Alle sei
del pomeriggio,
nel pieno di un temporale, Beethoven
fu svegliato
da un tuono
e sembrò agitare
il pugno contro
il cielo...
|
|
Si sapeva benissimo che Beethoven
era sordo. Si sapeva un po meno che amava bere il vino e che
morì di cirrosi epatica, e che per di più soffriva di
unirriducibile diarrea e di dolori addominali. La miopia di
Bach era leggendaria. Liszt finì col diventare morfinomane
e non disdegnava lalcol. Grainger era conosciuto come sadomasochista.
Schumann era praticamente pazzo. Mahler venne stroncato da unendocardite
ulcerosa. Il divino Paganini era affetto dal morbo di Marfan, vale
a dire una specie di distrofia del tessuto connettivo. Chopin era
notoriamente tisico e faceva un fortissimo consumo di oppio per lenire
una tosse fastidiosa. Mozart soffriva di insufficienza renale cronica.
Rossini fu ucciso da un tumore al retto, dopo anni di sofferenze per
terribili emorroidi e una gonorrea implacabile: passati i settantanni,
diventò così obeso che poteva camminare soltanto a costo
di unenorme fatica. Ravel era iperteso. Gershwin era talmente
ossessionato dalla calvizie da farne una malattia. Bizet morì
a trentasette anni, dopo tutta una vita segnata da una tormentosa
infezione alla gola e da palpitazioni cardiache. Brahms sarebbe deceduto
per un cancro al fegato. Mussorgskij fu costretto a interrompere la
sua carriera quando sopraggiunse una forma acuta di delirium tremens...
A tener conto di tutte le patologie che avevano colpito questi geni
della musica, si affollerebbe persino il sanatorio della Montagna
incantata di Thomas Mann. Eppure, è proprio questo il quadro
desolante che emerge da un libro a suo modo avvincente scritto da
John OShea (Musica e Medicina. Profili medici di grandi compositori).
Lautore è medico e storico della medicina, e si è
preso la briga di andare a investigare in archivi di mezzo mondo,
dalla Polonia a Melbourne, dove ha avuto occasione persino di scambiare
varie opinioni con il dottor Peter Davies, «autorità
mondiale in fatto di malattie mozartiane».
Coloro i quali hanno letto gli intriganti delitti per amici della
musica raccolti nel libretto di Ernst W. Heine (Chi ha ucciso Mozart?
Chi ha decapitato Haydn?), potrà mettere da parte tutto il
romanzesco e attingere più concretamente alla fonte della scienza.
Lo scopo del libro è «quello di valutare non solo la
sintomatologia delle malattie che hanno colpito alcuni dei grandi
compositori, ma anche il grado di invalidità fisica ed emotiva
che oppresse la loro vita, cercando di determinare quanto abbia influito
sul loro lavoro». Ma limpressione è quella di avere
davanti una lunga autodifesa della categoria, accusata per secoli
di aver seppellito i grandi geni con terapie del tutto sbagliate.
Sicuramente, i medici (a parte gli eterni e irriducibili ciarlatani)
erano abbastanza scrupolosi e facevano tutto quel che potevano consentire
loro le scarse conoscenze (in modo particolare nel primo Ottocento).
Basti pensare che soltanto nel 1882, quando Robert Koch isolò
il bacillo del colera, venne abbandonata la falsa credenza che il
contagio si diffondesse attraverso i miasmi. Sifilide e gonorrea furono
per secoli curate allo stesso modo, vale a dire con abbondanti dosi
di mercurio, che procurava mali molto più gravi di quelli che
si voleva guarire.
In più, OShea smentisce anche molte delle dicerie che
hanno ingombrato superficiali biografie e in non pochi casi seriosissimi
studi. Di certo, di ufficiale, cè sempre poco. Lo scrupoloso
studioso ritorna anche sulla trita vicenda di Salieri-Mozart. Non
ci sono prove che Salieri avesse le conoscenze e le relazioni necessarie
per commettere lomicidio. Nel 1823 si autoaccusò di avere
avvelenato il divino salisburghese. Ma a quel tempo era in piena demenza
senile. La voce ebbe un tale successo, che attraverso Puskin è
arrivata fino alla pièce di Shaffer e allAmadeus
di Milos Forman.
Eccessive, a giudizio dellAutore, anche tutte le chiacchiere
sul funerale: la cerimonia fu semplice, il «meno costoso fra
quelli disponibili, ma non fu un funerale povero»; gli amici
non seguirono il feretro di Mozart al cimitero di San Marco, attraverso
il sobborgo della Landstrasse, ma non faceva parte delle convenzioni
dellepoca accompagnare il corpo a una fossa comune. E va smentito,
per completare il capitolo-Mozart, anche il luogo comune della fine
prematura. Il musicista del Don Giovanni morì a
trentasei anni. Ma ancora nella prima metà del secolo XIX le
aspettative di vita degli abitanti delle città era di soli
trentotto anni. Perché tante storie sul prodigioso fanciullo?
Molto probabilmente, come commenta OShea, è perché
dopo due secoli non ci si è ancora rassegnati «alla grande
tragedia della morte di Mozart».
I dati che questo Autore ha messo insieme sono davvero numerosissimi.
E per ogni musicista bisognerebbe stare a ragionare per pagine e pagine.
Le dicerie sono quasi tutte smentite. Erano in massima parte fantasie
partorite ad hoc, perché non solo erano verosimili, ma così
belle da non poter essere assolutamente considerate false. La morte
di Beethoven, ad esempio, è così ricostruita: «Il
26 marzo [1827] fu un giorno tempestoso. Alle sei del pomeriggio,
nel pieno di un temporale, Beethoven fu svegliato da un tuono e sembrò
agitare il pugno contro il cielo. Ricadde sui cuscini e morì.
La storia di Beethoven che sembra agitare il pugno contro il
cielo in un ultimo gesto di sfida prima delloblio è
stata respinta come una finzione romantica dalla maggior parte dei
biografi di Beethoven. Eppure, questa è unacuta osservazione
clinica: chi muore di insufficienza epatica spesso risponde in maniera
esagerata a stimoli improvvisi come una luce brillante. Questo è
dovuto allaccumulazione di sostanze tossiche di rifiuto normalmente
eliminate dal fegato. Il gesto di Beethoven può essere considerato
come un riflesso meccanico dellirritazione cerebrale che accompagna
linsufficienza epatica, non come un atto cosciente».
Niente miti, niente leggende metropolitane, dunque. Messo in disparte
tutto il gran cascame romantico, fardello che per decenni ha relegato
in un limbo la musica cosiddetta colta, OShea si sbilancia dal
lato opposto, materializzando (umanamente) fin troppo i musicisti.
Che la malattia faccia il genio è anchessa una tesi romantica.
Sicuramente, la sofferenza fa risaltare limmensa forza con cui
i maestri della musica hanno reagito al male fisico: sublimandolo,
o almeno tenendolo lontano dai momenti folgoranti in cui esprimevano
la loro magnifica arte. |