Giugno 2002

UN IDEALE O UN DOGMA?

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Dall’Europa al futuro
AA. VV.  
 
 

 

 

La costituzione dell'Unione europea sarà un compromesso tra diverse tradizioni politiche, tra diversi valori e tra diverse tradizioni nazionali.

  A mano a mano che si avvicina la decisione sul futuro istituzionale dell’Unione europea, le polemiche tra le forze politiche si fanno più aspre. La cosa non deve meravigliare, e anzi ha aspetti positivi. Chi ricordi la ratifica del trattato di Maastricht, ricorderà anche come esso suscitò pochissima discussione. Eppure, gran parte degli accesi europeisti di oggi votarono allora contro quell’atto fondamentale per l’Europa. Tra l’indifferenza di allora, e le polemiche di oggi, chiunque crede nella democrazia ha il dovere di preferire le polemiche e lo scontro tra le diverse visioni dell’Europa. Perché l’Europa non è più una delle tante questioni dell’agenda politica del Parlamento e del governo, ma è la questione che determina la gran parte dell’agenda politica stessa. I beni pubblici e la redistribuzione del futuro – che sono l’essenza della politica – saranno in parte del tutto rilevante decisi dal modello di Europa che verrà realizzato.
Proprio per questo bisogna distinguere tra la polemica che fa parte del gioco quasi autoreferenziale della politica e le differenze reali sul modello di Europa. In questi ultimi tempi abbiamo assistito da parte di alcune forze politiche (la Lega) all’affermazione di una posizione fortemente critica nei confronti della visione dell’Unione europea come replica su scala continentale degli Stati nazionali. Della visione dell’Unione europea come nuovo luogo e nuova fonte della sovranità nel nostro Continente, dove gli Stati membri, i loro governi e i loro Parlamenti dovrebbero diventare l’equivalente di quelli del Nevada o della Louisiana.

Si può naturalmente credere che il miglior destino per l’Europa sia proprio questo. Ma è del tutto legittimo che vi sia anche chi abbia una visione diversa, e la proponga ai cittadini. E’ preoccupante, dal punto di vista democratico, che vi sia chi ritenga che sull’Europa non è consentito né avere visioni diverse da quelle di una certa sinistra europea, né poterle porre come programma politico e di governo. Vi sono pochi dubbi che queste visioni alternative avrebbero tutto da guadagnare dal fatto di venire espresse in termini meno forti, e soprattutto meno violenti in alcuni aspetti.
Ma vi è certo una buona dose di ipocrisia nel condannare da un lato chi fa uso di questo linguaggio, e nel considerare dall’altro normale che alcuni – molti, in verità – si riferiscano costantemente al liberismo internazionale come alla causa della miseria di centinaia di milioni di persone nel mondo, o alle multinazionali farmaceutiche come alle responsabili delle morti per Aids nei Paesi del Terzo Mondo. Ma, al di là del modo criticabile con il quale vengono espresse, quali sono i veri punti forti di queste visioni alternative dell’Europa? In primo luogo, che l’Unione europea debba essere un modello peculiare, che preservi le identità politiche e culturali delle sue nazioni. In secondo luogo, che l’Europa non debba essere costruita attraverso una cessione definitiva di sovranità verso l’Unione, ma debba fondarsi sull’esercizio congiunto delle sovranità da parte degli Stati membri.
La prima tesi è tanto poco assurda che è stata fatta propria da statisti come Chirac e Blair. La seconda rispecchia il processo che ha portato alla Banca centrale europea e alla moneta unica, come ha autorevolmente affermato il presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Chiunque condivida una visione politica ed economica liberale non può ignorare come la costruzione delle nuove istituzioni dell’Unione, se da un lato deve assicurare la produzione di tutti quei beni pubblici europei che i cittadini desiderano, dall’altro deve essere tale da non aumentare la quantità totale di potere nel nostro Continente, che finalmente sarebbe destinato a pesare sui cittadini medesimi.

Questa è una preoccupazione del tutto assente nella gran parte della sinistra europea, a conferma della tesi autorevolmente sostenuta da Ralf Dahrendorf, ovvero che la sinistra è diventata europeista non per intima convinzione, ma come sostituto del fallimento del proprio secolare progetto politico.

La costituzione dell’Unione europea sarà un compromesso tra diverse tradizioni politiche, tra diversi valori e tra diverse tradizioni nazionali. Questo è necessario, se l’Europa unita deve essere una realtà nella quale si possano rispecchiare tutti i cittadini. Ricondurre la discussione alla realtà dei progetti alternativi è quindi utile a tutti, specialmente a coloro che sostengono le tesi meno convenzionali. Ma le censure preventive non hanno né significato né utilità in un Paese democratico.

Alfred de Martigny


Tramonta in Germania il welfare post-bellico

I problemi della Germania riguardo al proprio bilancio governativo, intanto, pongono fine ai compromessi politici che negli ultimi cinquant’anni hanno permesso sia il lassismo a livello di sistema federale sia uno stato di welfare sempre in espansione per supportare l’economia. Infatti è molto difficile, se non impossibile, che Berlino riesca a pareggiare entro il 2004 il bilancio congiunto del governo federale, 16 Länder, governi locali e tutti i sistemi di previdenza sociale.
Il pareggio in due anni reclamato dal trattato di Maastricht sembra pura retorica. Gli accomodamenti fiscali tedeschi sono il risultato di un sistema politico da tempo superato: la fine è stata segnata nel 1998 con l’estromissione dal potere di Helmut Kohl. Perché è stato Kohl che, nei governi che si sono succeduti, ha fronteggiato quasi tutte le difficoltà, attingendo sempre di più dal budget pubblico, sia che si trattasse di finanziare progetti di nuove opere per ridurre le file dei disoccupati negli anni di elezioni, sia di sovvenzionare le miniere di carbone altamente antieconomiche della Ruhr, sia di “rimpatriare” la Germania dell’Est dall’Unione Sovietica.
Questo ha funzionato fino a quando l’Unione monetaria europea ha stabilito che la partecipazione delle nazioni al sistema dell’euro sarebbe stata possibile solo a condizione di contenere i propri debiti nazionali, fino a portarli al 60 per cento del Pil. La Germania c’era già arrivata. Non restava altra scelta per Berlino che riconvergere la contabilità, puntando al pareggio. Poi è arrivata la flessione economica e le entrate fiscali sono scese sotto i livelli previsti.
Ora, come ci si è resi conto anche in Italia, tutte le soluzioni durevoli nel tempo riguardo al deficit di bilancio comportano cambiamenti radicali rispetto al funzionamento del Paese nell’ultimo mezzo secolo. In primo luogo, la costituzione finanziaria tedesca deve essere cambiata, separando le competenze finanziarie dei governi federali da quelle statali (e locali). A causa dei fallimenti del Länder nel tentare di tagliare i costi, i governi di Bonn o di Berlino sono più volte stati costretti a condividere le entrate fiscali. Questo ha reso l’intero sistema fiscale così complicato da far sì che è ormai impossibile stabilire da quale livello provengano le varie entrate.
I programmi consistono nel combattere questo fenomeno mediante l’introduzione di un Patto di Stabilità nazionale secondo i criteri del progetto Ue. Ma i Länder sono fortemente contrari. Se ciò non dovesse bastare, sarà necessario che Berlino metta sotto controllo il deficit della previdenza sociale, tagliando le indennità delle assicurazioni sanitarie, pensionistiche e di disoccupazione. Questo non può assolutamente essere fatto adesso. La Germania andrà al voto il 22 settembre. E nessun governo aumenta le imposte o taglia le indennità pubbliche prima di un’elezione, a meno che non desideri essere cacciato.
Ciò significa che il bilancio del 2002 non potrà essere modificato in maniera significativa, e dato che quello del 2003 deve essere ratificato in giugno, si può anche escludere che saranno apportate delle grandi variazioni per l’anno successivo.
Il compito dei futuri governi tedeschi è immane: saranno obbligati a lavorare provocando danni finanziari alla maggior parte degli elettori. Non devono fare niente di meno che smantellare il “pilastro sociale” dell’economia sociale di mercato della Germania del dopoguerra, in un Paese che con i cambiamenti non è mai stato a proprio agio. Ed è, questa, la vera fine del dopoguerra.

Allan Saunderson

 

E ora è di scena la Mitteleuropa

Gli eurocrati di Bruxelles si sono applicati ad esercitare ogni loro benevolenza, pur di non mettere a disagio il governo tedesco per i suoi conti pubblici. Ma neanche loro più di tanto riescono a distrarci dal fatto che l’economia tedesca non è più quella di una volta. E infatti, chi si provi col dito a seguire il grafico della crescita del Pil germanico, nel decennio prima e in quello dopo la riunificazione, si troverà ormai come chi mette a confronto il profilo delle montagne delle Alpi con quello appenninico. E’ accaduto insomma proprio il contrario di quanto presumeva quell’Europa latina, che con Mitterrand, dopo il crollo del Muro di Berlino, temeva la Germania unita. E perciò, non per astratti idealismi, le impose di rinunciare al marco per l’euro. Poco senso ha ormai dire se fu bene o male. Più interessante è invece notare che già agli inizi degli anni Novanta poteva prevedersi che i Länder dell’Oriente avrebbero reso la Germania più fragile e complicata, e non più potente. Non solo per i danni ereditati dal comunismo.
Già prima della guerra la Germania Orientale produceva debiti e bilanci dissestati. Anche i debiti dei latifondi dell’Est ebbero una non piccola parte nel disastro della Repubblica di Weimar. E, del resto, un non minimo motivo del boom tedesco del secondo dopoguerra fu che una Repubblica Federale, limitata ai Länder occidentali, ereditò le aree da sempre più forti. Ma forse a questo punto alcuni si sentiranno di replicare che poca cosa in fondo sono i Länder orientali e saranno facili alla lunga da riassorbire. E gli eurocrati di Bruxelles a loro volta non mancherebbero poi di eccepire, disdegnosi, che oggi c’è l’Europa.
Il che è vero. Ma non è abbastanza per dar loro ragione. Proprio l’Europa, allargandosi, ritornerà tra qualche anno ai confini di quella che era la Mitteleuropa tedesca. I confini dell’Europa si sposteranno, prima, circa a Königsberg, la città di Kant, quindi, con l’inclusione degli Stati Baltici, l’avvolgeranno. Gli eurocrati, più colpevolmente di tanti altri, non si sono accorti di essere tornati ai confini della Prussia orientale, cioè di stare completando il reinglobamento della parte più fragile dell’Impero tedesco, com’era prima del 1914.
E gli esiti saranno questa volta più potenti di quelli della riunificazione tedesca. L’inclusione di Polonia, Ungheria, Cechia, Slovenia e Slovacchia sortirà non solo il già sgradevole effetto statistico di ridurre il reddito medio dell’Unione europea; ne aumenterà i surplus agricoli e gli oneri per l’Europa latina, mentre la Germania si ricongiungerà alla sua area d’influenza naturale. E rieccoci alla Mitteleuropa, che come fatto letterario ha il suo fascino, e tuttavia, come fatto economico, mantiene pure le sue costanti. Anche se meno indagate, forse perché non indurrebbero a un eccessivo ottimismo.

Per non dire della politica. Königsberg si chiama Kaliningrad, ed è oggi una base della Marina Russa. I dissidi tra rumeni, ungheresi e slovacchi non sono meno complicati di quelli tra serbi e albanesi. Poi, sempre grazie alla lungimiranza degli eurocrati, con la Turchia in Europa ci sarà pure da trovarsi a che fare con il problema curdo e con la finanza ottomana.
Ecco riaffiorare insomma la geopolitica, e tutte le costanti della Mitteleuropa. E’ il problema tedesco, che, chiuso fuori dalla porta con l’euro, se ne ritorna ancora più potente con l’inclusione della sua area d’influenza, e però anche di maggior fragilità. Ed è il principale problema, sul quale bisognerà riflettere bene, prima che un beota eurottimismo a tutti i costi ci faccia poi amaramente pentire.

Pierfranco Bettetini

 

Se l’Italia conta poco

Io sono convinto che, così come i cinque anni dell’ultima legislatura sono stati cruciali per risanare i conti pubblici e agganciare l’Italia all’Europa della moneta, così il prossimo quinquennio sarà decisivo per far sì che l’Italia divenga protagonista della politica europea. Oggi troppo spesso, quando si discute delle grandi scelte dell’Unione, si sente parlare della posizione francese, tedesca, britannica, persino spagnola. Quasi mai di quella italiana. Una situazione che trovo umiliante. Il nostro Paese si è inserito in Europa, ma ancora non conta per quanto potrebbe e dovrebbe, soprattutto in vista delle grandi scelte istituzionali che ci aspettano.
Pensiamo al vertice di Nizza. L’Italia ha spinto in modo lodevole verso soluzioni più avanzate, più “europee”, dei problemi che erano sul tappeto. Era l’unico Paese che non difendesse specifici interessi nazionali, ma una visione strategica di sviluppo dell’Europa, che poi è nell’interesse italiano di lungo periodo. Purtroppo il risultato, come tutti abbiamo potuto constatare, è stato molto deludente. Ebbene, un’Italia che contasse di più in Europa avrebbe posto il veto alla soluzione pasticciata che è uscita dal vertice. E viste le posizioni di partenza, avrebbe potuto farlo non perché non aveva ottenuto qualche cosa per sé, ma perché non si era ottenuto abbastanza per l’integrazione europea.
Io ritengo che i compiti oggi affidati a me nel “governo” dell’Europa siano piuttosto cruciali. In questa fase. Sto lavorando per dare incisività ancora maggiore alla “leva” della concorrenza, allo scopo di scardinare vecchie incrostazioni e nuovi abusi nell’economia europea. Cerco di porre le basi per una cooperazione tra le autorità anti-trust a livello mondiale, a cominciare dalle relazioni con gli americani. Più in generale, se è vero che si apre un momento decisivo per il ruolo dell’Italia in Europa, è altrettanto vero che stiamo vivendo una fase delicata ma promettente per quanto riguarda il ruolo della Commissione. Ed è una battaglia nella quale mi sento impegnato.
Certo, la Commissione attualmente soffre di un acuirsi della storica schizofrenia degli Stati membri, combattuti tra il desiderio di recuperare spazi alla sovranità nazionale e la consapevolezza che, siccome non riescono ad accordarsi, ci vuole qualcuno, al di fuori delle logiche di cancelleria, che continui a spingere avanti l’integrazione.
La visione strategica c’è, ma non basta. Oltre alla progettualità astratta, occorre soprattutto esercitare quotidianamente, fino in fondo e con maggiore efficacia, i propri poteri. E tra questi, la funzione di garante della concorrenza comporta sfide sempre più dure, che la Commissione deve vincere.
E’ vero che la politica europea è al tempo stesso più complessa, ma anche più lineare. Più complessa, perché bisogna tenere in conto le posizioni di quindici Stati membri e anche le variabili di politica interna di ciascuno di essi, che su quelle posizioni possono influire. Più lineare perché, rispetto alla politica italiana, si sa di poter lavorare con regole più chiare e definite per quanto riguarda le responsabilità e le competenze di ognuno. C’è dunque un gap di competitività tra Italia ed Europa anche per quanto riguarda la vita politica. Spero che al più presto si riesca a colmarlo.

Mario Monti

 


Se siamo virtuosi, facciamolo pesare

Lo scenario di fondo è quello delle previsioni iniziali, quello delineato prima dell’11 settembre, e addirittura quando ancora si sperava che l’economia americana avrebbe soltanto rallentato la sua crescita e ci si illudeva che l’Europa potesse sostituirla nel trainare la crescita dell’intera economia mondiale. Allora, per l’Italia, era stato preventivato un disavanzo pari allo 0,8 per cento del Prodotto interno lordo, per la Germania uno dell’1,5 per cento e per la Francia uno dell’1 per cento. Superfluo rilevare come l’Italia, fra i tre maggiori Paesi, si presentasse fin dall’inizio come quello diventato il più “virtuoso”. In seguito al progressivo deterioramento del quadro previsionale che ha investito l’intera economia mondiale, le stime recepite dalla stessa Commissione europea hanno prospettato un disavanzo dell’1,2 per cento per l’Italia, dell’1,6 per cento per la Francia e del 2,5 per cento per la Germania.

Questi dati hanno confermato che i tempi nei quali l’Italia era il Paese condannato ad inseguire, e con affanno, gli standard di finanza pubblica fissati dalle norme che regolano l’Unione monetaria sono lontani: oggi i nostri conti sono più virtuosi di quelli dei Paesi che negli anni passati costituivano il paradigma della virtù finanziaria, e per di più presentano una maggiore capacità di tenuta alle avversità del clima economico mondiale. La situazione, dunque, è esattamente opposta a quella che si era fatto credere, tanto che ora si dovrebbe far valere la buona performance dei conti italiani per rafforzare la dignità con la quale il nostro Paese partecipa all’Uem che continua, invece, ad essere velata dal sospetto e dal pregiudizio.

All’epoca della polemica interna sul “buco” dei nostri conti, quando Francia e soprattutto Germania non avevano ancora aggiornato le loro stime e quindi sembrava che l’Italia fosse ancora una volta la pecora nera dell’Europa, il Commissario Solbes aveva assunto una posizione severa, dicendo che non erano ammessi sconfinamenti dai limiti di disavanzo preventivati e che, semmai, si sarebbe giudicato caso per caso, intendendo che, a motivo dell’elevato indebitamento, all’Italia non poteva essere fatta alcuna concessione che eventualmente fosse stata fatta ad altri. Il tono è poi cambiato a mano a mano che il deterioramento della situazione economica e finanziaria tedesca è risultato più accentuato e più dirette le implicazioni che ne sarebbero derivate per i conti pubblici. Al punto che la Commissione è stata disposta a concedere un disavanzo più vicino al fatidico 3 per cento per quest’anno e per quello prossimo, perché sul piano del governo dell’economia non ha ritenuto opportuno imporre alla Germania manovre di aggiustamento. Ciò però non esclude che la Germania, a motivo di un Prodotto interno lordo pressoché doppio di quello italiano, anche per l’anno prossimo necessiterà per il finanziamento del suo disavanzo di almeno il quadruplo delle risorse necessarie per finanziare il disavanzo italiano. Sarà il caso di tenerne conto, o no?

Alfredo Recanatesi

   
   
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