Giugno 2002

RADIOGRAFIA DEL SUD

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Il decollo possibile
AA. VV.
guido de marchi alberto pandolfi renato d’anna
 
 

 

 

Tre momenti da tenere bene
a mente: perché solo dopo che tutti i Sud del Sud
saranno stati
recuperati,
il Mezzogiorno
e l’Italia potranno dirsi veramente ancorati
all’Europa.

  Negli ultimi anni, l’economia meridionale ha più volte segnalato di avere invertito il trend negativo in atto dal 1992, portandosi a un livello di crescita che lascia sperar bene per il futuro. Naturalmente, questi segnali non sono privi di contraddizioni e di limiti, e tuttavia è necessario registrarli e renderli noti all’opinione pubblica, che spesso ha del Mezzogiorno l’immagine di un’economia e di una società statiche, che ormai non corrispondono più alla realtà.

Più iniziative imprenditoriali. Per il quinto anno consecutivo, il Sud ha messo in carniere il primato della crescita di nuove imprese, con oltre 45 mila nuove unità, cifra parecchio più alta rispetto alle 29 mila del Nord-Ovest, alle 25 mila del Centro e alle 20 mila del Nord-Est.
E’ probabile che una parte di queste imprese siano soltanto formalmente “nuove”, trattandosi di regolarizzazioni di imprese già sommerse. Ma anche così non viene meno il motivo di essere ottimisti. Infatti, il mondo politico e industriale ha posto come condizione di strategia dell’attenzione per l’intero Paese l’emersione delle imprese “in ombra”, fenomeno che in Italia rappresenta il doppio della media europea e nel Sud si aggrava ulteriormente.
Rimangono, comunque, un carico fiscale eccessivo e un’estrema rigidità del mercato del lavoro, che inducono molto spesso le imprese meridionali a restare nel sommerso, con implicazioni economiche e sociali di estrema gravità.

I successi dell’export. Le esportazioni provenienti dalle regioni meridionali sono cresciute negli ultimi cinque anni del 67 per cento, contro una media nazionale del 35 per cento. Si tratta di un dato estremamente interessante, e sicuramente sottostimato, perché non comprende i semilavorati che entrano nei prodotti esportati dalle regioni centro-settentrionali.

Più lavoro. L’occupazione, inchiodata alla cifra di 5,7 milioni di unità fino al 1997, ha ricominciato a crescere, superando i sei milioni, facendo sì che per la prima volta, dopo molti anni, il tasso di disoccupazione scendesse, anche se di poco, al di sotto del 20 per cento.
E tuttavia, mentre il Centro-Nord ha raggiunto il livello di occupazione del 60 per cento, pari alla media europea, nel Sud lavorano solo 42 persone su cento in età lavorativa. E’ un divario assolutamente inaccettabile per un Paese come il nostro, che vuol giocare un ruolo di primo piano nella competizione internazionale. Una ragione di più, questa, per smetterla di considerare il Sud la palla al piede dell’Italia e ritenerlo invece la sua più grande opportunità di sviluppo.
Nel Mezzogiorno vivono oltre sei milioni di giovani (con età fra 15 e 34 anni). Di questi, soltanto tre su dieci lavorano. Giovani con un’istruzione media di buon livello, con una voglia crescente di rimboccarsi le maniche e costruire il proprio futuro in modo propositivo. Inoltre, nel Mezzogiorno non mancano gli spazi che nel Nord sono sempre più ristretti. Anche lo sviluppo delle nuove tecnologie è da considerarsi una grande opportunità del Sud, perché annulla o almeno riduce fortemente la perifericità delle imprese localizzate nelle regioni meridionali.
Eppure, questi elementi non sembrano sufficienti a fare del Sud una destinazione attraente per chi voglia investire. Sappiamo che l’Italia è agli ultimi posti nella classifica europea di attrazione di investimenti (un mercato di ben 620 miliardi di euro: a tanto ammontano gli investimenti esteri entrati nell’Unione europea nel 2000, di cui in Italia sono arrivati soltanto 11 miliardi, cioè il 2 per cento), ma soprattutto è sconfortante scoprire che solo il 7 per cento dei posti di lavoro prodotti in Italia dagli investimenti stranieri sono localizzati nel Mezzogiorno.
Occorre sostenere con forza la necessità, da qui al 2006, di accelerare al massimo l’economia meridionale, di innestare un fattore di crescita almeno doppio rispetto all’attuale, che consenta di realizzare un deciso riequilibrio con la parte più sviluppata del Paese. Questo è possibile, ce lo dicono numerosi esempi di Paesi che con politiche economiche mirate in pochi anni sono riusciti a ottenere trend di sviluppo tali da annullare divari storici di reddito e di occupazione.
Fra l’altro, se non ci riusciamo oggi, sarà molto più difficile farlo in futuro, perché il sostegno dei fondi comunitari, per qualche anno ancora, focalizzerà sulle regioni del Mezzogiorno ingenti risorse, mentre negli anni successivi al 2006 è destinato inevitabilmente a ridursi con l’allargamento dell’Unione ai Paesi dell’Est. Così pure in questo periodo occorre impegnarsi a fondo per realizzare l’Area di libero scambio euro-mediterranea, progetto che può ridare al Sud centralità strategica e farne il perno di una strategia di stabilità e di pace per il mondo intero.
Ma come è possibile raggiungere questo obiettivo? Non c’è che una sola strada, obbligata: far crescere le imprese esistenti e attrarre nuovi investimenti nel Mezzogiorno. Per far questo è indispensabile superare gli handicap strutturali che riducono la competitività delle nostre regioni. Quali sono?
1) La sicurezza, intesa come rafforzamento del controllo sul territorio e lotta ai cartelli del crimine organizzato e agli altri fenomeni di illegalità diffusa e di lavoro nero.

2) Sviluppo delle infrastrutture, il che significa adeguamento dei sistemi idrici, elettrici, di trasporto, eccetera, agli standard europei, (oggi il livello medio è inferiore al 50 per cento).

3) La politica fiscale, attraverso una riduzione delle imposte sulle imprese e un sistema di incentivi automatici che spinga fortemente verso il Sud nuovi investimenti dal Centro-Nord e dall’estero.

4) La rigidità del lavoro, ancora più pesante a Sud a causa della mancanza di opportunità, per cui la scelta di un giovane meridionale ancora oggi troppo spesso è tra rimanere disoccupato, entrare nell’illegalità o nel lavoro nero e senza alcuna tutela, emigrare.

Per avviare a soluzione questi problemi, siamo convinti che sia necessario costruire da subito una strategia condivisa fra imprese, amministrazioni, mondo del lavoro, che con diversi ruoli sappiano farsi protagonisti di una straordinaria stagione di rilancio del Sud, se davvero desideriamo che il Mezzogiorno, con uno sforzo comune anche di tutta la sua classe dirigente, riesca a superare i suoi secolari problemi, dare un contributo di vitalità e di energie alla competitività internazionale dell’Italia, diventi la reale nuova frontiera di crescita e di equità sociale per il Paese.

Guido De Marchi


Ci chiediamo, per l’ennesima volta: quanti Sud ci sono? Il Sud non è un pianeta indistinto, omogeneo. La sua geografia economica, produttiva, sociale, non può cogliersi con un unico colpo d’occhio, caleidoscopica com’è, con aree sviluppate contigue ad aree arretrate, con nuclei industriali che fronteggiano nuclei agricoli, con zone artigianali che sono speculari a zone a disoccupazione permanente, con centri ad alta densità demografica circondati da centri quasi del tutto deserti per via dell’emigrazione senza ritorni.
Ci sono dei Sud, e ci sono dei Sud del Sud a formare il pianeta Mezzogiorno. Ci sono gli “ultimi”, gli esclusi, gli emarginati, gli immobili, gli inerti: quelli che per ragioni orografiche, storiche, sociali, formano ancora oggi l’“osso” del Mezzogiorno, nuclei di espulsione delle forze giovani, con redditi assistenzialistici, con rischio di desertificazione umana. Ma sono tutti Sud senza speranza?
E’ stato sottolineato che «l’universo degli ultimi ha la sua geografia, i suoi confini, le sue differenze». Ha luoghi precisamente individuati, una propria fisionomia, persino un proprio lessico. E un proprio mestiere di vivere, che non è eterno preludio consolatorio a un’esistenza sospesa nel tempo, ma un modo “altro” di scovare le opportunità di crescita, più lenta, forse, meno riconosciuta, sicuramente: un modo di abbandonare i vecchi ritmi antropologici e un tentativo di entrare in una dimensione più moderna, o meno antica, e di mettersi al passo con i tempi. Sono parecchi, questi Sud che non intendono più essere Sud del Sud, e non soltanto per puro spirito di emulazione, per semplice competitività, ma perché è nella natura dell’uomo, nella sua psicologia, nel suo codice genetico la condizione del risveglio, che può emergere d’improvviso, esplodere senza avvisi preventivi e proporsi come sfida per la crescita.

Qualche esempio, a proposito di Sud ritenuti irredimibili. Gela, in Sicilia; la calabrese Locride; la Barbagia, in Sardegna: tre nomi di aree che fino a ieri solo a pronunciarli mettevano paura, nomi di regioni difficili, sconosciuti alla maggior parte degli italiani, nomi di universi storicamente oscuri, liquidati dall’opinione pubblica con sommaria superficialità. Eppure in ciascuno ci sono fermenti sconosciuti fino a dieci anni fa soltanto, ci sono nuovi protagonismi sociali ed economici, c’è una leva di giovani che intraprende, rischia, esce allo scoperto, intreccia relazioni, produce, esporta.
Gela, ad esempio. Area del caos urbanistico, della malavita rapace, della microcriminalità diffusa, della corruzione endemica. Questa Gela, ora, non è più l’inferno. Quanti di noi sanno che qui c’è uno dei musei della Magna Grecia più belli del mondo? Quanti hanno appreso che due altari del V secolo a.C., ritrovati per caso qualche anno fa sotto una montagna di sabbia, sono stati esposti per sei mesi al parigino Louvre, che ha dedicato a queste opere uniche una mostra monografica? Quanti sanno che Gela è diventata una delle pochissime città del Sud in cui tutti gli studenti, dalle elementari alle medie, hanno diritto a una refezione di qualità in edifici scolastici modernissimi, messi su uno dopo l’altro negli ultimi sei anni? E non è finita: Gela ha messo su una delle aree industriali più moderne della Sicilia. Novità assoluta anche questa. Ci sono sessanta aziende che producono per il mercato e spesso esportano anche oltre i confini europei, e dunque del tutto sganciate dalla sempre meno incombente presenza del petrolchimico.
Piccoli, ma incoraggianti segnali si colgono anche nella Locride, dove è bastato un vescovo di buona volontà, Giancarlo Bregantini, per trapiantare la cultura della cooperazione trentina in questo lembo dimenticato della Calabria. In tre anni, duemila metri quadrati di serre sono diventati 150 mila. E nelle cooperative lavorano anche figli di mafiosi che per la prima volta nella loro vita si sono trovati di fronte a un’alternativa. Intendiamoci: è ovvio che non sia sufficiente un buon prete per cambiare una realtà tendenzialmente omertosa, dove le occasioni di sviluppo sono molto rare. Ma la sensazione che si coglie è che dopo un’epoca infinita anche qui la ‘ndrangheta, la “mafia dalle scarpe lucide” di una volta, quando non uccideva, dunque prima della mutazione in una mafia a servizio permanente dell’omicidio, sia stata costretta a mollare una parte del suo potere, rinunciando, forse non solo apparentemente, all’egemonia culturale in presenza della quale sarebbe stato impossibile persino ipotizzare l’emancipazione della società civile.
Così anche per la Barbagia, terra nella quale va morendo, lentamente ma costantemente, il terribile codice di leggi non scritte, ma applicate con inesorabile puntualità. Isola nell’isola, territorio aspro e di incomparabile bellezza, dove sopravvivono pezzi di Medioevo; terra aliena all’autorità, soprattutto se promana dallo Stato; terra delle cronache dei sequestri di persona, di centinaia di attentati che ogni anno colpiscono chiunque abbia autorità pubblica, compresi i sindaci e i professori di scuola media. Terra nella quale oggi si sta cominciando a crescere con iniziative imprenditoriali autoctone: e ogni intrapresa che vi si alloca è uno spiraglio di luce che si apre nella crosta barbaricina, una ferita inferta al chiuso mondo neolitico che ha vissuto quasi senza soluzione di continuità di pastorizia e di isolamento, di ferocia e di incomunicabilità.
Tre esempi, dunque. Tre Sud del Sud che con vitalità endogena si vanno riscattando, allineandosi grado a grado alla cultura più evoluta che li circonda. Tre momenti da tenere bene a mente: perché solo dopo che tutti i Sud del Sud saranno stati recuperati, il Mezzogiorno e l’Italia potranno dirsi veramente ancorati all’Europa.

Alberto Pandolfi


Dati Svimez: l’occupazione nel Sud ha registrato dati eccellenti, indicando per il 2001 un incremento del 2,7 per cento rispetto all’anno precedente, e questo a fronte dell’1,8 per cento segnalato per il Centro-Nord. Si erode lievemente lo storico divario, mentre una discreta industrializzazione si esprime attraverso forme di elevata innovazione tanto organizzativa (nelle strutture imprenditoriali e soprattutto nei sistemi territoriali a carattere distrettuale) quanto per le alte tecnologie impiegate. L’industria si pone correttamente in posizione complementare rispetto all’agricoltura, settore che sostiene forti esportazioni, e al turismo, che costituisce il necessario supporto per un’efficiente terziarizzazione, fenomeno anch’esso in fase di espansione, nel cui contesto nascono le nuove imprese incentrate prevalentemente nella new economy.
La new economy trova fertili ambiti di incubazione grazie ai diversi bacini universitari che testimoniano come il Sud, attualmente, possa contare su una fondamentale infrastruttura immateriale, che costruisce e consolida anno per anno un patrimonio culturale che sa proporre il mercato come elemento prioritario rispetto agli interventi protezionistici dello Stato.
Alle zone di luce che queste situazioni esprimono, continuano a sovrapporsi però non poche zone d’ombra: fra queste, sicuramente, la più importante è la questione morale collegata ai problemi di criminalità organizzata presente e, purtroppo, in costante espansione proprio tra i giovani, anzi tra i giovanissimi, nell’attuale legislazione tra i soggetti meno incriminabili. Torna in mente quanto diceva Pasquale Saraceno nel Rapporto del 1989: «Insomma, se la storia recente ha profondamente cambiato i termini economici e tecnici della questione meridionale, la sua essenza resta quella indicata dai grandi meridionalisti del passato: quella, cioè, di una grande questione etico-politica, che investe le stesse fondamenta morali della società nazionale e dello Stato unitario... Da troppo tempo le notizie di delitti, provenienti da alcune regioni meridionali, si susseguono con frequenza impressionante... Il Mezzogiorno sempre più si impone all’attenzione dei non meridionali come una grande questione di ordine pubblico. Sembra talvolta affiorare addirittura la tentazione di una semplicistica identificazione della questione meridionale con la questione criminale».
Questo aspetto negativo di fondo si è consolidato anche perché, nonostante i tanti fattori positivi, tende a sopravvivere ancora oggi l’immagine di un «Sud impastato di torpori e di compromissioni, di affarismo e di politicantismo, di norme deformate e deformanti, e di valori premoderni», come scrive Sergio Zoppi (ex presidente del Formez), in una recente pubblicazione, Una lezione di vita. Saraceno, la Svimez e il Mezzogiorno, dedicata in particolare alla figura e all’esperienza di Pasquale Saraceno (1903-1991), coideatore e presidente (1974-1991) dell’Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, che predispone ogni anno un Rapporto sull’economia delle regioni meridionali.
Secondo Zoppi, il grande obiettivo di Saraceno era sempre stato l’unificazione economica dell’Italia attraverso l’industrializzazione meridionale. Questo processo stentò a decollare finché si tentò di imporlo forzosamente, con gli interventi straordinari a favore delle regioni meridionali, ma poi si è andato sviluppando in maniera abbastanza autonoma al termine di quegli interventi, avviandosi verso un vero e proprio take-off, che ha anche portato ad una terziarizzazione dell’economia. Si assiste allora a un nuovo fenomeno: un forte incremento della propensione verso l’autonoma imprenditorialità, sorretta in particolare dalle nuove tecnologie dell’informatica e della comunicazione. Un fenomeno, questo, in forte controtendenza rispetto all’atavica inclinazione meridionale di mettersi alla ricerca di un posto fisso nel contesto degli apparati statali.
Un’ultima parola, a proposito delle polemiche sulla Cassa per il Mezzogiorno, che ebbe appunto funzione prevalente di finanziamento: furono proprio i flussi finanziari destinati agli appalti dei grandi lavori pubblici a innescare circoli viziosi, nei quali trovò spazio anche la criminalità organizzata. Ma furono anche quelle opere a creare infrastrutture indispensabili per regioni che partivano da un totale sottosviluppo storico, reso ancora più drammatico dagli eventi bellici. Questa lezione del passato serva per il futuro del Sud.

Renato D’Anna

   
   
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