Giugno 2002

DA DOVE VENIAMO

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Preistoria industriale della
quinta potenza economica
Gianni Calise - Aldo Marconi
 
 

 

 

Da noi quella crisi si manifestò più tardi, per i minori legami della
nostra economia col mercato
mondiale:
ma i suoi effetti
non furono meno
disastrosi.

 

Alla fine del 1986 il prestigioso settimanale economico britannico Economist assegnò all’Italia il quinto posto nella graduatoria mondiale delle potenze economiche. Vi era scritto:

«Una volta gli inglesi guardavano all’economia italiana come ad una miscela di contadini, dalle spalle curve, slum di Napoli, turbolenti operai di Torino che scioperavano contro la Fiat. La crescita economica ha capovolto questa caricatura: ora è l’Inghilterra la più povera».

I conti fatti in Italia hanno dimostrato l’esattezza di questo giudizio e fatto intravedere che il nostro Paese si sta avvicinando alla Francia, minacciandone il quarto posto. Dunque, il presente ci offre l’immagine di un’Italia fortemente industrializzata, ma ci pone anche molti problemi sul quando e come è avvenuto questo processo di industrializzazione. Il che significa percorrere gli avvenimenti dal 1860 al 1914, consapevoli che è molto importante conoscere l’infanzia e l’adolescenza industriale della Penisola, perché molte caratteristiche dell’industria odierna risalgono ad oltre un secolo fa. La società industriale in cui viviamo tutti noi, con le sue contraddizioni, ma anche con le sue straordinarie capacità produttive, è una realtà costruita progressivamente nel corso di centocinquant’anni. Conoscere in che modo si è formata, vuol dire anche scoprire, o riscoprire, le leggi di funzionamento della società capitalistica.
Per comprendere perché nella nostra vita quotidiana siamo circondati da prodotti industriali e non da prodotti manufatti o artigianali, e per spiegare come mai una gran parte degli italiani è composta da lavoratori salariati, è necessario partire da molto lontano, da quando l’industria era “bambina” (come dicevano gli imprenditori di allora). Ma proprio in quel periodo ebbe inizio una poderosa trasformazione della nostra società. Gli industriali dovevano letteralmente imparare a fare gli industriali, gli operai dovevano imparare a fare gli operai. E tutto questo rappresentò un processo né facile né indolore. E ciò aiuta a capire, fra l’altro, come mai anche oggi i Paesi sottosviluppati o le aree depresse stentino, anche in presenza di capitali notevoli, a compiere il salto verso l’industrializzazione e ad elevare decisamente il loro reddito.

Intorno al 1860, la condizione dell’Italia rispetto ai Paesi industrializzati dell’Occidente (Inghilterra e Francia, in particolare) era quella tipica delle “aree arretrate”, nel senso della moderna terminologia economica. Al momento dell’unificazione, il reddito nazionale era meno di un terzo di quello francese e soltanto un quarto di quello inglese. Modestissima la percentuale assicurata dall’industria alla formazione del reddito complessivo: non più del 20,3 per cento del Pil, contro il 57,8 per cento dell’agricoltura. Nessuna città italiana conosceva gli ambienti borghese e operaio delle città dell’Europa occidentale, né un paesaggio urbano che preannunciasse quello dell’età industriale, anche se centri che da tempo vegetavano entro la cerchia delle mura antiche avessero cominciato a dare nuovi segni di vita nel corso della prima metà dell’Ottocento. Nel 1861 nemmeno un quinto degli italiani risiedeva in centri superiori ai ventimila abitanti. E’ vero che esisteva un’armatura urbana relativamente fitta, e consolidata in comuni minori, nell’Italia centro-settentrionale. Ma la maggior parte della popolazione cittadina si addensava nelle vecchie capitali storiche; ed esse - esclusa Milano e poche altre città - traevano le loro prospettive di crescita più da funzioni gerarchiche di natura burocratica e amministrativa che da reali motivi di iniziativa economica. Fiere e piazze paesane continuavano a provvedere a larga parte dei traffici locali e a tenere i contatti tra città e campagne, fra monti, colline, pianure. Alla data dell’unificazione, lo sviluppo della rete ferroviaria assommava a poco più di 2.000 chilometri, contro i 17.000 inglesi e i 9.300 francesi; non esistevano collegamenti longitudinali dall’uno all’altro capo della Penisola; l’analfabetismo era condizione comune a circa due terzi della popolazione.

Ha scritto Rosario Romeo che nelle campagne una produzione domestica diretta all’immediata soddisfazione dei bisogni familiari veniva esercitata su scala assai diffusa da uomini e donne, specie nelle pause invernali dei lavori agricoli. Accanto al lavoro familiare in senso stretto, un’importanza crescente assumevano «altre forme di produzione nelle quali il lavoro individuale era già sottoposto al controllo di un capitalista». Per esempio, la tessitura di cotone era esercitata soprattutto da ditte che avevano al centro un mercante imprenditore, che forniva ai vari tessitori la materia prima. Quando non si trattava di contadini isolati, i tessitori erano di solito i “capifabbrica”, alle cui dipendenze lavoravano una decina di persone, con telai appartenenti al capofabbrica. Una volta terminata la lavorazione, il capofabbrica consegnava il prodotto al mercante imprenditore, il quale provvedeva alla vendita.
La produzione aveva dunque subìto un processo di concentrazione commerciale, ma la sua struttura tecnica era ancora fondata sul lavoro individuale. Il mercante imprenditore era più un commerciante che un industriale. Inoltre, gli addetti all’industria erano ancora per gran parte lavoratori agricoli, che con discontinuità dedicavano alle attività industriali la loro opera. Da ciò, la variabilità stagionale di questa manodopera, più abbondante in inverno, scarsa nei mesi dei grandi lavori agricoli; e da ciò anche la difficoltà di disporre di operai abili e specializzati, per via della promiscuità di occupazioni cui costoro si dedicavano.

L’industria della seta occupava, nel quadro della dominante industria tessile, una posizione di preminenza. Aveva i centri maggiori in Lombardia, ma anche in Piemonte e nel Veneto, ma veniva esercitata su scala discretamente estesa anche nel Sud, soprattutto in Campania, Calabria e Sicilia.
L’industria che raggiunse uno sviluppo maggiore, sia dal punto di vista tecnico che organizzativo e finanziario, fu la filatura del cotone, che specie in Lombardia, già prima del 1848, vantava stabilimenti importanti e moderni, con molte migliaia di fusi in attività. Era concentrata nelle province di Milano e Varese, e, in Piemonte, nel Novarese-Verbanese e nel Canavese.
La lavorazione della lana vantava centri antichi e importanti in Piemonte, dove Biella occupava una posizione di vertice, e nel Veneto, dove Schio era all’avanguardia tecnica. Nel Sud queste attività tessili erano un po’ tutte presenti, con concentrazioni importanti nel Salernitano e in Terra di Lavoro.
La lavorazione del minerale di ferro, con concentrazioni in Calabria (Ferdinandea e Mongiana), in Toscana (zone costiere, monti di Pistoia e Pietrasanta, Valdelsa), in Val D’Aosta, in Lombardia (Alta Valtellina, Valsassina, Val Brembana, Val Seriana...), era a livelli ancora molto arretrati, basandosi ancora sulla produzione di ghisa all’altoforno a carbone di legna.
Stabilimenti meccanici d’ampiezza rilevante, con diverse centinaia di operai, erano sorti a Milano, Genova, Torino, Brescia, Pietrarsa (Napoli), ma essi erano in molti casi statali o sostenuti dallo Stato, mosso non tanto da ragioni militari, quanto dalla necessità di far costruire le ferrovie, con spese che i privati non erano in grado di fronteggiare da soli. Il resto dell’industria meccanica si riduceva ad attività poco più che artigianali.
Infine, un’importanza economica notevole avevano le industrie alimentari: ma erano così strettamente collegate all’agricoltura, da non meritare del tutto la qualifica di “industrie”. Da ricordare in particolare il settore vinicolo, che dalla Sicilia al Piemonte, dalle Puglie alla Toscana dava vita a correnti di esportazione abbastanza importanti.

Con l’unificazione, una delle cause di inferiorità strutturale lamentata dagli economisti venne rimossa: un ampio mercato nazionale prendeva il posto di tanti mercati parziali, cadeva l’intrigo delle dogane interne che per secoli avevano ridotto l’Italia a un mosaico di piccoli Stati, finalmente diventava possibile una politica di produzione e di espansione interna che non sarebbe stata pensabile prima del 1861. E questo in un’epoca di macchinismo e di industrializzazione, di acuita concorrenza e di rivoluzione dei trasporti.
In questo quadro, l’adozione di una politica liberistica ebbe come diretta conseguenza la crescente importazione di manufatti stranieri, che arrivavano sul mercato italiano a prezzi molto più bassi dei prodotti italiani. Ciò mise in difficoltà soprattutto il Mezzogiorno e le sue industrie, le quali, perdendo la protezione doganale, non furono più concorrenziali.
Ma la politica di libero scambio – osserva Romeo – non favorì neanche le industrie dell’Italia del Nord, ancora troppo deboli nelle loro strutture per poter competere con quelle dei Paesi industrialmente più avanzati. Persino l’industria rivolta al mero consumo familiare, ancora diffusissimo nel mondo contadino, finì per crollare davanti ad una concorrenza che presentava sul mercato il prodotto finito a prezzi quasi equivalenti a quelli che il lavorante isolato pagava per la sola materia prima.
In questa fase, si accumulò nelle mani dei ceti più elevati del mondo rurale l’incremento del reddito agrario, dal quale rimasero esclusi gli strati inferiori della popolazione contadina. E tuttavia, i risparmi di un’agricoltura arretrata come quella italiana poco potevano significare ai fini dello sviluppo industriale. Oltretutto, si verificarono alcuni fattori, tra i quali la politica fiscale dello Stato, che non solo avocò a sé in grandissima misura i maggiori redditi conseguiti dai grandi produttori agrari, ma col pagamento dell’imposta costrinse anche le più isolate e frammentarie aziende, ancora legate all’economia di sussistenza, a contribuire allo sviluppo delle premesse fondamentali dell’industrializzazione.
Ma i redditi agrari ebbero anche altre destinazioni. Una larga aliquota fu assorbita, fino al 1866, dalle spese militari, e una anche maggiore dagli interessi del debito pubblico. Una parte importante finì in spese pubbliche: per le sole ferrovie si spesero 1.850 milioni; altre cifre furono destinate a strade ordinarie, porti, poste e telegrafi, enti locali, per servizi e infrastrutture.

Intorno al 1880 una svolta radicale si operò nella vita economica italiana con l’inizio della crisi agraria, che s’inserì nel più vasto contesto della depressione apertasi nell’economia mondiale dopo il 1874, e che sarebbe durata fino al 1896. Da noi quella crisi si manifestò più tardi, per i minori legami della nostra economia col mercato mondiale: ma i suoi effetti non furono meno disastrosi. Alla sua origine, l’abbassamento dei noli marittimi, che permise l’arrivo sui mercati europei dei cereali d’oltreoceano a prezzi insostenibili dalla produzione del Vecchio Continente.
Mutava così la funzione dell’agricoltura nel quadro della nostra economia. Se nel primo ventennio essa aveva realizzato importanti progressi di produzione e di strutture, ora diventava il settore più di ogni altro ritardatario. Ciò portò anche la politica fiscale a spostare il proprio asse d’intervento, portandolo sulle attività mobiliari. Lo Stato continuò a sviluppare una politica di opere pubbliche. Ma per quanto importante, essa non ebbe più il carattere di creazione di infrastrutture fondamentali, come nel ventennio precedente: ora si accompagnava, come nei periodi successivi, a quello che era ormai, anche se per una sola parte del Paese, l’ordinato sviluppo economico e industriale avviato grazie agli sforzi degli anni trascorsi. Le opere pubbliche attuali, d’altro canto, non potendo essere più realizzate con i prelievi dall’universo agrario, gravarono sui redditi crescenti del commercio e dell’industria.
In effetti, dunque, la crisi agraria ebbe un rilievo nell’accelerare l’avvio dei capitali agli investimenti industriali, e nel determinare la conseguente espansione di questa attività nel periodo 1881-87.

La nuova tariffa doganale modificò profondamente le basi del sistema economico italiano in un momento molto delicato, quando una serie di fattori determinarono il rovesciamento della congiuntura espansiva degli anni 1880-‘87. La guerra doganale con la Francia, Paese che aveva assorbito il maggior volume delle nostre esportazioni, danneggiò soprattutto la viticoltura meridionale e il rifornimento di prodotti industriali dall’estero.
Il boom edilizio di Roma, fiorito su iniziative imprenditoriali prive di basi serie, ebbe un crollo rovinoso, che coinvolse e mise in difficoltà numerose istituzioni bancarie. Ne fu aggravata anche la situazione monetaria, già compromessa da irregolarità. Per di più, una serie di cattivi raccolti colpì l’agricoltura, già sofferente per la caduta delle esportazioni. Tutto ciò fece cadere i consumi, e, di conseguenza, mise in crisi l’apparato industriale.
La depressione si prolungò fino al 1898, anno in cui i tumulti di Milano sembrarono portare il Paese al limite di una crisi sociale di gravissime dimensioni. Tuttavia, i segni della ripresa, che doveva sbocciare con la grande espansione dell’età giolittiana, almeno per il settore dell’industria, si scorgevano già dal 1896. I decenni non erano trascorsi inutilmente: infrastrutture, impianti, processi produttivi moderni erano stati creati in alcune zone del Paese; i nuovi istituti di emissione garantivano maggiore stabilità monetaria e tutela del risparmio. Queste nuove condizioni consentirono alle strutture produttive di inserirsi con vantaggio nella fase di alti prezzi che si apriva nell’economia mondiale al termine della depressione; e il nuovo periodo di espansione sarebbe durato, con la grave interruzione del 1907, fino al primo conflitto mondiale.

L’industria assume un ruolo primario. L’indice della produzione manifatturiera passa dal 29 del 1896 al 54 del 1914. Per i beni strumentali, si va dal 28 per cento del 1895 al 47 per cento del 1913. Salgono i valori della produzione metallurgica e meccanica, mentre si ridimensionano quelli delle imprese agricolo-manifatturiere (alimentari, delle bevande, tessili, dei tabacchi), e trovano impulso le imprese minerarie. Lo spostamento verso l’industria pesante è nettamente visibile.
A sostenere lo slancio della ripresa è l’uso dell’energia idroelettrica, il “carbone bianco” che copre i buchi di fonti di energia dell’Italia. Già nel 1883 il nostro Paese aveva realizzato in questo settore un cospicuo successo tecnico, con la costruzione della prima centrale europea: quella di Santa Radegonda, a Milano, destinata all’illuminazione privata. Poi si era avuta una certa diffusione di impianti di illuminazione pubblica e privata, fornitura di forza motrice alle industrie, installazione di tramvie elettriche... Restavano le difficoltà del trasporto a distanza dell’energia. Ma nel 1898 un fatto tecnico di importanza decisiva fu realizzato con la centrale idroelettrica di Paderno sul Gadda, destinata alla fornitura di energia a Milano, dove giungeva con una linea di 32 chilometri. Da quel momento, nessun comparto finanziario dispose di capitali così cospicui come quello dell’energia elettrica.
Condizioni di inferiorità erano registrate nel Sud già nel 1887. Ma se fino a quella data gli svantaggi della concorrenza industriale seguita al 1860 erano stati in qualche modo compensati dalla vivace espansione dell’agricoltura esportatrice del Mezzogiorno, soprattutto nei settori vinicolo e agrumario, dopo si poté fondatamente parlare di un sistematico sacrificio degli interessi delle regioni meridionali a quelli dell’industria protetta del Nord, e della creazione, addirittura, di una sorta di mercato di consumo di tipo coloniale nel Sud.
Scrive Romeo che a vantaggio della medesima industria agiva la generale tendenza ad accumulare e accentrare sempre nuovi investimenti nei paesi e nelle regioni dove esisteva già un complesso di iniziative industriali sviluppate, cioè nel Nord dell’Italia. Qui sussisteva tutta una serie di vantaggi, da una rete più ampia di infrastrutture alla presenza di una serie di imprese collaterali e sussidiarie, a una manodopera già addestrata, a una più intensa domanda di prodotti industriali, a un ceto imprenditoriale più maturo, insomma a un clima reso adatto, su misura, per l’avanzamento di quella parte della Penisola. E nell’età giolittiana si poté assistere a un progressivo accentuarsi della forbice tra le due Italie. Ovviamente, il problema è ancora aperto.

   
   
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