Giugno 2002

L’INEDITO

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Cesare
Pierluigi Mele
 
 

 

  Languiscono sulla strada le voci spoglie, autunnali. Distrattamente le seguo dal balcone. Mi lascio cadere alla poltrona, guardo indietro, tenendo per le mani una lettera.
Dove sei? Ho ingoiato ogni cosa, come il tuo seme. Non temere. Me lo chiedo così, per abitudine: dove sei? Non mi aspetto risposta da un’ombra smagrita, un’impronta di labbra sulla tazzina del caffè, uno scarto di nuvola. Sei questo appena.
Niente rancore: ho ingoiato ogni cosa e non ho più alcuna sete. Voglio dirti di Cesare, solo questo, tuo figlio. E’ bene tu sappia, poi dimentica tutto. Come una spugna asciuga da questi fogli la mia voce d’inchiostro.
Cesare ha sempre nutrito un’ammirazione morbosa per te, ricordi. Un legame ruggine-ferro. Da bambino non ha mai sopportato la mia presenza, soprattutto per le vacanze l’estate. L’intimità materna d’un tempo lo perseguitava al caldo del mare, lo violentava con quell’umore di seno, di fecondità. Il mio. Cambiare. Cambierà, è solo un incidente necessario all’età, si tormenta, è chiuso, sta cercando, è chiuso, ha paura, tornerà.
Quando sei andato via, Cesare ha cominciato a non soffrire neppure te, il tuo odore per casa. Ti annusava schivandoti dappertutto. Una volta ha orinato sul nostro letto, un’altra alla tua scrivania. Non gli ho detto nulla; ci siamo guardati un istante, mi ha voltato le spalle, io gli ho sorriso.
Un mattino Cesare si desta dal tiepido sonno – non ha mai assaporato la notte, con gusto; il suo era un dormire per non offendere, subìto senza opporsi al corpo, ai nervi che reclamano tregua. E’ in cucina, beve il caffè, mi guarda, sembra volermi dire qualcosa, la bocca lentamente si schiude, negli occhi una luce morbida, un velluto che fascia una confidenza che sono pronta a indossare, poi niente, lo sguardo s’annebbia, si allarga la bocca, è uno sbadiglio soltanto. Suona il campanello alla porta. Cesare di corsa all’ingresso, lo apre, il postino gli consegna una lettera. Chiedo chi è. Nessuna risposta. Cesare plana sopra le scale, inciampa, raggiunge la stanza, si chiude a chiave. Immagino sieda su questa poltrona, gli occhi scalpitano come puledri.
– Ci siamo, – pensa – stavolta non può più parlare d’altro. Lo so che mi ama, lo so. – E’ una lettera breve, dalla grafia sofferta, nervosa, d’una rigida semplicità. «Caro Cesare, spero che riuscirai a perdonare questo ritardo, ma volevo riflettere, provare a riflettere ancora. (...) Ho rimesso tutto in discussione, ma è meglio lasciarci perdere. Non odiarmi, è meglio così. Io lo so. (...) La vita davanti è ancora lunga. Che questo tempo possa averti lasciato qualcosa di vivo».
Cesare posa la lettera sul tavolo senza fiatare, credo, guarda nel vuoto, manda a memoria in pochi istanti i libri, le videocassette, il suo Bach in ordine, le essenze che tiene dentro boccette di vetro, muschio, mirra, sandalo, zenzero, cedro, mirto, bergamotto, le diapositive sparse per tutta la stanza. Ripassa a memoria ogni vuoto.
Poi riapre la porta, mi dice d’uscire, di non preoccuparmi, che non sa quando rincasa. Strana dolcezza la sua voce, inconsueto il modo di, che importa. Ho imparato che il rimorso è una tagliola dei dubbi, come dire, il piatto consumato a metà, resiste un filo di fumo ma è bene svuotare, lavare il piatto al più presto.

Cesare cammina per lunghe ore dentro quelle viuzze contorte della città vecchia che dirigono al porto; stradine curve dove la luce segue una sua chimica, estranea alle cadenze del clima; traffico di sibili, odori sfuggiti da un otre, da un tempo stagionato in soffitta tra cenci, mobilia, memorie.
Non alza gli occhi da terra che per fissare le pareti della sua mano, come a trovarvi un segnale, un alibi che alleggerisca il respiro convulso, l’ansia, che asciughi il sudore lungo la schiena, i pensieri nella testa sbattuta come un pallone sul muro.
Più in là, l’acqua batte sui fianchi delle barche fissate alle bitte come i cavalli fuori i saloon in quei film fasulli che detestava; giovani e rade coppie passeggiano sul lungomare mano nella mano, figure leggere che galleggiano nel silenzio della marina.
In quel momento, credo, Cesare pensa di starsene lì ad aspettare le barche via per la pesca, inghiottite dal buio del mare come aspirine. Ha sempre amato l’acqua, il suono, più del mare le onde . Ma non amava i romanzi sul mare. Cercava l’odore, non il viaggio, l’avventura, la sfida, i fondali, ma il profumo, il sapore della madelaine, lo iodio. Il conte di Montecristo rinchiuso nella cella per anni tra lo stordimento della vendetta e quello del mare, incessante, crudele.
Sulla via del ritorno Cesare incrocia una donna enorme, triste e allegra nella stessa maniera. I suoi occhi neri puntano la vita come una canna alla cui esca abbocchi chi vuole, se crede, se proprio non ha motivi migliori. La donna fuma, le cosce nude, il corpo un po’ goffo, così virile, grottesco. Il seno procace ma educato pare scusarsi della propria autorevolezza. Ed uno scialle amaranto, buttato dalle spalle ai massicci fianchi. Cesare la guarda con una curiosità disarmante, violenta ed ingenua. Cesare avanza a scorrerla meglio, come si fa al citofono per un nome. La donna non apre bocca ed anzi si lascia scoprire ammiccando con movenze ora piene ed elastiche poi smorte.
– Non si sente sola a stare seduta nel buio? –
– Io qui ci lavoro. Posso farti compagnia, abito proprio dietro la strada, andiamo? – risponde la donna dalla voce scaracchiata.
– Andiamo dove? –
– Come dove?! E’ da cinque minuti che stai a fissarmi. Non hai voglia di divertirti? Quanto hai in tasca? Se il problema sono i soldi non preoccuparti, stasera sono in vena di saldi. Andiamo? – così lucida, semplice nell’arte del darsi.
– Ma io non voglio divertirmi – risponde tuo figlio.
– Ah no? Allora smamma! Qui non ho tempo da perdere con i rammolliti. –
– Io volevo soltanto sapere se non si sentisse sola. L’ho vista seduta in silenzio ho pensato che avesse bisogno d’aiuto, di scambiare qualche parola.
– Ma stai scherzando? Io lavoro, mi guadagno il pane così. –
– Ha bisogno di soldi? Tenga: non è molto ma è suo. Non ho altro. –
– Ma sei fesso davvero o cos’altro? Regalarmi dei soldi...! Ma cos’hai in quella testa? –
– Io? –
– Sì, proprio tu, e sennò chi? –
– Nulla, proprio nulla. Adesso non ho proprio nulla. –

Rigido e freddo, poi sempre più nervosamente, Cesare si allontana. Lo sguardo perso nelle buie viuzze, come un cane liberato dal collare ruzzola sulla strada con un’ansia e una pietà che sconvolge.
Il freddo aquilone della notte trasporta da un capo all’altro della marina il volto annichilito di tuo figlio. Le sue piccole mani avrebbero voluto accarezzare qualcosa, bruciare, sentirsi un falò invece che la locomotiva in fiamme d’un corpo che deraglia a picco per la marina. Quelle mani che erano state in grado di scrivere una due tre cento lettere da spedire a sé, raccontandosi una luce e la fine. Contaminarsi di vita, raschiandola con le unghie fino a sanguinare.
Quando il mattino seguente entrai nella sua stanza, la luce grezza del sole vacillava sul volto di Cesare, sfigurato alla tempia da un piccolo foro, profondo, gentile come una cagna alla soglia. E una striscia rossa che colava sul collo ma così discreta, obbligata, senza intenzione. Le voci sulla strada languivano appena.
Lo hanno sepolto accanto a quella che vorrò la mia tomba. Tu non ci sarai, come ora, come allora quando Cesare ti cercava, mi chiedeva e poi ha smesso e ha cominciato a orinare sulle tue cose.

Le ho lette, rilette, le ho tutte con me. Oggi le brucerò quelle lettere, me lo dico tutte le volte.
Io l’ho seguito quella sera, per poco; mi sono fermata all’altezza del porto, mi vergognavo o forse cominciavo a non provare più amore, ansia per Cesare, che so, si scegliesse la vita, il silenzio, la madre che vuole, pensavo. Che provasse un giorno il rimorso, che si mordesse il cuore anche lui una volta. O forse era proprio questo l’amore, è questo.
Poi ho cercato la donna, spesso le sono passata vicino recitando l’indifferenza, altre volte con l’intenzione di farmi ricordare le ho scrutato gli occhi, le labbra, il ricordo della sera che Cesare... Mi ha fermato lei quella volta che mi ha chiesto «andiamo?», io m’ero quasi convinta a scordarmi di lei, di bruciare le lettere, tutte le volte.
L’incontro con la donna ha tradito Cesare in tutto. In lei ha visto chi sceglie la solitudine come un obolo quotidiano, una maschera senza molestia che si attacca alla pelle, resta la faccia una maschera che non sa più smettere e non prova né urla sofferenza. Una cagna a zonzo. Gli idioti sono i vivi, quelli che restano e si abituano a tutto, persino alla vita.
Ha pensato questo, Cesare? – rispondi, rispondi.

 

Gli idioti sono i vivi, quelli che restano e si abituano a tutto, persino alla vita.

   
   
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