Giugno 2002

CONVENZIONE EUROPEA: SCENARI RIFORMISTI E VOGLIA DI UTOPIA

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Sogni buoni e cattive abitudini
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

Occorre pensare
ad un impianto
costituzionale che non sia preda del vetero capitalismo dei clan, che non
riduca l’ideologia del libero mercato ad una mera
riverniciatura della proprietà aziendale.

  Quando si trattano temi europei si avverte un’aria imbarazzata d’inadeguatezza. Inadeguatezza delle istituzioni, inadeguatezza delle proposte. Il cittadino europeo assomiglia all’uomo di un nostro caro poeta, Giorgio Caproni: «M’ero sperso. Annaspavo. Cercavo uno sfogo. Chiesi a uno: “Non sono” mi rispose “del luogo”». Lo smarrimento non può essere colmato dalla voce dei guitti che diventano falsari quando continuano ad alimentare un trito buonismo di maniera. Dopo l’Unione monetaria la retorica dell’integrazione non paga.
Sarebbe fatale se una tentazione in tal senso prendesse anche gli addetti ai lavori della Convenzione europea che hanno il compito di avanzare proposte per avvicinare l’Europa ai cittadini.
Noi non apparteniamo alla schiera degli euroscettici. Siamo convinti tuttavia che la fede europea non si misura con il pallottoliere della politica. Esistono movimenti collettivi diffusi, spesso ignorati o inascoltati dalla cultura dei Palazzi, ma ugualmente creatori di correnti culturali e stili di vita. Ragionando sul filo della memoria val la pena ricordare che è nei movimenti l’atto di nascita della Riforma protestante e delle moderne democrazie occidentali: Stati Uniti, Germania, Francia, Italia. Adesso non c’è un “movimento europeo” secondo i canoni ottocenteschi, ma vi sono movimenti collettivi che a vario titolo si identificano con le ragioni moderne dell’integrazione (difesa dell’ambiente, tutela dei consumatori, ecc.). Circolano molte preoccupazioni che in parte sottoponiamo a chi ora ha il compito di dare norme e normalità al funzionamento della futura democrazia europea (l’ampliamento previsto per il 2004 non sarà l’unico, altri Stati seguiranno per convenienze di bandiera e per opportunità economica).

L’adozione di regole e di istituti che intendono promuovere e garantire lo sviluppo di democrazie maggioritarie o di coalizione dev’essere accompagnata da regole chiare per la tutela delle minoranze (non si identificano solo con le etnie). Questa preoccupazione era già presente nel dibattito costituente degli Stati Uniti (Federalist 1788) dove ne furono decisi portavoce Madison e Jefferson, due futuri Presidenti. Ora è anche riproposta con le problematiche odierne nel Rapporto sulla governabilità della democrazia, elaborato da Huntington e altri per la Commissione Trilaterale.
Nella forbice tra il vecchio principio della rappresentanza e il nuovo principio della sussidiarietà sono racchiusi furbizie e paradossi che alimentano molte critiche di legittimità. Anzitutto nel metodo. Si è deciso di varare una riforma dei trattati e una bozza di Carta costituzionale senza dibattito pubblico, senza una Costituente espressa da mandato popolare, con verifiche e passaggi tutti interni al potere costituito. La cornice normativa che si cerca di produrre non sarà certo motivata da fughe in avanti, da ragioni di stravaganza, ma non può neanche essere motivata da ragioni di omologazione dell’impianto esistente. Un cattivo passato non giustifica un cattivo futuro.

C’è il rischio che un lavoro di alto profilo storico subisca la suggestione del “mercato politico”, cioè di quel certo calcolo costi/benefici che presiede alla gestione del consenso elettorale. Quasi una commessa affidata a prestigiosi advisor abituati a navigare tra interessi e alleanze a geometria variabile.
I neofiti dell’Europa sono depositari di molti veleni. Non potendo incorporare nella realtà costituente segnali tangibili di società regressive bisognerà lavorare per incoraggiare i valori dell’inclusione e della solidarietà, con l’intento di sconfiggere delusioni e povertà storiche. Tuttavia, sarà difficile conseguire risultati se nel dibattito costituente prevarrà la “virtù della prorogatio”, istituzionalizzando in un unico modello di democrazia reale l’assenza di beni di consumo e il rifiuto del consumismo.

Occorre avere dei problemi una visione sistematica e una coscienza consapevole della forte interconnessione che caratterizza i comportamenti delle istituzioni e degli attori dello sviluppo. E’ il prodotto della globalizzazione, cioè di quel fenomeno che ha fatto saltare tutte le regole e assegna al conflitto (l’altra faccia della concorrenza monopolistica) l’unico carattere di permanenza e continuità (la guerriglia globale ha nella distruzione delle torri gemelle l’evento più appariscente). Assistiamo invece ad una cultura politica dominata dal decisionismo verticistico (a livello comunitario, statale, regionale, locale), poco interessata all’evoluzione dei processi di rappresentanza, al recupero delle forze sociali, lasciate navigare in bassa marea, senza sedi di partecipazione dove far crescere e maturare le direttrici dello sviluppo (Carl Schmitt parla di distacco della politica e del diritto dal territorio).
La tendenza a far coincidere la rappresentanza con l’investitura popolare porta a depotenziare il ruolo contrattualista della Società civile, porta a tentazioni di direttorio che non possono interpretare il buon governo di società complesse in cui si esprimono interessi molteplici e differenziati.
Un’altra preoccupazione nasce dalle forti asimmetrie presenti tra le politiche nazionali di mercato in vista della realizzazione di un mercato unico europeo. Abbiamo l’euro. Ma un assegno in euro emesso in Italia non viene ancora cambiato in Francia. E’ un segnale forte di politica monetaria, ma poi occorre far funzionare i meccanismi della concorrenza.
Con la recente approvazione nel Parlamento europeo del “Rapporto Lanfalussy” è aperta la strada per la creazione di un mercato azionario integrato e la completa unificazione dei mercati finanziari. Ma restano aperte molte questioni in tema di diritto societario e di certificazione dei bilanci (con un mandato che dura nove, dieci anni si creano rapporti troppo stretti tra certificatore e impresa). Inoltre, i grandi operatori vendono consulenza alle società che devono collocare i propri titoli sul mercato, ma contemporaneamente svolgono la stessa attività per soggetti che devono comprare quei titoli. Sono palesi conflitti di interessi intrinseci che richiedono maggiore attenzione nell’attività di vigilanza. Sono in ballo i temi cruciali della trasparenza dei bilanci societari (chi rivede i revisori?), della corretta informazione e della tutela delle minoranze azionarie.
Inoltre il nuovo quadro giuridico societario può procurare sorprese inquietanti. La rigidità della normativa comunitaria (regolamento per l’istituzione della SE-Società per azioni europea) nei distretti con economia fragile (quelli che hanno bisogno di maggiore sviluppo) può determinare crisi di rigetto, possibili fughe da organizzazioni complesse e controlli. Semplicemente perché il costo del passaggio alla legalità può risultare superiore al costo e ai rischi dell’operare nella precarietà. Manca anche una politica degli investimenti nelle banche, che non possono trasformarsi solo in supermercati del risparmio.
Con riferimento ai mercati finanziari, particolare attenzione va posta alle obbligazioni emesse dagli enti pubblici territoriali (regioni, comuni), dal momento che le sole valutazioni di rating non appaiono indici sufficienti di garanzia (anche la tutela dei risparmiatori ha bisogno di massima vigilanza). Per curare i problemi della sicurezza economica e sociale e gestire i relativi contrasti tra Stati si avverte la necessità di istituire un “Consiglio europeo dell’economia e del lavoro”, strutturato in organi collegiali dove dovrebbero trovare rappresentanza tutte le espressioni del mondo del lavoro.
C’è la riforma dello Statuto della Banca Centrale Europea (Bce). I tassi d’interesse dell’euro sono ora decisi da un’assemblea di 18 persone: 12 governatori e 6 membri dell’esecutivo Bce. Troppi interessi rendono precaria la flessibilità necessaria in questo settore (non a caso nella Federal Reserve e nella Banca d’Inghilterra sono in pochi a decidere). Sono da rivedere anche i poteri della Commissione. Particolare attenzione va riservata al capitolo della tutela della concorrenza dove il procedimento amministrativo attende l’adozione di condizioni paritarie tra accusa e difesa.

In breve, la Comunità deve acquistare razionalità, credibilità e forza cogente, per incidere sul comportamento delle imprese, del mercato e degli Stati. Compito non agevole, essendosi affievolito dopo Maastricht lo slancio sovranazionale. Sembrano prevalere al momento gli automatismi di mercato. Ma la voglia di una democrazia nuova e rinvigorita attraverso la redistribuzione dei poteri non può dare pseudo-risposte a pseudo-domande.
«Ciò che viene mandato in giro prima o poi ritorna», dicono gli americani. Obiettivamente non è facile conciliare percorsi di segno molto diverso. Si ricompone la Mitteleuropa tedesca, ma come si possono risolvere i dissidi e le contese tra rumeni, ungheresi e slovacchi? Come possono convivere le problematiche dell’area mediterranea con quelle dell’area danubiana? Come si può contenere la forza dei grossi monopoli nel comprare influenza e potere? In sede organizzativa conviene potenziare le burocrazie interne o affidarsi alle “agenzie”, strutture più autonome e snelle? Il check-up istituzionale si deve tradurre in un sostanziale allargamento della democrazia (l’introduzione del voto di maggioranza sarebbe doveroso).

La Convenzione Europea

Il 28 febbraio scorso hanno avuto inizio i lavori della Convenzione presieduta da Valery Giscard d’Estaing. Studierà le riforme istituzionali per adeguarle ad un’Unione allargata ai Paesi dell’Est ed elaborerà una bozza di Carta costituzionale.
L’istituzione ha poteri consultivi, non decisionali. I progetti verranno trasmessi alla Conferenza intergovernativa che adotterà le decisioni finali, probabilmente nella seconda metà del 2003. E’ possibile che il “trattato costituzionale” sia poi sottoposto a referendum popolare.
Fanno parte della Convenzione 105 membri in rappresentanza di governi, parlamenti nazionali, Commissione ed europarlamento (ciascuno dei 15 Paesi Ue e dei 13 Paesi candidati è rappresentato da 3 membri).
Il calendario dei lavori si articolerà in 7 riunioni prima delle ferie estive.
Il Presidium di 12 membri si riunirà 2 volte al mese.
Il Presidente e i due Vicepresidenti (l’italiano Giuliano Amato e il belga Jean Luc Dehaene) si incontreranno ogni settimana.

A questo tema si collega la ricerca dei princìpi che dovrebbero ispirare la Carta Costituzionale. Ovviamente, non si può prescindere dal richiamo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dove è descritta una vasta area di diritti politici, civili e sociali del cittadino europeo.
Nel Preambolo si legge: «...l’Unione si fonda sui valori individuali e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui princìpi di democrazia e dello Stato di diritto...». Parole importanti, ma notoriamente le democrazie moderne soffrono devianze dovute alla pressione di forti interessi multinazionali.
Occorre dunque pensare ad un impianto costituzionale che non sia preda del vetero capitalismo dei clan, che non riduca l’ideologia del libero mercato (una conquista del mondo occidentale) ad una mera riverniciatura della proprietà aziendale, che non assimili formule vuote prodotte da un dibattito teologico. Restano centrali due questioni delicate: trovare istituzioni che assicurino il giusto equilibrio tra governo e mercato e che antepongano la centralità della persona, dando collocazione strategica al capitale sociale nell’articolazione delle politiche di sviluppo. Non c’è comunque un’atmosfera da Cospirazione degli Eguali (Babeuf).
Molte sono le incertezze che circondano la forma e i contenuti dell’Unione politica. Così com’è, fa venire in mente l’immagine del minotauro: metà organizzazione internazionale, metà Stato federale. Una via di mezzo tra una tragedia greca e una commedia veneziana.

L’integrazione non è certo dietro l’angolo. Già nel Medioevo l’Europa aveva avuto una forte integrazione culturale tra antichi romani e “barbari”, altri fattori aggreganti sono stati il cattolicesimo e il protestantesimo delle prime ore. Poi sono subentrati conflitti e guerre di potere che hanno prodotto divisioni tra nazioni e Stati sovrani. Oggi è il concetto ottocentesco di sovranità che risulta difficile da superare. Al conflitto di interessi si aggiunge il conflitto delle idee. E’ noto che agli inglesi la parola costituzione non piace. Non a caso Giscard d’Estaing usa la formula “trattato costitutivo” e Jacques Delors, ex Presidente della Commissione, parla di “Federazione di Stati-nazione”. Se già c’è incertezza per la forma sarà difficile che possa accadere qualcosa d’importante nella sostanza. Un trattato costituzionale ha il compito di definire i contenuti di democrazia del sistema, la sua organizzazione istituzionale e il grado di cooperazione tra i vari livelli di governo. Portando la discussione dei temi europei nell’alveo istituzionale ordinario. Sottraendola ai rituali delle conferenze intergovernative e dei vertici celebrativi che logorano l’immagine delle autorità politiche (sul piano internazionale inviano segnali tangibili di scarsa coesione).
C’è un’immagine negativa di disordine politico, di unità assente, che dovrebbe produrre allergia per il nazionalismo culturale.
Probabilmente non ci sono oggi le condizioni per legittimare una democrazia federale, cioè una ripartizione dei poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario – sotto il controllo dell’elettorato europeo. Ma andando oltre la razionalizzazione dell’esistente si aspetta almeno una manifestazione di volontà politica che definisca un progetto-cornice, un’impalcatura legale per la futura crescita istituzionale dell’Unione. Una crescita che si traduce al suo interno nell’attuazione di processi relativi di globalizzazione “governata”.

L’obiettivo centrale è quello di trasformare società chiuse in società aperte. Qualche anticipazione sull’utilità di questo percorso può essere fornita dall’indice generale della globalizzazione elaborato da Atkemey-Foreign Policy Magazine. Valuta il grado d’integrazione politica, economica, sociale e tecnologica delle nazioni. I Paesi più duttili e ricettivi nell’assorbire i processi di globalizzazione sono quelli più piccoli (l’Irlanda, ad esempio). Segno palese di opportunità straordinarie per quei Paesi europei che non hanno ancora un grande mercato interno supportato da solidi sistemi politici. Questi processi richiederanno certamente un grande confronto di interpretazione ed esami severi di verifica dovendo perseguire, con l’impulso europeista, gli obiettivi centrali di una maggiore uguaglianza sociale e di una maggiore libertà politica.
Ricordiamo che dalla Dichiarazione americana dei diritti (1776) alla Carta francese (1785), alla Carta dell’Onu (1948), fino alla Carta europea dei diritti (2001) l’uguaglianza è stata sempre considerata fattore di stabilizzazione degli ordinamenti politici ed elemento di richiamo per i diritti individuali e collettivi.
Preoccupano i ritardi di una cultura politica di fronte all’evoluzione del costume civile. L’organizzazione politica è in crisi, perde attrazione il suo tradizionale potere rappresentativo. Viene scavalcata da movimenti tematici che portano nelle piazze l’espressione molecolare delle società moderne, la molteplicità delle rivendicazioni e degli interessi. C’è in queste forme spontanee di aggregazione un dato nuovo e per certi versi rivoluzionario.

Non si invocano governi insurrezionali sullo stile della Comune di Parigi (ebbe vita breve, dal 18 marzo al 27 maggio 1871). Si vogliono solo richiamare a voce alta i contenuti di una guida politica per un futuro possibile, una guida che aiuti ad uscire dalla crisi la gestione delle democrazie liberali.
Il cittadino appare più responsabile, chiede più partecipazione diretta al processo decisionale, mettendo in discussione i filtri del potere, le forme note di organizzazione sociale. «Let we know what we are doing”, fateci sapere ciò che stiamo facendo, chiederebbero gli americani.
Occorre guardare oltre il velo del linguaggio diplomatico. Per l’Europa politica si presentano percorsi più complessi della praticabilità di schemi confezionati in laboratorio (aumenterà tra l’altro il livello conflittuale tra Stati nell’inevitabile contenzioso interpretativo). Più saggio sarebbe guardare fin d’ora all’ambiente reticolare che produce istanze e attende una politica delle cose, utilizzando un approccio ai temi europei meno elitario, più pragmatico e spregiudicato.
La piattaforma che verrà preparata potrebbe risultare una modesta produzione di “piercing” editoriale se non riuscirà ad introdurre nel sistema cose realmente innovative, una fede e un’anima per l’Europa.

   
   
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