Da noi quella crisi si manifestò più
tardi, per i minori legami della
nostra economia col mercato
mondiale:
ma i suoi effetti
non furono meno
disastrosi.
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Alla fine del 1986 il prestigioso settimanale economico britannico
Economist assegnò allItalia il quinto posto nella graduatoria
mondiale delle potenze economiche. Vi era scritto:
«Una volta gli inglesi guardavano alleconomia italiana
come ad una miscela di contadini, dalle spalle curve, slum di Napoli,
turbolenti operai di Torino che scioperavano contro la Fiat. La
crescita economica ha capovolto questa caricatura: ora è
lInghilterra la più povera».
I conti fatti in Italia hanno dimostrato lesattezza di questo
giudizio e fatto intravedere che il nostro Paese si sta avvicinando
alla Francia, minacciandone il quarto posto. Dunque, il presente
ci offre limmagine di unItalia fortemente industrializzata,
ma ci pone anche molti problemi sul quando e come è avvenuto
questo processo di industrializzazione. Il che significa percorrere
gli avvenimenti dal 1860 al 1914, consapevoli che è molto
importante conoscere linfanzia e ladolescenza industriale
della Penisola, perché molte caratteristiche dellindustria
odierna risalgono ad oltre un secolo fa. La società industriale
in cui viviamo tutti noi, con le sue contraddizioni, ma anche con
le sue straordinarie capacità produttive, è una realtà
costruita progressivamente nel corso di centocinquantanni.
Conoscere in che modo si è formata, vuol dire anche scoprire,
o riscoprire, le leggi di funzionamento della società capitalistica.
Per comprendere perché nella nostra vita quotidiana siamo
circondati da prodotti industriali e non da prodotti manufatti o
artigianali, e per spiegare come mai una gran parte degli italiani
è composta da lavoratori salariati, è necessario partire
da molto lontano, da quando lindustria era bambina
(come dicevano gli imprenditori di allora). Ma proprio in quel periodo
ebbe inizio una poderosa trasformazione della nostra società.
Gli industriali dovevano letteralmente imparare a fare gli industriali,
gli operai dovevano imparare a fare gli operai. E tutto questo rappresentò
un processo né facile né indolore. E ciò aiuta
a capire, fra laltro, come mai anche oggi i Paesi sottosviluppati
o le aree depresse stentino, anche in presenza di capitali notevoli,
a compiere il salto verso lindustrializzazione e ad elevare
decisamente il loro reddito.
Intorno al 1860, la condizione dellItalia rispetto ai Paesi
industrializzati dellOccidente (Inghilterra e Francia, in
particolare) era quella tipica delle aree arretrate,
nel senso della moderna terminologia economica. Al momento dellunificazione,
il reddito nazionale era meno di un terzo di quello francese e soltanto
un quarto di quello inglese. Modestissima la percentuale assicurata
dallindustria alla formazione del reddito complessivo: non
più del 20,3 per cento del Pil, contro il 57,8 per cento
dellagricoltura. Nessuna città italiana conosceva gli
ambienti borghese e operaio delle città dellEuropa
occidentale, né un paesaggio urbano che preannunciasse quello
delletà industriale, anche se centri che da tempo vegetavano
entro la cerchia delle mura antiche avessero cominciato a dare nuovi
segni di vita nel corso della prima metà dellOttocento.
Nel 1861 nemmeno un quinto degli italiani risiedeva in centri superiori
ai ventimila abitanti. E vero che esisteva unarmatura
urbana relativamente fitta, e consolidata in comuni minori, nellItalia
centro-settentrionale. Ma la maggior parte della popolazione cittadina
si addensava nelle vecchie capitali storiche; ed esse - esclusa
Milano e poche altre città - traevano le loro prospettive
di crescita più da funzioni gerarchiche di natura burocratica
e amministrativa che da reali motivi di iniziativa economica. Fiere
e piazze paesane continuavano a provvedere a larga parte dei traffici
locali e a tenere i contatti tra città e campagne, fra monti,
colline, pianure. Alla data dellunificazione, lo sviluppo
della rete ferroviaria assommava a poco più di 2.000 chilometri,
contro i 17.000 inglesi e i 9.300 francesi; non esistevano collegamenti
longitudinali dalluno allaltro capo della Penisola;
lanalfabetismo era condizione comune a circa due terzi della
popolazione.
Ha scritto Rosario Romeo che nelle campagne una produzione domestica
diretta allimmediata soddisfazione dei bisogni familiari veniva
esercitata su scala assai diffusa da uomini e donne, specie nelle
pause invernali dei lavori agricoli. Accanto al lavoro familiare
in senso stretto, unimportanza crescente assumevano «altre
forme di produzione nelle quali il lavoro individuale era già
sottoposto al controllo di un capitalista». Per esempio, la
tessitura di cotone era esercitata soprattutto da ditte che avevano
al centro un mercante imprenditore, che forniva ai vari tessitori
la materia prima. Quando non si trattava di contadini isolati, i
tessitori erano di solito i capifabbrica, alle cui dipendenze
lavoravano una decina di persone, con telai appartenenti al capofabbrica.
Una volta terminata la lavorazione, il capofabbrica consegnava il
prodotto al mercante imprenditore, il quale provvedeva alla vendita.
La produzione aveva dunque subìto un processo di concentrazione
commerciale, ma la sua struttura tecnica era ancora fondata sul
lavoro individuale. Il mercante imprenditore era più un commerciante
che un industriale. Inoltre, gli addetti allindustria erano
ancora per gran parte lavoratori agricoli, che con discontinuità
dedicavano alle attività industriali la loro opera. Da ciò,
la variabilità stagionale di questa manodopera, più
abbondante in inverno, scarsa nei mesi dei grandi lavori agricoli;
e da ciò anche la difficoltà di disporre di operai
abili e specializzati, per via della promiscuità di occupazioni
cui costoro si dedicavano.
Lindustria della seta occupava, nel quadro della dominante
industria tessile, una posizione di preminenza. Aveva i centri maggiori
in Lombardia, ma anche in Piemonte e nel Veneto, ma veniva esercitata
su scala discretamente estesa anche nel Sud, soprattutto in Campania,
Calabria e Sicilia.
Lindustria che raggiunse uno sviluppo maggiore, sia dal punto
di vista tecnico che organizzativo e finanziario, fu la filatura
del cotone, che specie in Lombardia, già prima del 1848,
vantava stabilimenti importanti e moderni, con molte migliaia di
fusi in attività. Era concentrata nelle province di Milano
e Varese, e, in Piemonte, nel Novarese-Verbanese e nel Canavese.
La lavorazione della lana vantava centri antichi e importanti in
Piemonte, dove Biella occupava una posizione di vertice, e nel Veneto,
dove Schio era allavanguardia tecnica. Nel Sud queste attività
tessili erano un po tutte presenti, con concentrazioni importanti
nel Salernitano e in Terra di Lavoro.
La lavorazione del minerale di ferro, con concentrazioni in Calabria
(Ferdinandea e Mongiana), in Toscana (zone costiere, monti di Pistoia
e Pietrasanta, Valdelsa), in Val DAosta, in Lombardia (Alta
Valtellina, Valsassina, Val Brembana, Val Seriana...), era a livelli
ancora molto arretrati, basandosi ancora sulla produzione di ghisa
allaltoforno a carbone di legna.
Stabilimenti meccanici dampiezza rilevante, con diverse centinaia
di operai, erano sorti a Milano, Genova, Torino, Brescia, Pietrarsa
(Napoli), ma essi erano in molti casi statali o sostenuti dallo
Stato, mosso non tanto da ragioni militari, quanto dalla necessità
di far costruire le ferrovie, con spese che i privati non erano
in grado di fronteggiare da soli. Il resto dellindustria meccanica
si riduceva ad attività poco più che artigianali.
Infine, unimportanza economica notevole avevano le industrie
alimentari: ma erano così strettamente collegate allagricoltura,
da non meritare del tutto la qualifica di industrie.
Da ricordare in particolare il settore vinicolo, che dalla Sicilia
al Piemonte, dalle Puglie alla Toscana dava vita a correnti di esportazione
abbastanza importanti.
Con lunificazione, una delle cause di inferiorità
strutturale lamentata dagli economisti venne rimossa: un ampio mercato
nazionale prendeva il posto di tanti mercati parziali, cadeva lintrigo
delle dogane interne che per secoli avevano ridotto lItalia
a un mosaico di piccoli Stati, finalmente diventava possibile una
politica di produzione e di espansione interna che non sarebbe stata
pensabile prima del 1861. E questo in unepoca di macchinismo
e di industrializzazione, di acuita concorrenza e di rivoluzione
dei trasporti.
In questo quadro, ladozione di una politica liberistica ebbe
come diretta conseguenza la crescente importazione di manufatti
stranieri, che arrivavano sul mercato italiano a prezzi molto più
bassi dei prodotti italiani. Ciò mise in difficoltà
soprattutto il Mezzogiorno e le sue industrie, le quali, perdendo
la protezione doganale, non furono più concorrenziali.
Ma la politica di libero scambio osserva Romeo non
favorì neanche le industrie dellItalia del Nord, ancora
troppo deboli nelle loro strutture per poter competere con quelle
dei Paesi industrialmente più avanzati. Persino lindustria
rivolta al mero consumo familiare, ancora diffusissimo nel mondo
contadino, finì per crollare davanti ad una concorrenza che
presentava sul mercato il prodotto finito a prezzi quasi equivalenti
a quelli che il lavorante isolato pagava per la sola materia prima.
In questa fase, si accumulò nelle mani dei ceti più
elevati del mondo rurale lincremento del reddito agrario,
dal quale rimasero esclusi gli strati inferiori della popolazione
contadina. E tuttavia, i risparmi di unagricoltura arretrata
come quella italiana poco potevano significare ai fini dello sviluppo
industriale. Oltretutto, si verificarono alcuni fattori, tra i quali
la politica fiscale dello Stato, che non solo avocò a sé
in grandissima misura i maggiori redditi conseguiti dai grandi produttori
agrari, ma col pagamento dellimposta costrinse anche le più
isolate e frammentarie aziende, ancora legate alleconomia
di sussistenza, a contribuire allo sviluppo delle premesse fondamentali
dellindustrializzazione.
Ma i redditi agrari ebbero anche altre destinazioni. Una larga aliquota
fu assorbita, fino al 1866, dalle spese militari, e una anche maggiore
dagli interessi del debito pubblico. Una parte importante finì
in spese pubbliche: per le sole ferrovie si spesero 1.850 milioni;
altre cifre furono destinate a strade ordinarie, porti, poste e
telegrafi, enti locali, per servizi e infrastrutture.
Intorno al 1880 una svolta radicale si operò nella vita
economica italiana con linizio della crisi agraria, che sinserì
nel più vasto contesto della depressione apertasi nelleconomia
mondiale dopo il 1874, e che sarebbe durata fino al 1896. Da noi
quella crisi si manifestò più tardi, per i minori
legami della nostra economia col mercato mondiale: ma i suoi effetti
non furono meno disastrosi. Alla sua origine, labbassamento
dei noli marittimi, che permise larrivo sui mercati europei
dei cereali doltreoceano a prezzi insostenibili dalla produzione
del Vecchio Continente.
Mutava così la funzione dellagricoltura nel quadro
della nostra economia. Se nel primo ventennio essa aveva realizzato
importanti progressi di produzione e di strutture, ora diventava
il settore più di ogni altro ritardatario. Ciò portò
anche la politica fiscale a spostare il proprio asse dintervento,
portandolo sulle attività mobiliari. Lo Stato continuò
a sviluppare una politica di opere pubbliche. Ma per quanto importante,
essa non ebbe più il carattere di creazione di infrastrutture
fondamentali, come nel ventennio precedente: ora si accompagnava,
come nei periodi successivi, a quello che era ormai, anche se per
una sola parte del Paese, lordinato sviluppo economico e industriale
avviato grazie agli sforzi degli anni trascorsi. Le opere pubbliche
attuali, daltro canto, non potendo essere più realizzate
con i prelievi dalluniverso agrario, gravarono sui redditi
crescenti del commercio e dellindustria.
In effetti, dunque, la crisi agraria ebbe un rilievo nellaccelerare
lavvio dei capitali agli investimenti industriali, e nel determinare
la conseguente espansione di questa attività nel periodo
1881-87.
La nuova tariffa doganale modificò profondamente le basi
del sistema economico italiano in un momento molto delicato, quando
una serie di fattori determinarono il rovesciamento della congiuntura
espansiva degli anni 1880-87. La guerra doganale con la Francia,
Paese che aveva assorbito il maggior volume delle nostre esportazioni,
danneggiò soprattutto la viticoltura meridionale e il rifornimento
di prodotti industriali dallestero.
Il boom edilizio di Roma, fiorito su iniziative imprenditoriali
prive di basi serie, ebbe un crollo rovinoso, che coinvolse e mise
in difficoltà numerose istituzioni bancarie. Ne fu aggravata
anche la situazione monetaria, già compromessa da irregolarità.
Per di più, una serie di cattivi raccolti colpì lagricoltura,
già sofferente per la caduta delle esportazioni. Tutto ciò
fece cadere i consumi, e, di conseguenza, mise in crisi lapparato
industriale.
La depressione si prolungò fino al 1898, anno in cui i tumulti
di Milano sembrarono portare il Paese al limite di una crisi sociale
di gravissime dimensioni. Tuttavia, i segni della ripresa, che doveva
sbocciare con la grande espansione delletà giolittiana,
almeno per il settore dellindustria, si scorgevano già
dal 1896. I decenni non erano trascorsi inutilmente: infrastrutture,
impianti, processi produttivi moderni erano stati creati in alcune
zone del Paese; i nuovi istituti di emissione garantivano maggiore
stabilità monetaria e tutela del risparmio. Queste nuove
condizioni consentirono alle strutture produttive di inserirsi con
vantaggio nella fase di alti prezzi che si apriva nelleconomia
mondiale al termine della depressione; e il nuovo periodo di espansione
sarebbe durato, con la grave interruzione del 1907, fino al primo
conflitto mondiale.
Lindustria assume un ruolo primario. Lindice della
produzione manifatturiera passa dal 29 del 1896 al 54 del 1914.
Per i beni strumentali, si va dal 28 per cento del 1895 al 47 per
cento del 1913. Salgono i valori della produzione metallurgica e
meccanica, mentre si ridimensionano quelli delle imprese agricolo-manifatturiere
(alimentari, delle bevande, tessili, dei tabacchi), e trovano impulso
le imprese minerarie. Lo spostamento verso lindustria pesante
è nettamente visibile.
A sostenere lo slancio della ripresa è luso dellenergia
idroelettrica, il carbone bianco che copre i buchi di
fonti di energia dellItalia. Già nel 1883 il nostro
Paese aveva realizzato in questo settore un cospicuo successo tecnico,
con la costruzione della prima centrale europea: quella di Santa
Radegonda, a Milano, destinata allilluminazione privata. Poi
si era avuta una certa diffusione di impianti di illuminazione pubblica
e privata, fornitura di forza motrice alle industrie, installazione
di tramvie elettriche... Restavano le difficoltà del trasporto
a distanza dellenergia. Ma nel 1898 un fatto tecnico di importanza
decisiva fu realizzato con la centrale idroelettrica di Paderno
sul Gadda, destinata alla fornitura di energia a Milano, dove giungeva
con una linea di 32 chilometri. Da quel momento, nessun comparto
finanziario dispose di capitali così cospicui come quello
dellenergia elettrica.
Condizioni di inferiorità erano registrate nel Sud già
nel 1887. Ma se fino a quella data gli svantaggi della concorrenza
industriale seguita al 1860 erano stati in qualche modo compensati
dalla vivace espansione dellagricoltura esportatrice del Mezzogiorno,
soprattutto nei settori vinicolo e agrumario, dopo si poté
fondatamente parlare di un sistematico sacrificio degli interessi
delle regioni meridionali a quelli dellindustria protetta
del Nord, e della creazione, addirittura, di una sorta di mercato
di consumo di tipo coloniale nel Sud.
Scrive Romeo che a vantaggio della medesima industria agiva la generale
tendenza ad accumulare e accentrare sempre nuovi investimenti nei
paesi e nelle regioni dove esisteva già un complesso di iniziative
industriali sviluppate, cioè nel Nord dellItalia. Qui
sussisteva tutta una serie di vantaggi, da una rete più ampia
di infrastrutture alla presenza di una serie di imprese collaterali
e sussidiarie, a una manodopera già addestrata, a una più
intensa domanda di prodotti industriali, a un ceto imprenditoriale
più maturo, insomma a un clima reso adatto, su misura, per
lavanzamento di quella parte della Penisola. E nelletà
giolittiana si poté assistere a un progressivo accentuarsi
della forbice tra le due Italie. Ovviamente, il problema è
ancora aperto.
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