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Languiscono sulla strada le voci
spoglie, autunnali. Distrattamente le seguo dal balcone. Mi lascio
cadere alla poltrona, guardo indietro, tenendo per le mani una lettera.
Dove sei? Ho ingoiato ogni cosa, come il tuo seme. Non temere. Me
lo chiedo così, per abitudine: dove sei? Non mi aspetto risposta
da unombra smagrita, unimpronta di labbra sulla tazzina
del caffè, uno scarto di nuvola. Sei questo appena.
Niente rancore: ho ingoiato ogni cosa e non ho più alcuna sete.
Voglio dirti di Cesare, solo questo, tuo figlio. E bene tu sappia,
poi dimentica tutto. Come una spugna asciuga da questi fogli la mia
voce dinchiostro.
Cesare ha sempre nutrito unammirazione morbosa per te, ricordi.
Un legame ruggine-ferro. Da bambino non ha mai sopportato la mia presenza,
soprattutto per le vacanze lestate. Lintimità materna
dun tempo lo perseguitava al caldo del mare, lo violentava con
quellumore di seno, di fecondità. Il mio. Cambiare. Cambierà,
è solo un incidente necessario alletà, si tormenta,
è chiuso, sta cercando, è chiuso, ha paura, tornerà.
Quando sei andato via, Cesare ha cominciato a non soffrire neppure
te, il tuo odore per casa. Ti annusava schivandoti dappertutto. Una
volta ha orinato sul nostro letto, unaltra alla tua scrivania.
Non gli ho detto nulla; ci siamo guardati un istante, mi ha voltato
le spalle, io gli ho sorriso.
Un mattino Cesare si desta dal tiepido sonno non ha mai assaporato
la notte, con gusto; il suo era un dormire per non offendere, subìto
senza opporsi al corpo, ai nervi che reclamano tregua. E in
cucina, beve il caffè, mi guarda, sembra volermi dire qualcosa,
la bocca lentamente si schiude, negli occhi una luce morbida, un velluto
che fascia una confidenza che sono pronta a indossare, poi niente,
lo sguardo sannebbia, si allarga la bocca, è uno sbadiglio
soltanto. Suona il campanello alla porta. Cesare di corsa allingresso,
lo apre, il postino gli consegna una lettera. Chiedo chi è.
Nessuna risposta. Cesare plana sopra le scale, inciampa, raggiunge
la stanza, si chiude a chiave. Immagino sieda su questa poltrona,
gli occhi scalpitano come puledri.
Ci siamo, pensa stavolta non può più
parlare daltro. Lo so che mi ama, lo so. E una
lettera breve, dalla grafia sofferta, nervosa, duna rigida semplicità.
«Caro Cesare, spero che riuscirai a perdonare questo ritardo,
ma volevo riflettere, provare a riflettere ancora. (...) Ho rimesso
tutto in discussione, ma è meglio lasciarci perdere. Non odiarmi,
è meglio così. Io lo so. (...) La vita davanti è
ancora lunga. Che questo tempo possa averti lasciato qualcosa di vivo».
Cesare posa la lettera sul tavolo senza fiatare, credo, guarda nel
vuoto, manda a memoria in pochi istanti i libri, le videocassette,
il suo Bach in ordine, le essenze che tiene dentro boccette di vetro,
muschio, mirra, sandalo, zenzero, cedro, mirto, bergamotto, le diapositive
sparse per tutta la stanza. Ripassa a memoria ogni vuoto.
Poi riapre la porta, mi dice duscire, di non preoccuparmi, che
non sa quando rincasa. Strana dolcezza la sua voce, inconsueto il
modo di, che importa. Ho imparato che il rimorso è una tagliola
dei dubbi, come dire, il piatto consumato a metà, resiste un
filo di fumo ma è bene svuotare, lavare il piatto al più
presto.
Cesare cammina per lunghe ore dentro quelle viuzze contorte della
città vecchia che dirigono al porto; stradine curve dove
la luce segue una sua chimica, estranea alle cadenze del clima;
traffico di sibili, odori sfuggiti da un otre, da un tempo stagionato
in soffitta tra cenci, mobilia, memorie.
Non alza gli occhi da terra che per fissare le pareti della sua
mano, come a trovarvi un segnale, un alibi che alleggerisca il respiro
convulso, lansia, che asciughi il sudore lungo la schiena,
i pensieri nella testa sbattuta come un pallone sul muro.
Più in là, lacqua batte sui fianchi delle barche
fissate alle bitte come i cavalli fuori i saloon in quei film fasulli
che detestava; giovani e rade coppie passeggiano sul lungomare mano
nella mano, figure leggere che galleggiano nel silenzio della marina.
In quel momento, credo, Cesare pensa di starsene lì ad aspettare
le barche via per la pesca, inghiottite dal buio del mare come aspirine.
Ha sempre amato lacqua, il suono, più del mare le onde
. Ma non amava i romanzi sul mare. Cercava lodore, non il
viaggio, lavventura, la sfida, i fondali, ma il profumo, il
sapore della madelaine, lo iodio. Il conte di Montecristo rinchiuso
nella cella per anni tra lo stordimento della vendetta e quello
del mare, incessante, crudele.
Sulla via del ritorno Cesare incrocia una donna enorme, triste e
allegra nella stessa maniera. I suoi occhi neri puntano la vita
come una canna alla cui esca abbocchi chi vuole, se crede, se proprio
non ha motivi migliori. La donna fuma, le cosce nude, il corpo un
po goffo, così virile, grottesco. Il seno procace ma
educato pare scusarsi della propria autorevolezza. Ed uno scialle
amaranto, buttato dalle spalle ai massicci fianchi. Cesare la guarda
con una curiosità disarmante, violenta ed ingenua. Cesare
avanza a scorrerla meglio, come si fa al citofono per un nome. La
donna non apre bocca ed anzi si lascia scoprire ammiccando con movenze
ora piene ed elastiche poi smorte.
Non si sente sola a stare seduta nel buio?
Io qui ci lavoro. Posso farti compagnia, abito proprio dietro
la strada, andiamo? risponde la donna dalla voce scaracchiata.
Andiamo dove?
Come dove?! E da cinque minuti che stai a fissarmi.
Non hai voglia di divertirti? Quanto hai in tasca? Se il problema
sono i soldi non preoccuparti, stasera sono in vena di saldi. Andiamo?
così lucida, semplice nellarte del darsi.
Ma io non voglio divertirmi risponde tuo figlio.
Ah no? Allora smamma! Qui non ho tempo da perdere con i rammolliti.
Io volevo soltanto sapere se non si sentisse sola. Lho
vista seduta in silenzio ho pensato che avesse bisogno daiuto,
di scambiare qualche parola.
Ma stai scherzando? Io lavoro, mi guadagno il pane così.
Ha bisogno di soldi? Tenga: non è molto ma è
suo. Non ho altro.
Ma sei fesso davvero o cosaltro? Regalarmi dei soldi...!
Ma coshai in quella testa?
Io?
Sì, proprio tu, e sennò chi?
Nulla, proprio nulla. Adesso non ho proprio nulla.
Rigido e freddo, poi sempre più nervosamente, Cesare si
allontana. Lo sguardo perso nelle buie viuzze, come un cane liberato
dal collare ruzzola sulla strada con unansia e una pietà
che sconvolge.
Il freddo aquilone della notte trasporta da un capo allaltro
della marina il volto annichilito di tuo figlio. Le sue piccole
mani avrebbero voluto accarezzare qualcosa, bruciare, sentirsi un
falò invece che la locomotiva in fiamme dun corpo che
deraglia a picco per la marina. Quelle mani che erano state in grado
di scrivere una due tre cento lettere da spedire a sé, raccontandosi
una luce e la fine. Contaminarsi di vita, raschiandola con le unghie
fino a sanguinare.
Quando il mattino seguente entrai nella sua stanza, la luce grezza
del sole vacillava sul volto di Cesare, sfigurato alla tempia da
un piccolo foro, profondo, gentile come una cagna alla soglia. E
una striscia rossa che colava sul collo ma così discreta,
obbligata, senza intenzione. Le voci sulla strada languivano appena.
Lo hanno sepolto accanto a quella che vorrò la mia tomba.
Tu non ci sarai, come ora, come allora quando Cesare ti cercava,
mi chiedeva e poi ha smesso e ha cominciato a orinare sulle tue
cose.
Le ho lette, rilette, le ho tutte con me. Oggi le brucerò
quelle lettere, me lo dico tutte le volte.
Io lho seguito quella sera, per poco; mi sono fermata allaltezza
del porto, mi vergognavo o forse cominciavo a non provare più
amore, ansia per Cesare, che so, si scegliesse la vita, il silenzio,
la madre che vuole, pensavo. Che provasse un giorno il rimorso,
che si mordesse il cuore anche lui una volta. O forse era proprio
questo lamore, è questo.
Poi ho cercato la donna, spesso le sono passata vicino recitando
lindifferenza, altre volte con lintenzione di farmi
ricordare le ho scrutato gli occhi, le labbra, il ricordo della
sera che Cesare... Mi ha fermato lei quella volta che mi ha chiesto
«andiamo?», io mero quasi convinta a scordarmi
di lei, di bruciare le lettere, tutte le volte.
Lincontro con la donna ha tradito Cesare in tutto. In lei
ha visto chi sceglie la solitudine come un obolo quotidiano, una
maschera senza molestia che si attacca alla pelle, resta la faccia
una maschera che non sa più smettere e non prova né
urla sofferenza. Una cagna a zonzo. Gli idioti sono i vivi, quelli
che restano e si abituano a tutto, persino alla vita.
Ha pensato questo, Cesare? rispondi, rispondi.
Gli idioti sono i vivi,
quelli che restano e si abituano a tutto, persino
alla vita.
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