Giugno 2002

GLI SCENARI GLOBALI DOPO L’11 SETTEMBRE

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O le merci o i soldati
Giovanni Agnelli  
 
 

 

 

Niente può
difendere
la convivenza tra
i popoli più
della loro ampia
partecipazione,
attraverso gli scambi, alla
crescita economica e al progresso
civile.

 

“Globalizzazione” è parola moderna e molto in voga. Ma l’ideale che esprime non è nuovo: appartiene alla storia stessa dell’umanità. Sta nell’aspirazione delle primordiali comunità ad ampliare il proprio territorio alla ricerca di terre più fertili da coltivare e di una più ricca selvaggina da cacciare. Sta nelle spinte delle prime civiltà a estendere ad altre le proprie regole di convivenza, la propria cultura, la propria religione. Al desiderio e all’ambizione di unificare il mondo possiamo ricondurre molteplici vicende che hanno segnato il corso dei secoli. Vi appartengono, per esempio, i caratteri dell’espansione romana, la propagazione del Cristianesimo, e, poi, dell’Islam, l’esperimento di unificazione dell’Europa di Carlo Magno, la curiosità per l’ignoto che ha ispirato le grandi esplorazioni, i valori civili propugnati dalla Rivoluzione francese, la formazione dei grandi Imperi coloniali, l’internazionalismo della lotta di classe preconizzato da Karl Marx.
Nella tensione alla globalità che ha ispirato vicende così diverse, c’è forse un’almeno parziale risposta alla “domanda essenziale” con la quale Leone Tolstoj chiudeva Guerra e Pace allorché si chiedeva «qual è la forza che muove i popoli». E, tuttavia, l’ideale della globalità così connaturato allo spirito dell’uomo si è sempre manifestato (prima e dopo la tragica esperienza napoleonica in Russia) attraverso la logica della conquista e del predominio. Conquista politica, economica, religiosa, ideologica. Così è stato fino ad un recente passato, fino a quando i 57 milioni di morti della seconda guerra mondiale non hanno cominciato a incrinare quella logica e i calcinacci del Muro di Berlino non l’hanno seppellita – speriamo per sempre – nel 1989.

Sono dell’idea che niente può permettere di difendere la convivenza tra i popoli più della loro ampia partecipazione, attraverso gli scambi, alla crescita economica e al progresso civile. «Dove passano le merci non passano i soldati». Con questo intendimento a Bretton Woods furono poste nel ‘44 le basi delle nuove istituzioni economiche internazionali (il Fondo monetario e la Banca mondiale); gli Stati Uniti erogarono all’Europa, tra il ‘48 e il ‘52, gli aiuti del Piano Marshall; l’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio avviò nel ‘48 la liberalizzazione dei commerci; l’Europa, a partire dall’istituzione nel ‘51 della Comunità del Carbone e dell’Acciaio, intraprese il suo cammino di unificazione.
Della necessità di una rinnovata governance internazionale si discute da tempo, e senza molto costrutto, per la verità; credo tuttavia che si possa dire che tra gli effetti inattesi e positivamente sorprendenti dei drammatici eventi dell’11 settembre vi sono importanti segnali. Segnali non di allentamento o arretramento, ma di rafforzamento della volontà di perseguire l’integrazione e di coordinarla più efficacemente. Essi riguardano, da un lato, la gestione dell’economia, e, dall’altro, la politica internazionale.
All’indomani degli attentati terroristici negli Stati Uniti, da più parti era stato espresso il timore che l’insicurezza generata da un mondo divenuto improvvisamente ostile potesse invertire il processo di integrazione pacifica che aveva segnato in particolare gli anni Novanta. Si è temuto che la comunità economica globale potesse disperdersi e cadere vittima di una “sindrome dell’eremita” intesa a ridurre ogni rischio o impegno esterno. In effetti, così è stato, ma non a lungo. E ciò per le risposte che la politica economica ha saputo dare alla crisi.
Per la prima volta abbiamo assistito all’attivazione rapida, globale e coordinata delle grandi autorità monetarie mondiali. Federal Reserve, Banca centrale europea, Banca d’Inghilterra. Anche le politiche di bilancio si sono mosse, certo non con la stessa incisività, la stessa omogeneità, la stessa rapidità. Gli Usa hanno potuto far leva sui margini di surplus di bilancio. L’Europa, che questo surplus non l’ha, di fatto ha procrastinato l’avvicinamento al pareggio di bilancio. Ciascun Paese ha sfruttato secondo le sue necessità il limite massimo di deficit consentito dal Patto di stabilità. Nel loro complesso, le politiche economiche hanno comunque arginato i timori di collasso di breve termine delle economie. Ancora non abbiamo certezze su quel che potrà avvenire nei prossimi sei o nove mesi. Ma uno sguardo più “lungo” non può non cogliere caratteri incoraggianti.

Elementi di giudizio ancora più incoraggianti vengono da un altro versante, quello della risposta politica agli eventi dell’11 settembre. E’ su questo terreno, soprattutto, che sono maturate scelte che ci fanno parlare di un’inattesa ripresa della capacità di governance mondiale. Quel che è divenuto chiaro a tutti, dopo l’11 settembre, è che non può esistere salvaguardia nazionale senza cooperazione internazionale, in tutti i campi. In questa prospettiva abbiamo visto per esempio l’Amministrazione americana modificare radicalmente le sue posizioni in materia di controllo sui mercati finanziari e di contrasto ai paradisi fiscali. Abbiamo visto chiudersi in tempi strettissimi la trattativa di partnership strategica fra gli Usa e il Pakistan, con accordi economici che sono ora materia di negoziato anche con altri Paesi dell’area asiatica. Abbiamo visto finalmente la Cina entrare nell’Organizzazione mondiale del commercio.
Abbiamo visto compiere a Doha passi decisivi per garantire l’apertura dei commerci globali e per stabilire una rinnovata fiducia fra il Nord e il Sud del mondo. I Paesi più ricchi si sono detti finalmente disponibili ad abbassare le barriere protezionistiche, specie nel tessile e nell’agricoltura, che costano ai Paesi in via di sviluppo assai più di quanto ricevano in aiuti internazionali. Occorre superare l’ipocrisia di chi incoraggia i Paesi poveri ad aprirsi e adeguarsi al libero commercio, e, al tempo stesso, nega gli accessi al proprio mercato interno. A Doha è stato anche riconosciuto il principio che la tutela della salute pubblica prevale sulla tutela dei brevetti, permettendo così ai Paesi in via di sviluppo di beneficiare di farmaci indispensabili e finora inaccessibili.
Sul piano delle relazioni internazionali, poi, i fatti dell’11 settembre hanno mostrato per la prima volta che Mosca, Washington e Pechino possono essere schierate insieme dalla stessa parte. E non solo per un’associazione oggi tattica, ma anche in vista di un possibile nuovo ordine mondiale. Il temuto scenario anti-globale di un Occidente contrapposto al resto del mondo sembra svanito.

I ragazzi che oggi hanno tra i 14 e i 26 anni sono circa un miliardo e mezzo. Mai nella storia tante persone si sono trovate contemporaneamente negli anni più fecondi della vita. In questo miliardo e mezzo di giovani ci sono enormi potenzialità di intelligenza e di creatività. Ma per buona parte essi vivono nel Terzo o nel Quarto Mondo. Per questo, le loro potenzialità rischiano di andare sprecate, di non trasformarsi in maggiore benessere e migliore qualità della vita per loro e per i loro Paesi.
E’ una questione che ci interessa tutti, per ragioni che vanno anche al di là delle mere considerazioni economiche, sollevando grandi problemi di natura politica, sociale ed etica. E’ una questione che, per la sua dimensione, richiede un grande sforzo internazionale di cooperazione e di finanziamento di specifici progetti di sviluppo. Progetti che puntino alla realizzazione delle infrastrutture indispensabili per permettere alle popolazioni del Sud del mondo l’accesso alle risorse di base, cibo e acqua innanzitutto. Progetti che garantiscano ai giovani adeguate opportunità di formazione, il modo migliore per contrastare il lavoro minorile. Progetti che facilitino il credito per aiutare la nascita e lo sviluppo di iniziative imprenditoriali.
A tutto ciò le istituzioni internazionali e i governi dei Paesi più sviluppati dovranno dedicare maggiori risorse di quanto non sia stato fatto finora. Risorse da allocare, con grande trasparenza, là dove più forti sono le garanzie di rispetto della legge e dei diritti umani. Risorse il cui impiego deve poter essere sempre controllato da quanti – in ultima istanza, i cittadini dei Paesi più sviluppati – le mettono a disposizione.
Guardando al futuro, emerge anche un’altra grande sfida: il dialogo fra le diverse civiltà mondiali.
Quel che le vicende terroristiche degli ultimi tempi hanno reso ancor più evidente è che la globalizzazione economica non è quel grande frullatore che omogeneizza le culture e ne annulla le specificità. Al contrario, esse si mantengono ben vive e capaci di esercitare un forte senso di identità sul piano sociale e politico. C’è addirittura chi sostiene che stiamo assistendo ad una rivincita delle culture tradizionali rispetto ad un processo di occidentalizzazione e, di conseguenza, a una crisi dell’egemonia occidentale sul piano etico, culturale e politico. Dopo il crollo delle ideologie, saremmo, insomma, al “conflitto tra le civiltà”.

L’Europa ha in sé le virtù per essere un elemento di equilibrio nel mondo. A cominciare da ciò che può fare per agevolare l’ingresso della Russia e dei Paesi dell’Est nello spazio economico occidentale. Ma per essere veramente fattore di equilibrio deve essere più solida, più autorevole, più unita. Deve proseguire nel cammino di integrazione, affermarsi come soggetto unico, capace di parlare con una sola voce, e con voce non flebile.
Esiste una forte dialettica sul modo di raggiungere questo obiettivo, sulle molteplici opzioni degli assetti politici futuri che verranno discussi nella Commissione. E’ già un fatto di straordinario rilievo, tuttavia, che l’Europa si sia data, con un’unica moneta, anche un’unica lingua per la sua economia. Siamo arrivati a questo traguardo attraverso Maastricht. Maastricht ci ha posto dei vincoli. Dobbiamo considerarli come i tutori di una pianta giovane.
E l’Italia? Questa Italia in cui troppo spesso il chiasso delle dispute sembra lasciare in secondo piano l’interesse comune e l’immagine del Paese? L’Italia deve recuperare il dialogo costruttivo con tutte le sue componenti; e deve anche rimanere ben consapevole che non può fare a meno dell’Europa.
Di certo, nel momento in cui in Europa si confrontano due posizioni, (l’una orientata ad una sempre maggiore unificazione politica della Comunità, l’altra ad una maggiore salvaguardia dell’autonomia dei singoli Stati), il ruolo dell’Italia può diventare quello dell’ago della bilancia. Ne discende una responsabilità strategica. Dalle scelte che il Paese farà, dipenderà il futuro continentale. E ciò rende, se possibile, ancora più importante il confronto e il dialogo fra tutte le persone di buona volontà. In pari tempo, l’Europa non può fare a meno del nostro Paese, che è la sua principale finestra sul Mediterraneo.
Un’attenta politica mediterranea è stata una costante di tutti i nostri governi, anche di quello attuale. Certo, il concetto di “Mare Nostrum” è ormai confinato negli archivi della storia antica e meno antica. Ma il Mediterraneo resta un luogo cardine nell’incontro tra civiltà. L’Italia vi può svolgere un ruolo vitale, dimostrando di saper affrontare con intelligenza e lungimiranza anche i problemi della trasformazione sociale e demografica delle sponde sud-orientali e delle pressioni migratorie che essa genera.
La nostra collocazione geografica resta quella di un Paese di frontiera: non più tra Est e Ovest, ma tra Nord e Sud. Dobbiamo governarla, facendoci protagonisti di un impegno alla graduale integrazione nella cultura e nella società europea di Nord Africa, Medio Oriente, Balcani.

E’ in questa ampia prospettiva politica che siamo chiamati per primi ad esercitare concretamente e responsabilmente i princìpi della solidarietà. Mai, nel corso della storia, si è data l’opportunità così grande di crescere insieme sul terreno della pacifica cooperazione. Ne esistono tutte le condizioni. La forte convergenza tra i soggetti politici internazionali, grandi e piccoli, potenti o meno che siano. La continua diffusione dell’economia di mercato. La mobilità delle persone e delle idee. La facilità d’accesso alle tecnologie più avanzate, soprattutto a quelle informatiche.
La consapevolezza della superiorità del metodo democratico su altri metodi di governo. Per secoli, gli uomini hanno pensato che un destino diverso da quello altrui attendesse ogni comunità nazionale. E perché questo destino si avverasse non hanno esitato ad utilizzare gli strumenti, anche i più cruenti, della conquista e del predominio. Oggi, la compagine mondiale ha fatto sua la convinzione che si può percorrere un cammino comune, nel reciproco rispetto e nella reciproca valorizzazione. Ha fatto sua la convinzione che esiste un destino comune nel conquistare insieme l’affrancamento da ogni genere di povertà e privazione materiale e immateriale.
Questa è la grande opportunità della globalizzazione. Questo è il traguardo per cui val bene spendere tutte le nostre energie morali e intellettuali.

   
   
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