A parole, nessuno si oppone
allallargamento, anche perché
in gioco ci sono
gli interessi della grande industria,
a cominciare
da quella tedesca.
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Per i Paesi dellEuropa
dellEst candidati ad entrare nellUnione europea leuro
è ancora lontano. La sfida più rilevante, allo stato
delle cose, rimane lingresso nel Club dei Quindici prima delle
elezioni europee del 2004: unipotesi che si è fatta più
concreta dopo la diffusione dellultimo Progress Report
di Bruxelles, alla fine dellanno scorso. La relazione ha registrato
significativi progressi di tutti i candidati rispetto ai criteri imposti
per far parte dellUnione. Ma per leuro dovranno rispettare,
come tutti, del resto, i parametri di Maastricht.
La strategia di allargamento progettata dalla Commissione ha ripreso
la linea del cosiddetto big bang: ad eccezione di Romania
e Bulgaria, gli altri dieci Paesi in lizza potrebbero essere ammessi
in una sola volta già prima del 2004, facendo balzare il numero
dei soci dellUe a venticinque. Il cammino verso lEuropa,
tuttavia, non è stato, e non è tuttora, facile o breve
per questi Paesi. I capitoli da negoziare con i Quindici sono ben
trentuno. E per ciascun settore, come ad esempio quelli della giustizia
o dellambiente, ci sono una serie di norme da attuare per garantire
una corretta applicazione degli standard comunitari. Più in
generale, i candidati hanno dovuto aprire le loro economie al mercato
e alla concorrenza. Non tutti hanno raggiunto lo stesso livello, ma
la conclusione dei negoziati per Polonia, Repubblica Ceca, Estonia,
Ungheria, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Cipro e Malta
può essere prevista entro il 2002.
Comunque sia, la partita vera e propria sta evolvendo proprio in questi
mesi di metà anno. Oggi tutti i candidati dellEst crescono
sotto la media Ue. E ovvio che avranno bisogno, allinizio,
di avere più risorse finanziarie di quante ne diano. Le strade
sono due: o i Quindici dovranno aumentare il proprio contributo, oppure
dovranno diminuire i ritorni che ricevono. Ma nessuno dei partner
attuali sembra disposto a cedere granché. I nodi, anchessi,
sono due: i fondi strutturali e la politica agricola. Per i primi,
limpatto dellallargamento sarà neutro fino al 2006.
I finanziamenti europei già stanziati per sostenere sviluppo,
riconversione e occupazione nelle aree più disagiate non verranno
toccati. Poi, sarà necessario tagliare per privilegiare chi
cresce meno. Tranne la Slovenia, in qualche misura tutti gli altri
candidati avrebbero diritto ai fondi. Questo significa che chi oggi
ne beneficia, domani non li avrà più. Per lItalia,
ad esempio, rimarrebbero dentro soltanto Calabria, Campania e, forse,
Sicilia.
Strada in salita anche per il settore agricolo. Lipotesi
prevalente è quella di tirare la cinghia sugli aiuti ai produttori.
La battaglia sarà aspra. A fronte di questo, lEuropa
aumenterà di un terzo la sua estensione e la sua popolazione.
In termini di ricchezza, il risultato sarà modesto nei primi
anni. Ma i ritmi di crescita sono destinati ad aumentare. Con vantaggi
anche nei rapporti commerciali. Già oggi i candidati importano
dallUe più di quanto esportino. E lItalia è
il partner più forte, con un avanzo annuo di oltre cinque
miliardi di euro.
A parole, nessuno si oppone allallargamento, anche perché
in gioco ci sono gli interessi della grande industria, a cominciare
da quella tedesca. Un mercato comune con 500 milioni di consumatori,
il più grande del mondo (dopo quello cinese, che è
comunque più povero), offre opportunità affascinanti
per i Paesi esportatori. Cè però un problema:
vanno cambiati i meccanismi di ripartizione dei fondi europei. LUnione
incassa dai Quindici Stati membri 92 miliardi di euro allanno,
spendendone 44 in aiuti allagricoltura (il 47 per cento) e
altri 32 nei fondi strutturali per le aree arretrate. Non tutti
i Paesi ne traggono gli stessi vantaggi. Alcuni, come la Grecia,
il Portogallo, lIrlanda e la Spagna, incassano più
di quanto corrispondono. Altri, a partire proprio dalla Germania,
molto meno. Con lallargamento, la situazione si complicherà
ancora: con le regole attuali, la contribuzione teorica dei dieci
Paesi entranti farebbe crescere le disponibilità finanziarie
europee del 30 per cento, mentre le spese aumenterebbero di circa
il 50 per cento. La conseguenza è immediata: maggiori contribuzioni
o minori prelievi.
Perfetto. Ma dove tagliare? La riduzione dei fondi allagricoltura
darebbe gran fastidio alla Francia, che ne è il maggiore
beneficiario, mentre altri Paesi, come la Spagna, avrebbero paura
di perdere i fondi strutturali. Il problema riguarda anche lItalia.
Attualmente, le regioni che rientrano nella ripartizione dei fondi
strutturali sono la Basilicata, la Calabria, la Campania, il Molise,
la Puglia, la Sicilia e la Sardegna. NellEuropa a venticinque
lItalia perderebbe il 90 per cento dei 6.000 miliardi di ritorno
che incassa. Controversi giudizi e opinioni. La Spagna si mette
di traverso per allontanare nel tempo lallargamento. LIrlanda
sostiene che se ci si mette a discutere di budget lallargamento
è rinviato praticamente di decenni. Decisione preannunciata:
la Commissione europea farà le proprie proposte nel 2004,
quando le regole potranno essere discusse da tutti i Paesi, anche
da quelli appena entrati.
Ma cè un altro terreno minato: quello della liberalizzazione
dei settori nei quali i vecchi monopoli non mollano la presa. Il
dossier più controverso è quello dellelettricità,
un mercato per il quale la Commissione propone che già dal
2003 tutte le aziende possano scegliersi autonomamente il fornitore,
senza gli attuali vincoli. La battaglia va avanti da mesi, con la
Francia impegnata a difendere il monopolio della Electricité
de France, che ha acquistato in Italia la Montedison, in comproprietà
con la Fiat. Battaglia giunta a metà strada, nel senso che
il principio della liberalizzazione è passato, e dunque sarà
questione di attendere lanno prossimo, per verificare se Parigi
si muoverà in linea con le deliberazioni europee, oppure
se continuerà a fare orecchio di mercante.
Altri problemi, sul fronte economico e su quello politico. Questione
rilevante, il patto di stabilità, che obbliga i Paesi dellUnione
a ridurre il deficit pubblico. Complici i timori di recessione,
molti governi vorrebbero poter spendere di più, avvicinandosi
pericolosamente a quella soglia del 3 per cento nel rapporto tra
deficit e Pil il cui superamento, ai tempi di Maastricht, avrebbe
significato lesclusione dalleuro. Fatto sta che soltanto
Spagna, Belgio, Irlanda e Olanda hanno raggiunto un sostanziale
pareggio di bilancio, e dunque, in base al patto, possono dar fiato
alle rispettive economie attraverso la spesa pubblica.
Altro capitolo importante, quello delle riforme: per la Commissione,
la posta in gioco sono gli spazi di autonomia che si è conquistata
e che in futuro potrebbero diminuire, perché i capi di governo
della generazione attuale sono attenti soprattutto ai problemi domestici
e vedono nellEuropa un menù in cui scegliere quello
che vogliono. Un ragionamento, questo, che vale anche per le scelte
politiche (come si è visto in occasione della crisi afghana).
E, infine, le riforme istituzionali, per le quali i soci più
forti (Germania, Inghilterra, Francia) intendono far la voce grossa,
da direttorio: il che non sarà gradito dagli altri partner,
lItalia in prima fila.
In Europa
Cipro: abitanti 700.000,
saldo Pil 4,5%, inflazione annua 1,3%, disoccupazione 3,6%
Estonia: abitanti 1.400.000,
saldo Pil -1,1%, inflazione annua 4,6%, disoccupazione 11,7%
Lettonia: abitanti 2.400.000,
saldo Pil 0,1%, inflazione annua 2,4%, disoccupazione 14,5%
Lituania: abitanti 3.700.000,
saldo Pil -4,1%, inflazione annua 0,8%, disoccupazione 14,1%
Malta: abitanti 400.000,
saldo Pil 4,2%, inflazione annua 2,1%, disoccupazione 5,3%
Polonia: abitanti 38.700.000,
saldo Pil 4,2%, inflazione annua 7,2%, disoccupazione 15,3%
Repubblica Ceca: abitanti
10.300.000, saldo Pil -0,2%, inflazione annua 2%, disoccupazione
8,7%
Repubblica Slovacca: abitanti
22.500.000, saldo Pil -3,2%, inflazione annua 10,6%, disoccupazione
16,2%
Slovenia: abitanti 2.000.000,
saldo Pil 4,9%, inflazione annua 6,1%, disoccupazione 7,6%
Ungheria: abitanti 10.100.000,
saldo Pil 4,5%, inflazione annua 10%, disoccupazione 7%
In lista dattesa breve
Bulgaria: abitanti 8.300.000,
saldo Pil 2,4%, inflazione annua 2,6%, disoccupazione 17%
Romania: abitanti 22.500.000,
saldo Pil -3,2%, inflazione annua 45,8%, disoccupazione 6,8%
In lista dattesa lunga
Turchia: abitanti 64.300.000,
saldo Pil -5%, inflazione annua 64,9%, disoccupazione 7,6%
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