Giugno 2002

DOPO L’11 SETTEMBRE DELLE TWIN TOWERS

Indietro
Per l’economia è stato
il ruggito del topo
Carlo G. Sforza  
 
 

 

 

Far credere che basti un manipolo di esaltati
integralisti per mettere in crisi
l’economia
mondiale è
una tesi letteraria intrigante, ma
è dannosa e,
soprattutto, falsa.

 

L’esercizio è piuttosto difficile, ma possiamo provare ugualmente a farlo. Dobbiamo riportarci ai primi di settembre 2001, quando si disquisiva sull’entità del rallentamento dell’economia americana e degli effetti che avrebbe determinato per l’economia europea. Si facevano diverse ipotesi che, con un linguaggio singolare, venivano individuate come una “V”, per significare una caduta magari anche accentuata ma seguita da una sollecita ripresa, una “U”, per dire di una fase di ristagno più prolungata, di una “W”, per indicare una doppia caduta e ripresa, quest’ultima di medio-lunga durata, o di una “L”, per rappresentare lo scenario di una lunga stagnazione, di una crisi che avrebbe potuto essere più accentuata, e di una ripresa conseguentemente più remota. Non veniva esclusa l’eventualità che nella dinamica del Pil comparisse il segno negativo, e già si andava agitando l’irrilevante questione lessicale inerente alla circostanza che, se fosse comparso per due trimestri consecutivi, si sarebbe potuto parlare di recessione.

Dopo che questi argomenti erano stati approfonditi, dopo che erano state formulate queste ipotesi, e – ripetiamo ancora – dopo che una flessione del Pil americano era stata inserita nell’orizzonte del possibile, il mondo è stato scosso dall’aggressione terroristica dell’11 settembre. L’inusitata portata di quegli avvenimenti ha indotto e ancora induce a farne il riferimento di ogni evento successivo, con tutta l’enfatizzazione che deriva dalla potenza del colpo inferto a certezze ritenute solide e inattaccabili. Si può capire che sotto quel colpo siano cadute certezze politiche, nell’accezione che deriva da polis, quindi certezze che attengono all’organizzazione della comunità, alle sue relazioni interne, alle sue logiche di funzionamento, al modo di viverci; si può capire che siano cadute certezze sulla forza della razionalità economica come unico paradigma di quei processi che vanno sotto il nome di globalizzazione; si possono capire questi aspetti, anche se occorrerebbe chiedersi quanto dell’intensità di queste reazioni è prodotto dalla inclinazione mediatica a porre accenti sempre più marcati solo sugli aspetti più eclatanti malgrado la realtà che li comprende rimanga fatta anche, e spesso soprattutto, di quotidianità, di abitudini, di ripetitività; di inerzie che talvolta condanniamo come fattori di sclerotizzazione, ma talaltra dobbiamo apprezzare come elementi di resistenza all’urto delle forze che tendono a scardinarla.
Ecco, allora, l’esercizio: quanto è stata scardinata l’economia dagli eventi dell’11 settembre? Qui parliamo di dati e di fatti oggettivi, non di reazioni psicologiche, di timori, di eventualità. Ebbene, i dati sono negativi, ovviamente, ma lontani dal catastrofismo col quale sono stati riferiti o raccontati. Quelli più generali rientrano, o possono rientrare, nelle ipotesi sia pure le più pessimistiche, che si andavano facendo prima dell’11 settembre. Se il dato sul Pil trimestrale è stato il peggiore da ben dieci anni, è a motivo della eccezionalità del ciclo di crescita, appunto decennale, che l’economia americana ha vissuto. Una contrazione dei consumi a beneficio di una ripresa del risparmio era implicita nel forte indebitamento netto che le famiglie americane avevano raggiunto e che veniva visto come un fattore di grande fragilità nella pur florida condizione dell’economia americana degli ultimi anni. E ancora: sono stati distrutti 400 mila posti di lavoro; sono stati tanti, certo, ma questo dato va confrontato con quello di oltre 600 mila che, sempre per quella tendenza alla drammatizzazione, gli analisti avevano previsto lungo la linea di tendenza chiaramente prospettata fin dai mesi precedenti.
Se si compie questo esercizio, si può concludere che l’attacco terroristico può avere accelerato, ma non determinato, e, forse, neppure accentuato una virata degli indicatori economici che era stata prevista, era cominciata ben prima dell’11 settembre, e per alcuni aspetti era stata anche auspicata come necessaria a consolidare l’intero assetto economico e finanziario degli Stati Uniti. L’effetto maggiore gli attacchi terroristici lo hanno determinato modificando la composizione della domanda interna: la domanda pubblica è dovuta intervenire per compensare la contrazione di quella privata, e all’interno di quest’ultima si sono verificati massicci spostamenti da alcuni settori ad altri che sono in espansione, ma proprio per questo non fanno notizia. Peraltro, gran parte della domanda privata venuta a mancare è dovuta, secondo molti analisti, soltanto alla costernazione che ha portato a soprassedere, con effetto chiaramente temporaneo, su molti programmi di spesa che, come in tutti i sistemi evoluti e agiati, sono procrastinabili senza grande sacrificio, riguardando beni non essenziali.
Una corretta individuazione delle cause di ciò che è accaduto è importante perché l’intera economia della maggiore potenza economica ora è governata più dagli atteggiamenti psicologici che dai calcoli economici. Diventa allora importante distinguere tra ciò che deriva dalla fisiologia di un sistema economico cresciuto per dieci anni a ritmi inusitati, accumulando tensioni e squilibri che dovevano essere comunque risolti, dalla patologia delle aggressioni terroristiche. Fare confusione complica tremendamente le cose, rende più difficile una ripresa e può allontanarla nel tempo. Far credere che basti un manipolo di esaltati integralisti per mettere in crisi l’economia mondiale e modificare il modo di vivere di centinaia di milioni di persone è una tesi letteraria che può anche essere intrigante, ma è dannosa, moltiplica i problemi, e, soprattutto, è falsa.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000