Giugno 2002

DECIMA MUSA

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Totò: una maschera
Giuseppe Gubitosi
 
 

 

 

 

Fu il primo film tratto da una
commedia
di Scarpetta
ad avere successo: furono venduti quasi cinque
milioni di biglietti.

  “L’uomo, la bestia la virtù”, film di Steno del 1953, fu tratto dall’omonima commedia di Luigi Pirandello e fu sceneggiato dallo stesso regista e da Vitaliano Brancati. E’ interpretato, oltre che da Totò, da Orson Welles, Clelia Matània, Franca Faldini, Viviane Romance, Mario Castellani, Carlo Delle Piane, Rocco D’Assunta, Giancarlo Nicotra e altri attori.
Assunta Perella (Viviane Romance), che viene trascurata dal marito, il capitano Perella (Orson Welles), annuncia all’amante, il professor Paolino (Totò), di essere incinta e di essere in attesa del marito. Paolino suggerisce ad Assunta di essere più seducente, in modo che il marito muti atteggiamento. Il progetto di Paolino riesce, il capitano riscopre la moglie, il professor Paolino perde l’amante e cerca consolazione tra le braccia di una prostituta del luogo.
Giulio Cesare Castello ha scritto che il film è tratto da una delle commedie di Pirandello «più saporose e anticonformiste» e che la scelta di Totò e di Orson Welles tra i protagonisti è stata molto «intelligente». Il significato della commedia era «cristallino»: una satira «alla morale corrente». «Ma chiunque – aggiunge Castello – si fosse accostato, con il cinema, a tale bollente materia, avrebbe corso ovviamente il rischio di far naufragare le buone intenzioni nella volgarità, di scivolare sul filo del rasoio, di trasformare quella che era una commedia di costume in una pochade dai doppi sensi volgari». Steno ha evitato questo pericolo, adottando soluzioni per cui «le situazioni appaiono veramente troppo grassocce, private come sono di buona parte del mordente e del brillante dialogo pirandelliano». Salva solo Totò come attore, che Castello considera «un interprete molto bravo». In conclusione, secondo il critico, «il film strappa più di una sincera risata».

“Un turco napoletano”, del 1953, regia di Mario Mattoli, secondo Giancarlo Governi è il primo film di Totò tratto da una commedia di Eduardo Scarpetta, ma dimentica “Sette ore di guai”, tratto anch’esso da una commedia di Scarpetta, e girato prima, nel 1951.
Comunque, fu il primo film tratto da una commedia di Scarpetta ad avere successo: furono venduti quasi cinque milioni di biglietti, anche se “Miseria e nobiltà”, come dice G. Governi, è più popolare. Sempre secondo Governi, il film vede un Totò molto disteso, come del resto nel film “Totò sceicco”, altro film di Mattoli, il che ha contribuito alla riuscita della pellicola.
Secondo O. Caldiron, il film fa parte, insieme a “Miseria e nobiltà” e a “Il medico dei pazzi”, della “trilogia” che Mario Mattoli trasse da una serie di farse di Eduardo Scarpetta imperniate sul personaggio di Felice Sciosciammocca, che, secondo Governi, per i napoletani significa uno che perde tempo, perché “sciosciammocca” si dice di persona che apre la bocca solo per soffiare, e quindi parla a vuoto.
Non manca un riferimento alla realtà politica contemporanea, visto che uno dei personaggi, quello affidato a Mario Castellani, è un deputato, l’on. Coccheletti, chiamato da Totò Cocchetelli o Cocchetello. L’onorevole ha portato con sé la sua amante, una ballerina del Salone Margherita, e mentre Totò l’abbraccia dice: «Bimba, alle urne!» e riprende a baciarla, dopo l’interruzione dovuta a Coccheletti, che gli ha lasciato, come sfida, un biglietto con cui invita l’elettore a votare per lui.
Felice Sciosciammocca, forzuto e donnaiolo personaggio interpretato da Totò, e Faina, borsaiolo (Carlo Giuffrè), sono due evasi dal carcere, grazie a Felice, che allarga le sbarre con la sua forza, per non subire la condanna a morte, dopo che il falegname (Virgilio Riento) tra mille equivoci dovuti al fatto che parla pugliese gli ha preso le misure per la cassa da morto; una scena simile è in “47 morto che parla”, ma non dà alcun fastidio.
Da quel momento inizia il film, con Felice che, su suggerimento di Faina, prende il posto di un eunuco che è stato mandato dall’on. Coccheletti a don Pasquale che è geloso delle sue donne, come don Ignazio, marito di Angela (Franca Faldini). Però Faina rivela a don Pasquale chi è veramente Felice Sciosciammocca, colpevole di non aver spartito con Faina lo stipendio strappato a don Pasquale. Ma Felice fa giustizia del guappo, don Carlino, e libera don Pasquale della sua fastidiosa presenza. E si rivela forzuto.

In “Una di quelle” torna Peppino De Filippo accanto a Totò, dopo che ha fatto la sua comparsa in “Totò e le donne”, tanto che il film è stato reintitolato “Totò, Peppino e una di quelle”. E’ un film di Aldo Fabrizi, che vi compare anche come attore, come produttore e come sceneggiatore. E’ interpretato anche da Lea Padovani, anche lei già comparsa in “Totò e le donne”, che interpreta qui un personaggio diverso rispetto a quello interpretato nel film precedente, il personaggio di Maria, una sarta che per errore si trova in un night club.
Il film è patetico, come dice G. Governi, ma Totò, al quale le storie patetiche piacevano, non mancava mai di includerlo tra i suoi film migliori. Il film vede la partecipazione di Alberto Talegalli, che sostiene la parte dell’autista che guida l’automobile che ha portato Rocco e Martino, rispettivamente Totò e Peppino De Filippo, dal paese di campagna in cui vivono a Roma, dove nel night club incontrano Maria. Ha scritto G. C. Castello: «Una di quelle di Aldo Fabrizi è un film che può dimostrare come, su un piano di produzione dignitosamente modesta, le virtù intelligentemente sfruttate possano condurre a parziale salvamento un soggetto risaputo e deteriore». Ma noi toglieremmo quel «parziale», e non siamo d’accordo con Castello quando sostiene che «siamo […] sul terreno dell’aneddoto macchiettistico e vellicante gli istinti più scoperti dello spettatore-tipo, ora per la via della comicità ora per quella della commozione», perché riteniamo che il film abbia salvato interamente il soggetto e perché non pensiamo affatto di trovarci di fronte a un vellicamento degli istinti dello spettatore. Al contrario, pensiamo che Totò, Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo e Lea Padovani abbiano costruito, ciascuno per la propria strada, figure forti, che restano impresse nello spettatore, mentre G. C. Castello non fa che accodarsi ai critici che trattano male i film di Totò, salvandolo come attore.

“Il più comico spettacolo del mondo” è del 1953 ed è di Mario Mattoli. E’ nato come parodia del kolossal di De Mille sul circo (“Il più grande spettacolo del mondo”). E’ questo un riferimento alla realtà contemporanea. Ma G. C. Castello su Cinema lo considera una mostruosità. Perché il film «nato come parodia del “colosso” demilliano sulla vita del circo, […] si è risolto in una disordinata accozzaglia di goffi appunti parodistici, di insistite scipitezze, di gratuite volgarità, al di fuori da ogni consistenza narrativa, sia pur modesta».
Ma il film piacque al pubblico, come dimostra l’articolo scritto da Filippo Sacchi. Sceneggiato da Sandro Continenza, Italo Del Tuddo e Ruggero Maccari, fu prodotto dalla Rosa Film e fu distribuito in Italia, per la prima volta, dalla Paramount, la stessa casa che distribuì il film di De Mille. Fu fatto in 3D su brevetto americano e, secondo Filippo Sacchi, il mondo del circo, con la sua irrealtà, offre all’uomo di spettacolo (Totò) l’occasione per dare un senso al 3D «nella buffonata, nella fantasia».

“Totò e Carolina”, interpretato, oltre che da Totò (che aveva la parte di Antonio Caccavallo, agente scelto di pubblica sicurezza), da Anna Maria Ferrero, fu realizzato da Mario Monicelli, su sceneggiatura dello stesso regista, di Age, Scarpelli e Rodolfo Sonego.
E’ un film molto noto, perché venne alla luce un’ennesima censura: pare certo infatti che il film dura un’ora e 15 minuti per i numerosi tagli di censura subiti, che furono 34 e riguardavano soprattutto Caccavallo (che, essendo un rappresentante delle forze dell’ordine, era ritenuto intoccabile), laddove Totò e Anna Maria Ferrero incrociano, mentre stanno viaggiando a bordo della jeep di Caccavallo, un corteo di lavoratori che cantano un canto d’osteria e che invece di «Abbasso i padroni!» urlano «Viva l’amore!», il tutto con le bandiere rosse al vento.

Del film Filippo Sacchi su Epoca scrisse: «E’ un errore credere che il presentare in luce familiare e spassosa certe situazioni le indebolisca. Non ci fu un esercito preso in giro come lo fu il francese, nella letteratura e nel teatro del primo Novecento, quando Courteline satireggiava la vita di caserma, e non c’era si può dire pochade in cui non comparisse un generale in mutande. Eppure proprio l’esercito francese doveva vincere, pochi anni dopo, una delle più titaniche battaglie della storia, Verdun […] . Un po’ sulla linea courtelinesca è anche questo agente scelto Caccavallo Antonio». Questo scrisse il liberale Filippo Sacchi con una critica alla censura che difendeva Antonio Caccavallo, dato il carattere ad essa impresso, come dice G. Governi, dalla guerra fredda…
Resta un film umanissimo. Perché Caccavallo, che è vedovo, si porta Carolina a casa. E Totò trova il modo di imitare Mussolini. Lo fa all’inizio del film, quando si stende accanto a Carolina, che ha tentato di suicidarsi al commissariato ed è stata portata al Santo Spirito, mettendosi in posa con i pugni sui fianchi, nell’atteggiamenti tipico del Duce mentre parlava dal balcone di Piazza Venezia.
“Questa è la vita”, del 1954, è un film a episodi, fatto per utilizzare molti nomi di sicuro richiamo in un solo film. Tratto da quattro novelle di Luigi Pirandello, ha come registi Giorgio Pàstina, Mario Soldati, Luigi Zampa, Aldo Fabrizi. I soggetti sono di Luigi Pirandello, mentre le sceneggiature sono di Giorgio Pàstina (“La giara”), di Giorgio Bassani e Mario Soldati (“Il ventaglino”), di Vitaliano Brancati e Luigi Zampa (“La patente”), e di Aldo Fabrizi (“Marsina stretta”).
L’episodio affidato a Totò, regia di Luigi Zampa e sceneggiatura di Vitaliano Brancati e Luigi Zampa, è un episodio napoletano, per la presenza di Totò e di altri napoletani, come Mario Castellani, nonostante il soggetto sia di Luigi Pirandello, il sicilianissimo scrittore di Girgenti, l’attuale Agrigento. Totò, che impersona Rosario Chiarchiaro, uno jettatore che chiede al giudice (Mario Castellani) il riconoscimento ufficiale della sua condizione appunto di jettatore, sostiene la parte rimanendo al di sotto delle sue possibilità. Eppure, è l’episodio meglio riuscito dei quattro, perché la jettatura è sentita in Sicilia come a Napoli.

“Miseria e nobiltà”, del 1954, è di Mario Mattoli. Anche questo film, come “Un turco napoletano” è imperniato sul personaggio di Felice Sciosciammocca, affidato a Totò, che questa volta è uno scrivano pubblico. Felice e Pasquale (Enzo Turco) accettano dal marchesino Eugenio la proposta di travestirsi da nobili, essi che sono poveri, e di accompagnarlo dal padre della sua amata per chiedergli il consenso alle nozze con la figlia Gemma (Sophia Loren), sorella di Luigino (Carlo Croccolo), che è a sua volta innamorato della figlia di Pasquale, che finge di essere il padre del marchesino Eugenio. La finzione sta per andare a monte per colpa di donna Luisella (Dolores Palumbo), convivente di Felice, perché non ha alcuna parte nella finzione di cui sono protagonisti Felice e Pasquale. Ma Felice ha trovato in casa di don Gaetano, padre di Gemma e di Luigino, Bettina, sua prima moglie e madre di Peppiniello, che continua a dire «Vicienzo m’è padre a me», perché Vincenzo, che è il più vecchio ed esperto dei camerieri della casa di don Gaetano, gli ha detto di dire a tutti che è suo figlio affinché don Gaetano lo assuma. Vincenzo spiega a Felice la verità, tranquillizzandolo circa Bettina, ma rivela la verità anche a don Gaetano circa Peppiniello. Don Gaetano apprende la verità su Pasquale e Felice, il quale, dopo l’esperienza di “nobiltà”, è ben disposto a tornare nella miseria. E’ più teatro cinematografato che cinema in senso stretto, come dice Vittorio Ricciuti su Il Mattino di Napoli; questo accade, dice Ricciuti, per la fedeltà all’originale di Scarpetta. Ma parla bene anche di Mattoli, che «ha tenuto abilmente nelle redini la gaia vicenda, la quale scorre con sciolto ritmo fino alla fine». Riconosce, in sostanza, a Mattoli la scioltezza che lo caratterizza come regista.

“Tempi nostri”, film di Alessandro Blasetti, del 1954, è un film a episodi, dei quali Totò ha interpretato l’ultimo, “La macchina fotografica”, ma c’è un altro episodio che riguarda il Mezzogiorno ed è “Don Corradino”, interpretato da Vittorio De Sica, già interprete, con Elisa Cegani, di “Scena all’aperto”, un episodio sceneggiato da Aldo Continenza e Alessandro Blasetti, su dialoghi di Eduardo De Filippo, con Vittorio Caprioli, Eduardo De Filippo, Maria Fiore, e con la partecipazione di Turi Pandolfini, Giacomo Furia e Carlo Delle Piane.
E’ un vero e proprio inno a Napoli, con De Sica che canta persino le canzoni napoletane, con Vittorio Caprioli che si chiama Rafele invece di Raffaele, ed Eduardo De Filippo che fa “o’ controllore” e parla in stretto dialetto napoletano e Maria Fiore che si chiama Nannina, in dialetto napoletano.
Quanto all’episodio interpretato da Totò e da Sophia Loren, è il più breve di tutti gli episodi del film, ma è anche il più esilarante. Totò e Sophia Loren nell’episodio finale del film, secondo Luigi Chiarini, che scrive su Il Contemporaneo, appena uscito per far concorrenza a Il Mondo, sono «comicità e sesso» e sono «disperatamente aggrappati alla coda del film» e «si agitano come naufraghi e danno un senso di pena perché non si può in alcun modo soccorrerli», dando di Totò lo stesso giudizio negativo che suole dare la critica.
Ma si tratta di un episodio veramente divertente, con Totò che fa il gagà e cerca di vincere la macchina fotografica, e Sophia Loren che fa la preziosa ma si concede a Totò per fare Paolina Borghese. E’ insomma un episodio che riesce a suscitare il riso e l’erotismo quasi senza volerlo.

“I tre ladri” di Lionello De Felice è del 1954. E’ un film continuativo, cioè non a episodi e molto divertente. Interpretato, oltre che da Totò (Tapioca), da Jean-Claude Pascal (Gastone), da Gino Bramieri (Ornano) e da Giovanna Ralli (la cameriera di Gastone, fidanzata con Tapioca), è un film che si lascia vedere, anche se è “charlottiano” all’inizio e “clairiano” alla fine, nel senso che termina alla maniera di “A me la libertà” di René Clair, come dice Renato Carancini su La Voce Repubblicana del 7 ottobre 1954. Infatti, «è ben diretto ed ottimamente interpretato», come dice lo stesso Carancini, che riconosce a Totò la «qualità di attore» che altri critici gli negano.

“Il medico dei pazzi”, sempre del 1954, è il terzo film della trilogia che Mario Mattoli ha voluto trarre dalle farse di Scarpetta. E’ un film molto divertente, interpretato, oltre che da Totò, da Aldo Giuffrè, da Tecla Scarano, da Maria Pia Casilio, da Franca Marzi, da Mario Castellani, da Carlo Ninchi, per nominare i più noti. «E’ veramente doloroso constatare come la comicità di certi film italiani sia ancora legata a sorpassati schemi appartenuti al già infimo teatro da avanspettacolo […]. Questo discorso, inutile dirlo, vale soprattutto per il film in questione, ennesima opera dozzinale di Mario Mattoli che da un po’ di tempo si dedica alle trasposizioni cinematografiche delle farse di Scarpetta»: questo dice, su La Voce Repubblicana del 14 novembre 1954, il Vice di Carancini. Il quale non solo tratta male Totò e Mattoli, ma usa pure l’aggettivo «doloroso», facendo a gara con gli altri critici e superandoli.

Sempre di Mattoli e del 1954, “Totò cerca pace”. E’ un film molto divertente. E ciò vale anche se Leo Pestelli, su La Nuova Stampa del 19 dicembre 1954, scrive che «il regista Mario Mattoli ha rivoltato vecchi motivi burleschi con mano stanca». In verità, Totò era sempre più disteso con il regista Mattoli, segno che Mattoli era molto bravo e che Totò preferiva lavorare con lui. La sceneggiatura è di Vincenzo Talarico (che compare nella parte di un avvocato, durante il viaggio di nozze, che si svolge a Napoli), di Ruggero Maccari, di Mario Mattoli e di Emilio Caglieri. Il film, tratto da una commedia di quest’ultimo, è interpretato da Ave Ninchi, da Enzo Turco, da Paolo Ferrari, da Isa Barzizza, oltre che da Totò.

“L’oro di Napoli”, invece, è un film a episodi di Vittorio De Sica del 1954, che abbiamo già incontrato come interprete di due episodi del film di Alessandro Blasetti “Tempi nostri”, “Scena all’aperto” e “Don Corradino”. E’ un altro omaggio a Napoli, considerata da De Sica come una città ricca di amore e di vita. L’episodio in cui compare Totò è il primo, intitolato “Il guappo”, che vede Totò nella parte drammatica di don Saverio, salvo che quando fa “o’ pazzariello” e va ad inaugurare una salumeria. Nei panni di don Saverio, Totò è un uomo che ha una famiglia che ospita in casa sua un guappo, don Carmine, che lo fa sentire uno schiavo in casa sua.

Don Saverio è pronto ad utilizzare ogni occasione per riconquistare la libertà e crede che sia giunta l’ora quando apprende dallo stesso don Carmine che ha avuto un infarto e lo manda via, ma don Carmine non ha avuto un infarto, a quanto dice un luminare della medicina, ma una banale indigestione. Don Carmine, vedendo la famiglia di don Saverio unita contro di lui, anche se ha la chiara intenzione di ritornare, abbandona il campo.
La sceneggiatura è di Giuseppe Marotta. Guido Aristarco, su Cinema Nuovo del 25 gennaio 1955, scrive: «La materia che offriva Marotta non poteva che condurre a questo: a un classico saggio di “traduzione cinematografica”, a uno scrivere prodigioso, alla bella scrittura, all’autocontemplazione. Sì che non assistiamo soltanto a un ritorno alla novellistica […], ma addirittura a una specie di corrispettivo del frammento letterario, della prosa d’arte: vale a dire – tra l’altro – a una vacanza, a un diversivo, a un riposo». Laddove si capisce che ad Aristarco il film è piaciuto, anche se non si sbilancia più di tanto.

(continua)

   
   
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