ha messo in luce caratteristiche
nettamente diverse dal passato, che hanno portato alla caduta contemporanea
(e spontanea, cioè non provocata da azioni di governo delleconomia)
di quattro parametri-chiave: la produzione, loccupazione,
gli indici di Borsa, linflazione. La spiegazione di questo
comportamento consiste nel fatto che questa volta i fenomeni recessivi
dipendono da uno squilibrio opposto a quello del passato, vale a
dire da un eccesso di offerta anziché di domanda.
Di conseguenza, la ripresa (se ci sarà per davvero) non sarà
una ripetizione del passato, e pertanto la globalizzazione potrebbe
essere bloccata o potrebbe addirittura terminare. Una cosa è
certa, secondo gli autori del Rapporto: «Il processo di creazione
di una cultura planetaria si rivela molto più lento, faticoso
e problematico di quanto si potesse prevedere allinizio del
millennio».
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