Giugno 2002

TRA PATOLOGIE E LEGGENDE METROPOLITANE

Indietro
Col fisico in malora
Sergio Bello
 
 

 

 

 

Alle sei
del pomeriggio,
nel pieno di un temporale, Beethoven
fu svegliato
da un tuono
e sembrò agitare
il pugno contro
il cielo...

  Si sapeva benissimo che Beethoven era sordo. Si sapeva un po’ meno che amava bere il vino e che morì di cirrosi epatica, e che per di più soffriva di un’irriducibile diarrea e di dolori addominali. La miopia di Bach era leggendaria. Liszt finì col diventare morfinomane e non disdegnava l’alcol. Grainger era conosciuto come sadomasochista. Schumann era praticamente pazzo. Mahler venne stroncato da un’endocardite ulcerosa. Il divino Paganini era affetto dal morbo di Marfan, vale a dire una specie di distrofia del tessuto connettivo. Chopin era notoriamente tisico e faceva un fortissimo consumo di oppio per lenire una tosse fastidiosa. Mozart soffriva di insufficienza renale cronica. Rossini fu ucciso da un tumore al retto, dopo anni di sofferenze per terribili emorroidi e una gonorrea implacabile: passati i settant’anni, diventò così obeso che poteva camminare soltanto a costo di un’enorme fatica. Ravel era iperteso. Gershwin era talmente ossessionato dalla calvizie da farne una malattia. Bizet morì a trentasette anni, dopo tutta una vita segnata da una tormentosa infezione alla gola e da palpitazioni cardiache. Brahms sarebbe deceduto per un cancro al fegato. Mussorgskij fu costretto a interrompere la sua carriera quando sopraggiunse una forma acuta di delirium tremens...
A tener conto di tutte le patologie che avevano colpito questi geni della musica, si affollerebbe persino il sanatorio della Montagna incantata di Thomas Mann. Eppure, è proprio questo il quadro desolante che emerge da un libro a suo modo avvincente scritto da John O’Shea (Musica e Medicina. Profili medici di grandi compositori). L’autore è medico e storico della medicina, e si è preso la briga di andare a investigare in archivi di mezzo mondo, dalla Polonia a Melbourne, dove ha avuto occasione persino di scambiare varie opinioni con il dottor Peter Davies, «autorità mondiale in fatto di malattie mozartiane».
Coloro i quali hanno letto gli intriganti delitti per amici della musica raccolti nel libretto di Ernst W. Heine (Chi ha ucciso Mozart? Chi ha decapitato Haydn?), potrà mettere da parte tutto il romanzesco e attingere più concretamente alla fonte della scienza. Lo scopo del libro è «quello di valutare non solo la sintomatologia delle malattie che hanno colpito alcuni dei grandi compositori, ma anche il grado di invalidità fisica ed emotiva che oppresse la loro vita, cercando di determinare quanto abbia influito sul loro lavoro». Ma l’impressione è quella di avere davanti una lunga autodifesa della categoria, accusata per secoli di aver seppellito i grandi geni con terapie del tutto sbagliate. Sicuramente, i medici (a parte gli eterni e irriducibili ciarlatani) erano abbastanza scrupolosi e facevano tutto quel che potevano consentire loro le scarse conoscenze (in modo particolare nel primo Ottocento). Basti pensare che soltanto nel 1882, quando Robert Koch isolò il bacillo del colera, venne abbandonata la falsa credenza che il contagio si diffondesse attraverso i miasmi. Sifilide e gonorrea furono per secoli curate allo stesso modo, vale a dire con abbondanti dosi di mercurio, che procurava mali molto più gravi di quelli che si voleva guarire.
In più, O’Shea smentisce anche molte delle dicerie che hanno ingombrato superficiali biografie e in non pochi casi seriosissimi studi. Di certo, di ufficiale, c’è sempre poco. Lo scrupoloso studioso ritorna anche sulla trita vicenda di Salieri-Mozart. Non ci sono prove che Salieri avesse le conoscenze e le relazioni necessarie per commettere l’omicidio. Nel 1823 si autoaccusò di avere avvelenato il divino salisburghese. Ma a quel tempo era in piena demenza senile. La voce ebbe un tale successo, che attraverso Puskin è arrivata fino alla pièce di Shaffer e all’“Amadeus” di Milos Forman.
Eccessive, a giudizio dell’Autore, anche tutte le chiacchiere sul funerale: la cerimonia fu semplice, il «meno costoso fra quelli disponibili, ma non fu un funerale povero»; gli amici non seguirono il feretro di Mozart al cimitero di San Marco, attraverso il sobborgo della Landstrasse, ma non faceva parte delle convenzioni dell’epoca accompagnare il corpo a una fossa comune. E va smentito, per completare il capitolo-Mozart, anche il luogo comune della fine prematura. Il musicista del “Don Giovanni” morì a trentasei anni. Ma ancora nella prima metà del secolo XIX le aspettative di vita degli abitanti delle città era di soli trentotto anni. Perché tante storie sul prodigioso “fanciullo”? Molto probabilmente, come commenta O’Shea, è perché dopo due secoli non ci si è ancora rassegnati «alla grande tragedia della morte di Mozart».
I dati che questo Autore ha messo insieme sono davvero numerosissimi. E per ogni musicista bisognerebbe stare a ragionare per pagine e pagine. Le dicerie sono quasi tutte smentite. Erano in massima parte fantasie partorite ad hoc, perché non solo erano verosimili, ma così belle da non poter essere assolutamente considerate false. La morte di Beethoven, ad esempio, è così ricostruita: «Il 26 marzo [1827] fu un giorno tempestoso. Alle sei del pomeriggio, nel pieno di un temporale, Beethoven fu svegliato da un tuono e sembrò agitare il pugno contro il cielo. Ricadde sui cuscini e morì. La storia di Beethoven che sembra “agitare il pugno contro il cielo” in un ultimo gesto di sfida prima dell’oblio è stata respinta come una finzione romantica dalla maggior parte dei biografi di Beethoven. Eppure, questa è un’acuta osservazione clinica: chi muore di insufficienza epatica spesso risponde in maniera esagerata a stimoli improvvisi come una luce brillante. Questo è dovuto all’accumulazione di sostanze tossiche di rifiuto normalmente eliminate dal fegato. Il gesto di Beethoven può essere considerato come un riflesso meccanico dell’irritazione cerebrale che accompagna l’insufficienza epatica, non come un atto cosciente».
Niente miti, niente leggende metropolitane, dunque. Messo in disparte tutto il gran cascame romantico, fardello che per decenni ha relegato in un limbo la musica cosiddetta colta, O’Shea si sbilancia dal lato opposto, materializzando (umanamente) fin troppo i musicisti. Che la malattia faccia il genio è anch’essa una tesi romantica. Sicuramente, la sofferenza fa risaltare l’immensa forza con cui i maestri della musica hanno reagito al male fisico: sublimandolo, o almeno tenendolo lontano dai momenti folgoranti in cui esprimevano la loro magnifica arte.
   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000