Fu il primo film tratto da una
commedia
di Scarpetta
ad avere successo: furono venduti quasi cinque
milioni di biglietti.
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Luomo, la bestia
la virtù, film di Steno del 1953, fu tratto dallomonima
commedia di Luigi Pirandello e fu sceneggiato dallo stesso regista
e da Vitaliano Brancati. E interpretato, oltre che da Totò,
da Orson Welles, Clelia Matània, Franca Faldini, Viviane Romance,
Mario Castellani, Carlo Delle Piane, Rocco DAssunta, Giancarlo
Nicotra e altri attori.
Assunta Perella (Viviane Romance), che viene trascurata dal marito,
il capitano Perella (Orson Welles), annuncia allamante, il professor
Paolino (Totò), di essere incinta e di essere in attesa del
marito. Paolino suggerisce ad Assunta di essere più seducente,
in modo che il marito muti atteggiamento. Il progetto di Paolino riesce,
il capitano riscopre la moglie, il professor Paolino perde lamante
e cerca consolazione tra le braccia di una prostituta del luogo.
Giulio Cesare Castello ha scritto che il film è tratto da una
delle commedie di Pirandello «più saporose e anticonformiste»
e che la scelta di Totò e di Orson Welles tra i protagonisti
è stata molto «intelligente». Il significato della
commedia era «cristallino»: una satira «alla morale
corrente». «Ma chiunque aggiunge Castello
si fosse accostato, con il cinema, a tale bollente materia, avrebbe
corso ovviamente il rischio di far naufragare le buone intenzioni
nella volgarità, di scivolare sul filo del rasoio, di trasformare
quella che era una commedia di costume in una pochade dai doppi sensi
volgari». Steno ha evitato questo pericolo, adottando soluzioni
per cui «le situazioni appaiono veramente troppo grassocce,
private come sono di buona parte del mordente e del brillante dialogo
pirandelliano». Salva solo Totò come attore, che Castello
considera «un interprete molto bravo». In conclusione,
secondo il critico, «il film strappa più di una sincera
risata».
Un turco napoletano, del 1953, regia di Mario Mattoli,
secondo Giancarlo Governi è il primo film di Totò
tratto da una commedia di Eduardo Scarpetta, ma dimentica Sette
ore di guai, tratto anchesso da una commedia di Scarpetta,
e girato prima, nel 1951.
Comunque, fu il primo film tratto da una commedia di Scarpetta ad
avere successo: furono venduti quasi cinque milioni di biglietti,
anche se Miseria e nobiltà, come dice G. Governi,
è più popolare. Sempre secondo Governi, il film vede
un Totò molto disteso, come del resto nel film Totò
sceicco, altro film di Mattoli, il che ha contribuito alla
riuscita della pellicola.
Secondo O. Caldiron, il film fa parte, insieme a Miseria e
nobiltà e a Il medico dei pazzi, della
trilogia che Mario Mattoli trasse da una serie di farse
di Eduardo Scarpetta imperniate sul personaggio di Felice Sciosciammocca,
che, secondo Governi, per i napoletani significa uno che perde tempo,
perché sciosciammocca si dice di persona che
apre la bocca solo per soffiare, e quindi parla a vuoto.
Non manca un riferimento alla realtà politica contemporanea,
visto che uno dei personaggi, quello affidato a Mario Castellani,
è un deputato, lon. Coccheletti, chiamato da Totò
Cocchetelli o Cocchetello. Lonorevole ha portato con sé
la sua amante, una ballerina del Salone Margherita, e mentre Totò
labbraccia dice: «Bimba, alle urne!» e riprende
a baciarla, dopo linterruzione dovuta a Coccheletti, che gli
ha lasciato, come sfida, un biglietto con cui invita lelettore
a votare per lui.
Felice Sciosciammocca, forzuto e donnaiolo personaggio interpretato
da Totò, e Faina, borsaiolo (Carlo Giuffrè), sono
due evasi dal carcere, grazie a Felice, che allarga le sbarre con
la sua forza, per non subire la condanna a morte, dopo che il falegname
(Virgilio Riento) tra mille equivoci dovuti al fatto che parla pugliese
gli ha preso le misure per la cassa da morto; una scena simile è
in 47 morto che parla, ma non dà alcun fastidio.
Da quel momento inizia il film, con Felice che, su suggerimento
di Faina, prende il posto di un eunuco che è stato mandato
dallon. Coccheletti a don Pasquale che è geloso delle
sue donne, come don Ignazio, marito di Angela (Franca Faldini).
Però Faina rivela a don Pasquale chi è veramente Felice
Sciosciammocca, colpevole di non aver spartito con Faina lo stipendio
strappato a don Pasquale. Ma Felice fa giustizia del guappo, don
Carlino, e libera don Pasquale della sua fastidiosa presenza. E
si rivela forzuto.
In Una di quelle torna Peppino De Filippo accanto a
Totò, dopo che ha fatto la sua comparsa in Totò
e le donne, tanto che il film è stato reintitolato
Totò, Peppino e una di quelle. E un film
di Aldo Fabrizi, che vi compare anche come attore, come produttore
e come sceneggiatore. E interpretato anche da Lea Padovani,
anche lei già comparsa in Totò e le donne,
che interpreta qui un personaggio diverso rispetto a quello interpretato
nel film precedente, il personaggio di Maria, una sarta che per
errore si trova in un night club.
Il film è patetico, come dice G. Governi, ma Totò,
al quale le storie patetiche piacevano, non mancava mai di includerlo
tra i suoi film migliori. Il film vede la partecipazione di Alberto
Talegalli, che sostiene la parte dellautista che guida lautomobile
che ha portato Rocco e Martino, rispettivamente Totò e Peppino
De Filippo, dal paese di campagna in cui vivono a Roma, dove nel
night club incontrano Maria. Ha scritto G. C. Castello: «Una
di quelle di Aldo Fabrizi è un film che può dimostrare
come, su un piano di produzione dignitosamente modesta, le virtù
intelligentemente sfruttate possano condurre a parziale salvamento
un soggetto risaputo e deteriore». Ma noi toglieremmo quel
«parziale», e non siamo daccordo con Castello
quando sostiene che «siamo [
] sul terreno dellaneddoto
macchiettistico e vellicante gli istinti più scoperti dello
spettatore-tipo, ora per la via della comicità ora per quella
della commozione», perché riteniamo che il film abbia
salvato interamente il soggetto e perché non pensiamo affatto
di trovarci di fronte a un vellicamento degli istinti dello spettatore.
Al contrario, pensiamo che Totò, Aldo Fabrizi, Peppino De
Filippo e Lea Padovani abbiano costruito, ciascuno per la propria
strada, figure forti, che restano impresse nello spettatore, mentre
G. C. Castello non fa che accodarsi ai critici che trattano male
i film di Totò, salvandolo come attore.
Il più comico spettacolo del mondo è
del 1953 ed è di Mario Mattoli. E nato come parodia
del kolossal di De Mille sul circo (Il più grande spettacolo
del mondo). E questo un riferimento alla realtà
contemporanea. Ma G. C. Castello su Cinema lo considera una mostruosità.
Perché il film «nato come parodia del colosso
demilliano sulla vita del circo, [
] si è risolto in
una disordinata accozzaglia di goffi appunti parodistici, di insistite
scipitezze, di gratuite volgarità, al di fuori da ogni consistenza
narrativa, sia pur modesta».
Ma il film piacque al pubblico, come dimostra larticolo scritto
da Filippo Sacchi. Sceneggiato da Sandro Continenza, Italo Del Tuddo
e Ruggero Maccari, fu prodotto dalla Rosa Film e fu distribuito
in Italia, per la prima volta, dalla Paramount, la stessa casa che
distribuì il film di De Mille. Fu fatto in 3D su brevetto
americano e, secondo Filippo Sacchi, il mondo del circo, con la
sua irrealtà, offre alluomo di spettacolo (Totò)
loccasione per dare un senso al 3D «nella buffonata,
nella fantasia».
Totò e Carolina, interpretato, oltre che da
Totò (che aveva la parte di Antonio Caccavallo, agente scelto
di pubblica sicurezza), da Anna Maria Ferrero, fu realizzato da
Mario Monicelli, su sceneggiatura dello stesso regista, di Age,
Scarpelli e Rodolfo Sonego.
E un film molto noto, perché venne alla luce unennesima
censura: pare certo infatti che il film dura unora e 15 minuti
per i numerosi tagli di censura subiti, che furono 34 e riguardavano
soprattutto Caccavallo (che, essendo un rappresentante delle forze
dellordine, era ritenuto intoccabile), laddove Totò
e Anna Maria Ferrero incrociano, mentre stanno viaggiando a bordo
della jeep di Caccavallo, un corteo di lavoratori che cantano un
canto dosteria e che invece di «Abbasso i padroni!»
urlano «Viva lamore!», il tutto con le bandiere
rosse al vento.
Del film Filippo Sacchi su Epoca scrisse: «E un errore
credere che il presentare in luce familiare e spassosa certe situazioni
le indebolisca. Non ci fu un esercito preso in giro come lo fu il
francese, nella letteratura e nel teatro del primo Novecento, quando
Courteline satireggiava la vita di caserma, e non cera si
può dire pochade in cui non comparisse un generale in mutande.
Eppure proprio lesercito francese doveva vincere, pochi anni
dopo, una delle più titaniche battaglie della storia, Verdun
[
] . Un po sulla linea courtelinesca è anche
questo agente scelto Caccavallo Antonio». Questo scrisse il
liberale Filippo Sacchi con una critica alla censura che difendeva
Antonio Caccavallo, dato il carattere ad essa impresso, come dice
G. Governi, dalla guerra fredda
Resta un film umanissimo. Perché Caccavallo, che è
vedovo, si porta Carolina a casa. E Totò trova il modo di
imitare Mussolini. Lo fa allinizio del film, quando si stende
accanto a Carolina, che ha tentato di suicidarsi al commissariato
ed è stata portata al Santo Spirito, mettendosi in posa con
i pugni sui fianchi, nellatteggiamenti tipico del Duce mentre
parlava dal balcone di Piazza Venezia.
Questa è la vita, del 1954, è un film
a episodi, fatto per utilizzare molti nomi di sicuro richiamo in
un solo film. Tratto da quattro novelle di Luigi Pirandello, ha
come registi Giorgio Pàstina, Mario Soldati, Luigi Zampa,
Aldo Fabrizi. I soggetti sono di Luigi Pirandello, mentre le sceneggiature
sono di Giorgio Pàstina (La giara), di Giorgio
Bassani e Mario Soldati (Il ventaglino), di Vitaliano
Brancati e Luigi Zampa (La patente), e di Aldo Fabrizi
(Marsina stretta).
Lepisodio affidato a Totò, regia di Luigi Zampa e sceneggiatura
di Vitaliano Brancati e Luigi Zampa, è un episodio napoletano,
per la presenza di Totò e di altri napoletani, come Mario
Castellani, nonostante il soggetto sia di Luigi Pirandello, il sicilianissimo
scrittore di Girgenti, lattuale Agrigento. Totò, che
impersona Rosario Chiarchiaro, uno jettatore che chiede al giudice
(Mario Castellani) il riconoscimento ufficiale della sua condizione
appunto di jettatore, sostiene la parte rimanendo al di sotto delle
sue possibilità. Eppure, è lepisodio meglio
riuscito dei quattro, perché la jettatura è sentita
in Sicilia come a Napoli.
Miseria e nobiltà, del 1954, è di Mario
Mattoli. Anche questo film, come Un turco napoletano
è imperniato sul personaggio di Felice Sciosciammocca, affidato
a Totò, che questa volta è uno scrivano pubblico.
Felice e Pasquale (Enzo Turco) accettano dal marchesino Eugenio
la proposta di travestirsi da nobili, essi che sono poveri, e di
accompagnarlo dal padre della sua amata per chiedergli il consenso
alle nozze con la figlia Gemma (Sophia Loren), sorella di Luigino
(Carlo Croccolo), che è a sua volta innamorato della figlia
di Pasquale, che finge di essere il padre del marchesino Eugenio.
La finzione sta per andare a monte per colpa di donna Luisella (Dolores
Palumbo), convivente di Felice, perché non ha alcuna parte
nella finzione di cui sono protagonisti Felice e Pasquale. Ma Felice
ha trovato in casa di don Gaetano, padre di Gemma e di Luigino,
Bettina, sua prima moglie e madre di Peppiniello, che continua a
dire «Vicienzo mè padre a me», perché
Vincenzo, che è il più vecchio ed esperto dei camerieri
della casa di don Gaetano, gli ha detto di dire a tutti che è
suo figlio affinché don Gaetano lo assuma. Vincenzo spiega
a Felice la verità, tranquillizzandolo circa Bettina, ma
rivela la verità anche a don Gaetano circa Peppiniello. Don
Gaetano apprende la verità su Pasquale e Felice, il quale,
dopo lesperienza di nobiltà, è ben
disposto a tornare nella miseria. E più teatro cinematografato
che cinema in senso stretto, come dice Vittorio Ricciuti su Il Mattino
di Napoli; questo accade, dice Ricciuti, per la fedeltà alloriginale
di Scarpetta. Ma parla bene anche di Mattoli, che «ha tenuto
abilmente nelle redini la gaia vicenda, la quale scorre con sciolto
ritmo fino alla fine». Riconosce, in sostanza, a Mattoli la
scioltezza che lo caratterizza come regista.
Tempi nostri, film di Alessandro Blasetti, del 1954,
è un film a episodi, dei quali Totò ha interpretato
lultimo, La macchina fotografica, ma cè
un altro episodio che riguarda il Mezzogiorno ed è Don
Corradino, interpretato da Vittorio De Sica, già interprete,
con Elisa Cegani, di Scena allaperto, un episodio
sceneggiato da Aldo Continenza e Alessandro Blasetti, su dialoghi
di Eduardo De Filippo, con Vittorio Caprioli, Eduardo De Filippo,
Maria Fiore, e con la partecipazione di Turi Pandolfini, Giacomo
Furia e Carlo Delle Piane.
E un vero e proprio inno a Napoli, con De Sica che canta persino
le canzoni napoletane, con Vittorio Caprioli che si chiama Rafele
invece di Raffaele, ed Eduardo De Filippo che fa o controllore
e parla in stretto dialetto napoletano e Maria Fiore che si chiama
Nannina, in dialetto napoletano.
Quanto allepisodio interpretato da Totò e da Sophia
Loren, è il più breve di tutti gli episodi del film,
ma è anche il più esilarante. Totò e Sophia
Loren nellepisodio finale del film, secondo Luigi Chiarini,
che scrive su Il Contemporaneo, appena uscito per far concorrenza
a Il Mondo, sono «comicità e sesso» e sono «disperatamente
aggrappati alla coda del film» e «si agitano come naufraghi
e danno un senso di pena perché non si può in alcun
modo soccorrerli», dando di Totò lo stesso giudizio
negativo che suole dare la critica.
Ma si tratta di un episodio veramente divertente, con Totò
che fa il gagà e cerca di vincere la macchina fotografica,
e Sophia Loren che fa la preziosa ma si concede a Totò per
fare Paolina Borghese. E insomma un episodio che riesce a
suscitare il riso e lerotismo quasi senza volerlo.
I tre ladri di Lionello De Felice è del 1954.
E un film continuativo, cioè non a episodi e molto
divertente. Interpretato, oltre che da Totò (Tapioca), da
Jean-Claude Pascal (Gastone), da Gino Bramieri (Ornano) e da Giovanna
Ralli (la cameriera di Gastone, fidanzata con Tapioca), è
un film che si lascia vedere, anche se è charlottiano
allinizio e clairiano alla fine, nel senso che
termina alla maniera di A me la libertà di René
Clair, come dice Renato Carancini su La Voce Repubblicana del 7
ottobre 1954. Infatti, «è ben diretto ed ottimamente
interpretato», come dice lo stesso Carancini, che riconosce
a Totò la «qualità di attore» che altri
critici gli negano.
Il medico dei pazzi, sempre del 1954, è il terzo
film della trilogia che Mario Mattoli ha voluto trarre dalle farse
di Scarpetta. E un film molto divertente, interpretato, oltre
che da Totò, da Aldo Giuffrè, da Tecla Scarano, da
Maria Pia Casilio, da Franca Marzi, da Mario Castellani, da Carlo
Ninchi, per nominare i più noti. «E veramente
doloroso constatare come la comicità di certi film italiani
sia ancora legata a sorpassati schemi appartenuti al già
infimo teatro da avanspettacolo [
]. Questo discorso, inutile
dirlo, vale soprattutto per il film in questione, ennesima opera
dozzinale di Mario Mattoli che da un po di tempo si dedica
alle trasposizioni cinematografiche delle farse di Scarpetta»:
questo dice, su La Voce Repubblicana del 14 novembre 1954, il Vice
di Carancini. Il quale non solo tratta male Totò e Mattoli,
ma usa pure laggettivo «doloroso», facendo a gara
con gli altri critici e superandoli.
Sempre di Mattoli e del 1954, Totò cerca pace.
E un film molto divertente. E ciò vale anche se Leo
Pestelli, su La Nuova Stampa del 19 dicembre 1954, scrive che «il
regista Mario Mattoli ha rivoltato vecchi motivi burleschi con mano
stanca». In verità, Totò era sempre più
disteso con il regista Mattoli, segno che Mattoli era molto bravo
e che Totò preferiva lavorare con lui. La sceneggiatura è
di Vincenzo Talarico (che compare nella parte di un avvocato, durante
il viaggio di nozze, che si svolge a Napoli), di Ruggero Maccari,
di Mario Mattoli e di Emilio Caglieri. Il film, tratto da una commedia
di questultimo, è interpretato da Ave Ninchi, da Enzo
Turco, da Paolo Ferrari, da Isa Barzizza, oltre che da Totò.
Loro di Napoli, invece, è un film a episodi
di Vittorio De Sica del 1954, che abbiamo già incontrato
come interprete di due episodi del film di Alessandro Blasetti Tempi
nostri, Scena allaperto e Don Corradino.
E un altro omaggio a Napoli, considerata da De Sica come una
città ricca di amore e di vita. Lepisodio in cui compare
Totò è il primo, intitolato Il guappo,
che vede Totò nella parte drammatica di don Saverio, salvo
che quando fa o pazzariello e va ad inaugurare
una salumeria. Nei panni di don Saverio, Totò è un
uomo che ha una famiglia che ospita in casa sua un guappo, don Carmine,
che lo fa sentire uno schiavo in casa sua.
Don Saverio è pronto ad utilizzare ogni occasione per riconquistare
la libertà e crede che sia giunta lora quando apprende
dallo stesso don Carmine che ha avuto un infarto e lo manda via,
ma don Carmine non ha avuto un infarto, a quanto dice un luminare
della medicina, ma una banale indigestione. Don Carmine, vedendo
la famiglia di don Saverio unita contro di lui, anche se ha la chiara
intenzione di ritornare, abbandona il campo.
La sceneggiatura è di Giuseppe Marotta. Guido Aristarco,
su Cinema Nuovo del 25 gennaio 1955, scrive: «La materia che
offriva Marotta non poteva che condurre a questo: a un classico
saggio di traduzione cinematografica, a uno scrivere
prodigioso, alla bella scrittura, allautocontemplazione. Sì
che non assistiamo soltanto a un ritorno alla novellistica [
],
ma addirittura a una specie di corrispettivo del frammento letterario,
della prosa darte: vale a dire tra laltro
a una vacanza, a un diversivo, a un riposo». Laddove si capisce
che ad Aristarco il film è piaciuto, anche se non si sbilancia
più di tanto.
(continua)
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