Giugno 2002

VITTORE FIORE

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Parole di sconfinato amore
Antonio Errico
 
 

 

 

 

E' una poesia
attraversata,
tramata
di nostalgia:
il passato
non dà conforto
nè consolazione.

  Su una terrazza di Castro, nella sera lucida e morbida di un agosto alla fine, Vittore Fiore raccontava: storie di lotte, di confino; di poesia come lotta, di confino come poesia di libertà. Raccontava di meridione, di civiltà, come fosse una fiaba.
Come se scrivesse – come aveva scritto – diceva di quell’ottobre del quarantadue quando, appena ritornato dal confino, la polizia lo consegnò ad un reggimento di fanteria di stanza a Galatone e a Copertino. Diceva delle riunioni clandestine in una casa sulla ferrovia che ingoiava speranze e paure e libri, delle discussioni sulla questione meridionale, dell eprevisioni di una distruzione dei paesaggi. Diceva degli amici, delle passioni.
Aveva avuto un buon maestro, Tommaso, suo padre, che nel Popolo di formiche aveva scritto: «Anzitutto la Puglia è un’espressione archeologica. La nostra vita fu».
Suo padre morì nel giugno del settantatre, e Vittore non fece in tempo a leggergli Il male è dentro di noi. Ma forse non gli importava leggerglielo; non più. A quel punto gli interessava solo impossessarsi di una sua parola, di un suo gesto. A quel punto non si trattava più di avere da lui un giudizio, ma un contatto fuggevole ed intenso. Allora gli bastò che gli sorridesse con gli occhi luccicanti, senza togliergli lo sguardo di dosso.
Ma alla fine del Male è dentro di noi lo salutava: da uomo a uomo. Senza disperazioni, con la consapevolezza che il tempo è così, che così è la vita, come si saluta un vecchio amico che parte, dicendogli soltanto arrivederci: «E allora? Dici che sei alla fine?/ Tommaso Fiore guarda in faccia alla morte./La Puglia oggi è triste./Arrivederci, arrivederci».
Su una terrazza di Castro, dove si tagliavano a fette le parole contro i seni azzurri delle grotte, in una di quelle estati dalle notti senza fine, col tempo dai confini labili, imprecisi, di belle compagnie senza un’assenza, di pensieri e di progetti, Vittore Fiore raccontava della vita che fu, come solo un personaggio che ha vissuto la storia sulla propria pelle può e sa raccontare.
Al largo brulicavano lampare.
Anni dopo scrisse: Castro, non dirmi cento volte addio.
Il pomeriggio del dieci di maggio del novanttatre, nella chiesa di Caprarica toccava a lui dire qualcosa per salutare Antonio Verri a nome di tutti.
Toccava a lui.
Dalla tasca della giacca grigia sfilò un libro intitolato Luoghi di frontiera, una raccolta di racconti di Verri aveva curato mettendo insieme un pò di amici.
Cominciò a leggere: «C’è un merlo in casa di mia madre...». Le mani gli tremavano. La voce gli tremava. Ma doveva andare avanti perché toccava a lui.
«C’è un merlo in casa di mia madre...».

Quando morì, il 21 gennaio del novantanove, si sarebbe dovuto scrivere da qualche parte – su un giornale,un muro, un menhir –: la Puglia oggi è triste. Ma l’aveva già scritto lui. Aveva già chiuso lui con queste parole Il male è dentro di noi. Perché della Puglia Vittore Fiore aveva scritto anche gli addii. Aveva scritto: le radici, i miti, gli affanni, le utopie, i sogni, le prospettive, le forze di energia creativa, di cultura, di erudizione, di abbandono e di arretratezza, e dei paesi avvinghiati alla tradizione e all’origine, degli uomini che si sentono sicuri all’ombra di sontuosi campanili, delle ragioni, delle illusioni, delle delusioni, delle rabbie, degli amori che si accendono e si spengono nell’intrico dei vicoli assediati dall’afa delle sere.
Forse non c’è un solo elemento della terra che non venga assorbito e rigenerato semanticamente nella sua “poesia lunga”, che non venga messo o rimesso in discussione; non c’è nessuna ragione, oltre a quella della libertà e della coscienza critica, che non venga scandagliata da una parola poetica che non vuole essere altro che concreta espressione di quella libertà e di quella coscienza.
E’ una poesia aperta quella di Vittore Fiore, che trova motivi e moventi, origini e fini, nel dubbio, nelle costanti interrogazioni, nelle riflessioni su quello che si è fatto o non si è fatto, nelle lucide analisi di fatti e occasioni, ma anche nelle solitudini, nelle tristezze profonde, nei rimpianti, nei colori del paesaggio, nel passaggio delle stagioni, negli spazi vuoti che lasciano il tempo e gli esseri che vanno, nei baratri scavati dai dolori.
E’ una poesia attraversata, tramata di nostalgia: il passato non dà conforto né consolazione. Il passato risucchia il presente, lascia un groppo alla gola, trattenuto, nascosto soltanto per una ragione superiore: la priorità della storia collettiva su quella personale, la consapevolezza che quello che si è fatto a qualcosa è servito, che tutto è andato esattamente così come doveva andare: con le vittorie che a volte hanno un sapore di sale, con le sconfitte che a volte hanno anche il loro miele, vissute sempre con la stessa identica umiltà, con il rimpianto e il rammarico che hanno un peso uguale, con quel desiderio confuso di tornare indietro e di continuare a cercare, ma senza lasciarsi neppure sfiorare dalla tentazione di fermarsi nel punto in cui si è arrivati. Mai.
Ma anche la sentinella all’erta sull’altana ha bisogno di chiudere gli occhi, un solo istante.
A quel punto, per un solo istante, tutto si fa lontano, diventa tutto estraneo, tutto diventa una vertigine soltanto, un capogiro, un macigno di stanchezza che rovina sopra il cuore.
A quel punto ha solo desiderio di sognare; ha solo bisogno di quella fantasmagoria che si accende dentro gli occhi nel dormiveglia pacato, riposante.
A quel punto Vittore Fiore ha solo parole d’amore .
Quando il tramonto non è altro che un tramonto, e una luna è una luna e nient’altro, quando la terra assomiglia ai fianchi di uan donna, quando il mare ha il colore di occhi lontani, il futuro il colore di un abbraccio, quando dal passato emergono leggere campanule, Vittore Fiore diventa tenero poeta d’amore. Ma sempre di un amore trascorso o di un amore presente che si intristisce nella consapevolezza di dover passare, inevitabilmente.
Certo, come ogni uomo Vittore vorrebbe alzare bastioni contro il tempo. Come ogni uomo vorrebbe impossessarsi delle ore.
Ma come ogni uomo può solo rassegnarsi o disperarsi.
L’amore ha la concretezza di un fantasma: appare colmando vuoti, scompare riaprendo vuoti.
Vuoti che si aprono e si chiudono. Si riaprono e si richiudono.
Vivere nella speranza di chiudere temporaneamente i vuoti; trasformare la realtà che si sfarina in un più durevole sogno aspettare che una stretta di mano ridia un leggero tremore; illudersi che possa esserci tempo per altri incanti ancora.
L’amore è un brivido di angoscia, di paura. E’ un’ombra di poesia, un’eco che ritorna, che rincomba nell’esistenza, che mantiene vivi i ricordi, tutti i ricordi che fanno da rifugio, che aprono e chiudono la scena: la scena della vita: anch’essa – volte – un vuoto da cui ci si salva con la stessa vita, con lo stesso vuoto.
Passano i giorni, uno dopo l’altro. Passano e si perdono, in quel vuoto. Restano le ferite, le caute illusioni, gli infiniti furori, le domande concluse, le risposte mai date, le parole cresciute come fossero figli e figli dei figli.
Resta il passo incerto, una confusa direzione. Il cerchio si stringe intorno agli anni. I sogni si fanno più rari, dolorosi. Diventano scheletri d’altri sogni, affanni misteriosi che inquietano le notti e i giorni.

L’amore è uno sconfinamento, la lacerazione di regole e forme consolidate dalle vicessitudini e dal tempo, una sapiente via per la conoscenza.
Ma quello che c’è da conoscere Fiore lo sa bene.
Dove porti questa via, verso quale orizzonte, verso quale esperienza del vivere, quale condizione dell’essere, Fiore lo sa bene.
Sa che a strada fatta si trova l’orlo nell’abisso, si trovano i buchi nel cuore, lo aspettano le estreme contese, un abbraccio totale e finale degli istanti avuti in concessione. Così si chiede: «Quanti giorni restano, in segreto,/per esprimere parole, poche, /sull’amore».
L’amore è parola ultima. Definitiva, Essenziale. E’ parola che stringe, ad un tempo, la memoria e l’oblio. E’ parola che contiene, ad un tempo, il ritorno e la fuga, la vita e la morte, realtà e fantasia, l’incanto, il turbamento, lo stupore, l’evento della speranza che richiama come una sirena, che seduce come una giovinezza, che rapisce come una malia, che dà un senso all’aver lottato, all’aver scritto, all’aver sognato. All’aver vissuto.

   
   
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