Giugno 2002

EUROPA COME META

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Il Muro di Maastricht
Pierfranco Tosi  
 
 

 

 

A parole, nessuno si oppone
all’allargamento, anche perché
in gioco ci sono
gli interessi della grande industria,
a cominciare
da quella tedesca.

  Per i Paesi dell’Europa dell’Est candidati ad entrare nell’Unione europea l’euro è ancora lontano. La sfida più rilevante, allo stato delle cose, rimane l’ingresso nel Club dei Quindici prima delle elezioni europee del 2004: un’ipotesi che si è fatta più concreta dopo la diffusione dell’ultimo “Progress Report” di Bruxelles, alla fine dell’anno scorso. La relazione ha registrato significativi progressi di tutti i candidati rispetto ai criteri imposti per far parte dell’Unione. Ma per l’euro dovranno rispettare, come tutti, del resto, i parametri di Maastricht.
La strategia di allargamento progettata dalla Commissione ha ripreso la linea del cosiddetto “big bang”: ad eccezione di Romania e Bulgaria, gli altri dieci Paesi in lizza potrebbero essere ammessi in una sola volta già prima del 2004, facendo balzare il numero dei soci dell’Ue a venticinque. Il cammino verso l’Europa, tuttavia, non è stato, e non è tuttora, facile o breve per questi Paesi. I capitoli da negoziare con i Quindici sono ben trentuno. E per ciascun settore, come ad esempio quelli della giustizia o dell’ambiente, ci sono una serie di norme da attuare per garantire una corretta applicazione degli standard comunitari. Più in generale, i candidati hanno dovuto aprire le loro economie al mercato e alla concorrenza. Non tutti hanno raggiunto lo stesso livello, ma la conclusione dei negoziati per Polonia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Cipro e Malta può essere prevista entro il 2002.
Comunque sia, la partita vera e propria sta evolvendo proprio in questi mesi di metà anno. Oggi tutti i candidati dell’Est crescono sotto la media Ue. E’ ovvio che avranno bisogno, all’inizio, di avere più risorse finanziarie di quante ne diano. Le strade sono due: o i Quindici dovranno aumentare il proprio contributo, oppure dovranno diminuire i ritorni che ricevono. Ma nessuno dei partner attuali sembra disposto a cedere granché. I nodi, anch’essi, sono due: i fondi strutturali e la politica agricola. Per i primi, l’impatto dell’allargamento sarà neutro fino al 2006. I finanziamenti europei già stanziati per sostenere sviluppo, riconversione e occupazione nelle aree più disagiate non verranno toccati. Poi, sarà necessario tagliare per privilegiare chi cresce meno. Tranne la Slovenia, in qualche misura tutti gli altri candidati avrebbero diritto ai fondi. Questo significa che chi oggi ne beneficia, domani non li avrà più. Per l’Italia, ad esempio, rimarrebbero dentro soltanto Calabria, Campania e, forse, Sicilia.

Strada in salita anche per il settore agricolo. L’ipotesi prevalente è quella di tirare la cinghia sugli aiuti ai produttori. La battaglia sarà aspra. A fronte di questo, l’Europa aumenterà di un terzo la sua estensione e la sua popolazione. In termini di ricchezza, il risultato sarà modesto nei primi anni. Ma i ritmi di crescita sono destinati ad aumentare. Con vantaggi anche nei rapporti commerciali. Già oggi i candidati importano dall’Ue più di quanto esportino. E l’Italia è il partner più forte, con un avanzo annuo di oltre cinque miliardi di euro.

A parole, nessuno si oppone all’allargamento, anche perché in gioco ci sono gli interessi della grande industria, a cominciare da quella tedesca. Un mercato comune con 500 milioni di consumatori, il più grande del mondo (dopo quello cinese, che è comunque più povero), offre opportunità affascinanti per i Paesi esportatori. C’è però un problema: vanno cambiati i meccanismi di ripartizione dei fondi europei. L’Unione incassa dai Quindici Stati membri 92 miliardi di euro all’anno, spendendone 44 in aiuti all’agricoltura (il 47 per cento) e altri 32 nei fondi strutturali per le aree arretrate. Non tutti i Paesi ne traggono gli stessi vantaggi. Alcuni, come la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda e la Spagna, incassano più di quanto corrispondono. Altri, a partire proprio dalla Germania, molto meno. Con l’allargamento, la situazione si complicherà ancora: con le regole attuali, la contribuzione teorica dei dieci Paesi entranti farebbe crescere le disponibilità finanziarie europee del 30 per cento, mentre le spese aumenterebbero di circa il 50 per cento. La conseguenza è immediata: maggiori contribuzioni o minori prelievi.
Perfetto. Ma dove tagliare? La riduzione dei fondi all’agricoltura darebbe gran fastidio alla Francia, che ne è il maggiore beneficiario, mentre altri Paesi, come la Spagna, avrebbero paura di perdere i fondi strutturali. Il problema riguarda anche l’Italia. Attualmente, le regioni che rientrano nella ripartizione dei fondi strutturali sono la Basilicata, la Calabria, la Campania, il Molise, la Puglia, la Sicilia e la Sardegna. Nell’Europa a venticinque l’Italia perderebbe il 90 per cento dei 6.000 miliardi di ritorno che incassa. Controversi giudizi e opinioni. La Spagna si mette di traverso per allontanare nel tempo l’allargamento. L’Irlanda sostiene che se ci si mette a discutere di budget l’allargamento è rinviato praticamente di decenni. Decisione preannunciata: la Commissione europea farà le proprie proposte nel 2004, quando le regole potranno essere discusse da tutti i Paesi, anche da quelli appena entrati.
Ma c’è un altro terreno minato: quello della liberalizzazione dei settori nei quali i vecchi monopoli non mollano la presa. Il dossier più controverso è quello dell’elettricità, un mercato per il quale la Commissione propone che già dal 2003 tutte le aziende possano scegliersi autonomamente il fornitore, senza gli attuali vincoli. La battaglia va avanti da mesi, con la Francia impegnata a difendere il monopolio della Electricité de France, che ha acquistato in Italia la Montedison, in comproprietà con la Fiat. Battaglia giunta a metà strada, nel senso che il principio della liberalizzazione è passato, e dunque sarà questione di attendere l’anno prossimo, per verificare se Parigi si muoverà in linea con le deliberazioni europee, oppure se continuerà a fare orecchio di mercante.
Altri problemi, sul fronte economico e su quello politico. Questione rilevante, il patto di stabilità, che obbliga i Paesi dell’Unione a ridurre il deficit pubblico. Complici i timori di recessione, molti governi vorrebbero poter spendere di più, avvicinandosi pericolosamente a quella soglia del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil il cui superamento, ai tempi di Maastricht, avrebbe significato l’esclusione dall’euro. Fatto sta che soltanto Spagna, Belgio, Irlanda e Olanda hanno raggiunto un sostanziale pareggio di bilancio, e dunque, in base al patto, possono dar fiato alle rispettive economie attraverso la spesa pubblica.
Altro capitolo importante, quello delle riforme: per la Commissione, la posta in gioco sono gli spazi di autonomia che si è conquistata e che in futuro potrebbero diminuire, perché i capi di governo della generazione attuale sono attenti soprattutto ai problemi domestici e vedono nell’Europa un menù in cui scegliere quello che vogliono. Un ragionamento, questo, che vale anche per le scelte politiche (come si è visto in occasione della crisi afghana). E, infine, le riforme istituzionali, per le quali i soci più forti (Germania, Inghilterra, Francia) intendono far la voce grossa, da direttorio: il che non sarà gradito dagli altri partner, l’Italia in prima fila.

In Europa

Cipro: abitanti 700.000, saldo Pil 4,5%, inflazione annua 1,3%, disoccupazione 3,6%
Estonia: abitanti 1.400.000, saldo Pil -1,1%, inflazione annua 4,6%, disoccupazione 11,7%
Lettonia: abitanti 2.400.000, saldo Pil 0,1%, inflazione annua 2,4%, disoccupazione 14,5%
Lituania: abitanti 3.700.000, saldo Pil -4,1%, inflazione annua 0,8%, disoccupazione 14,1%
Malta: abitanti 400.000, saldo Pil 4,2%, inflazione annua 2,1%, disoccupazione 5,3%
Polonia: abitanti 38.700.000, saldo Pil 4,2%, inflazione annua 7,2%, disoccupazione 15,3%
Repubblica Ceca: abitanti 10.300.000, saldo Pil -0,2%, inflazione annua 2%, disoccupazione 8,7%
Repubblica Slovacca: abitanti 22.500.000, saldo Pil -3,2%, inflazione annua 10,6%, disoccupazione 16,2%
Slovenia: abitanti 2.000.000, saldo Pil 4,9%, inflazione annua 6,1%, disoccupazione 7,6%
Ungheria: abitanti 10.100.000, saldo Pil 4,5%, inflazione annua 10%, disoccupazione 7%

In lista d’attesa breve

Bulgaria: abitanti 8.300.000, saldo Pil 2,4%, inflazione annua 2,6%, disoccupazione 17%
Romania: abitanti 22.500.000, saldo Pil -3,2%, inflazione annua 45,8%, disoccupazione 6,8%

In lista d’attesa lunga

Turchia: abitanti 64.300.000, saldo Pil -5%, inflazione annua 64,9%, disoccupazione 7,6%

   
   
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