Giugno 2002

EUROPA IN CAMMINO

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Una politica
per la globalizzazione
Salvatore G. Galati  
 
 

 

 

Conciliare
il globale
e il locale
è un elemento
essenziale
per restituire
alla politica
dignità
ed efficacia.

  La globalizzazione è iniziata molti anni fa con la decisione di dare al commercio la massima dimensione internazionale. L’Uruguay Round era destinato ad aiutare lo sviluppo del Terzo Mondo, agevolandone la partecipazione nell’ambito del WTO (World Trade Organization), che aveva sostituito il GATT (General Agreement Trade and Tarif) all’inizio del 1995. Ma già nel 1969, quando per la prima volta l’uomo mise piede sulla luna e poté vedere il nostro pianeta dallo spazio, si era determinato quello che in matematica si chiama un “passaggio al limite”: in questo caso, delle dimensioni della Terra, mentre l’aumento della velocità dei trasporti e delle comunicazioni in genere rivoluzionava anche i concetti di spazio, di distanza e di tempo.
Nell’89, crollato il Muro di Berlino, iniziava il tracollo del regime sovietico e si accelerava il processo evolutivo di regioni sempre più numerose del mondo verso la democrazia e l’economia di mercato. Parallelamente, si andava sviluppando la società dell’informazione, con la rivoluzione determinata dalla convergenza fra le industrie tecnologiche dei media e delle telecomunicazioni (TMT).
Una formazione permanente di alta qualità è la chiave di accesso alla costruzione di una società che consenta la crescita delle individualità, senza che sia messa in secondo piano la solidarietà, con il versante complementare della coesione sociale.
Non esistono formule semplici per governare la società complessa nella quale viviamo. Lo Stato nazionale è oscillante fra il globale e il locale. Molti operatori economici pensano globalmente, mentre molti cittadini pensano localmente e sono preoccupati al cospetto di una realtà che non riescono a padroneggiare. Conciliare il globale e il locale è quindi un elemento essenziale per restituire alla politica – che è sintesi degli interessi anche conflittuali – dignità ed efficacia. Dunque è doveroso sviluppare un dialogo a livello mondiale con le organizzazioni della società civile sui valori della democrazia occidentale, che rappresentano la base della legittimità del potere. Sono: la democrazia politica e la difesa dei diritti umani; la giustizia sociale nella libertà; la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. Si tratta di difendere i princìpi e i valori delle dichiarazioni delle Nazioni Unite, condivisi dalla volontà della grande maggioranza dei popoli e che costituiscono il fondamento di una civiltà che non è soltanto occidentale, ma che appartiene all’umanità intera. Questo, per sommi capi, fa parte del dibattito aperto dopo l’11 settembre quando, con l’attacco terroristico a New York e al Pentagono, è esploso il primo conflitto dell’era “postmoderna”. L’attacco ha fatto esplicitamente capire che il monopolarismo americano non è più una garanzia di sicurezza né per gli statunitensi né per i loro alleati. Ciò pone drammaticamente la necessità di una “politica della globalizzazione” in grado di rispondere alle emergenze, non più governabili a livello nazionale.

Prima emergenza fra tutte, quella del riequilibrio delle differenze economiche e delle realtà sociali fra i Paesi del Nord e del Sud del mondo. Detto in termini crudi: se la situazione attuale si prolungherà nel tempo, fra un decennio soltanto i Paesi ricchi saranno il 18 per cento e i poveri l’82 per cento: ciò creerà una situazione oggettivamente esplosiva. Già nel 1974 il leader algerino Boumedienne aveva detto: «Se il Nord ricco non si impegna a cercare soluzioni ai gravi problemi dello sviluppo del Sud, un giorno milioni di emarginati dei Paesi della fame verranno nei Paesi ricchi in cerca della loro sopravvivenza. E non verranno in spirito di pace».
Gandhi affermava che il mondo ha risorse sufficienti per tutti, ma non sufficienti per soddisfare l’avidità di tanti. Nel 1929, nel pieno della drammatica crisi mondiale, Keynes scriveva: «Saranno necessari cento anni perché i valori negativi sui quali fino ad oggi si è sviluppata l’economia (l’avarizia, l’egoismo, l’avidità, il desiderio di prevaricazione e di possesso, la priorità data sempre all’avere più che all’essere) siano sostituiti da valori positivi come la solidarietà, la comprensione, lo spirito di servizio e di fratellanza, la generosità...».
Sempre più numerosi sono coloro i quali comprendono che l’estrema povertà e l’emarginazione sociale che ne deriva rendono impossibili i legami fra gli esseri umani, mentre, al contrario, una cultura “alta”, multietnica e multireligiosa, può unirli. I movimenti politici sono l’attuazione di movimenti culturali; da qui, l’importanza di costruire e vivere una nuova cultura, quella di una pace intesa come valore permanente, di cui sia elemento portante lo sviluppo, perché non c’è pace senza giustizia, e non c’è giustizia senza eliminazione degli squilibri economici e sociali. E’ esattamente questo che deve sostituire la retorica del pacifismo e la sua strumentalizzazione a fini di parte.

In cinese la parola “crisi” ha un duplice significato. Il primo è uguale a quello tradizionale, il secondo nasce dalla millenaria esperienza e saggezza di un’antica civiltà che considera la crisi anche come “opportunità”. Nel momento colmo di preoccupazioni e di interrogativi, che stiamo attraversando, dobbiamo dunque guardare al futuro con l’ottimismo della volontà. Così soltanto comprenderemo che i rischi che incombono sulla società mondiale possono mobilitare nuove energie e promuovere, nel lungo periodo, uno sviluppo razionale della condizione umana, favorendo la nascita di una nuova civiltà.

Francis Fukuyama, l’autore de La fine della storia, sostiene che lo sviluppo è un treno potente che non verrà fatto deragliare dagli eventi recenti, per quanto dolorosi e senza precedenti. La democrazia e i liberi mercati continueranno ad espandersi come princìpi di organizzazione validi per gran parte del pianeta.
Il conflitto che può profilarsi (tra mondo occidentale e mondo islamico, per intenderci) non è tra culture uguali in lotta tra di loro, come si verificò tra le grandi potenze europee del XIX secolo. Lo scontro può consistere in una serie di azioni da parte di gruppi, la cui tradizionale esistenza è sentita come minacciata dalla modernizzazione. La forza della loro reazione riflette la gravità della minaccia. Eppure, la difesa dei valori della scienza, dello sviluppo tecnologico e della cultura occidentale moderna è stata sempre una caratteristica dei settori progressisti delle società di ogni razza e religione. Basterebbe, a conferma, scorrere la lista dei Premi Nobel!
Per molti secoli, l’Europa ha vissuto in condizioni paragonabili a quelle odierne del Terzo e Quarto Mondo: ha conosciuto, cioè, fame, carestie, epidemie, guerre, povertà. Per merito delle rivoluzioni industriali e della ricchezza che hanno prodotto, questi flagelli sono stati combattuti e quasi del tutto eliminati in buona parte dell’emisfero occidentale, dove si è simultaneamente affermato un sistema istituzionale basato su tre fondamenti: il libero mercato e la proprietà privata dei mezzi di produzione; il rispetto dei diritti umani e la libertà di coscienza; la separazione dei poteri e la democrazia. In questo contesto, comunque, il libero mercato non deve essere considerato un puro e semplice dogma, bensì uno strumento per il progresso dell’umanità. Vi sono ancora miliardi di uomini che vivono nell’indigenza e nell’emarginazione. Una società che consente il formarsi al suo interno di sottoclassi sistematicamente svantaggiate stratifica serbatoi di rancore e di disperazione, cui attingono facilmente criminalità, avventurismo, terrorismo.
Perciò l’Unione europea, che rappresenta un nuovo tipo di statualità multinazionale e post-nazionale, ha il dovere di diventare un attore internazionale: deve contribuire al controllo di un’economia mondializzata, difendendo le nozioni di sviluppo sostenibile e di prosperità condivisa che ne hanno accompagnato l’evoluzione. Deve inoltre aiutare la comunità delle nazioni a fronteggiare le nuove sfide che si delineano chiaramente contro la stabilità mondiale: gravi squilibri socio-economici, squilibri ecologici, proliferazione delle armi di distruzione di massa, crisi finanziarie, crisi sistemiche, e via dicendo. L’Ue può e deve divenire uno dei principali architetti del nuovo ordine internazionale, nel rispetto di tutti, senza volontà egemoniche. Al di fuori di questa prospettiva, diventerà un continente arido, che avrà rinunciato soprattutto alla sua tradizione (e vocazione) profondamente umanistica.
Sono molti coloro i quali ritengono che inserire questi concetti nel processo di globalizzazione in atto sia un’impossibile quadratura del cerchio. Ma non è della quadratura del cerchio che bisogna preoccuparsi, bensì del centro del cerchio, che è la valorizzazione dell’individuo, vale a dire il fine stesso cui sono ordinate in democrazia le attività economiche, politiche e culturali della società.

   
   
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