Giugno 2002

RIFLESSIONI DI UN ECONOMISTA

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Se si perde
il posto di lavoro
Lester C. Turow Premio Nobel per l’Economia - Docente al Mit
 
 

 

 

Le cronache di questo periodo
sono piene di cifre sui licenziamenti, ma nessuno pensa mai che dietro
i numeri ci sono delle facce: facce vecchie e giovani.

 

Con un decennio di disoccupazione in calo alle nostre spalle, i ricordi di che cosa succede davvero durante le recessioni sbiadiscono. Chi lavora solo da una decina d’anni, o magari meno, non ha mai fatto l’esperienza di una recessione. Ebbene, è un’esperienza che fa male.
Dopo quarant’anni, ricordo ancora quando, ventiduenne, fui licenziato da un lavoro estivo in una fonderia di rame perché la domanda di quel metallo era in flessione. Sebbene sul puro terreno economico il colpo non fosse troppo duro, ogni particolare è rimasto vivo nella mia mente. Non c’era nessun motivo di sentirsi in imbarazzo, eppure mi vergognavo di dire ai miei genitori che ero stato licenziato, anche se in quel momento eravamo in tanti a fare la stessa esperienza.
La cosa fa male anche dall’altra parte del tavolo. Soltanto chi non l’ha mai fatto può pensare che licenziare qualcuno sia facile. Nel mio lavoro di preside al Mit, nulla mi riusciva più difficile che licenziare. E’ una cosa che ti tiene sveglio la notte.
Le cronache di questo periodo sono piene di cifre sui licenziamenti, ma nessuno pensa mai che dietro i numeri ci sono delle facce. Facce vecchie e giovani. Padri e madri. Fratelli e sorelle. In termini più impersonali, la disoccupazione è quello che gli economisti chiamano un indicatore ritardato. Se il prodotto interno lordo scende, la disoccupazione salirà, ma ci vorrà qualche mese. L’intervallo temporale si spiega col fatto che le imprese rinviano i licenziamenti in attesa di vedere se la flessione è reale e duratura.
Ciò perché i licenziamenti sono dolorosi e costosi. Ci sono innumerevoli motivi per evitarli, finché è possibile. Bisogna provvedere ai pagamenti di fine rapporto, e mettere in conto più alti costi di formazione in futuro. Gli elementi qualificati che l’impresa ha messo alla porta non saranno lì, pronti per essere riassunti quando verranno tempi migliori. Il morale di chi è rimasto ne soffrirà, e si ridurrà il numero di coloro che sono disposti ad accettare sacrifici personali per dare una mano all’azienda nel momento in cui ne ha bisogno. Ma c’è dell’altro: uno non è costretto ad aspettare di ritrovarsi vittima della flessione dell’attività. In realtà, accade spesso che i lavoratori migliori puramente e semplicemente se ne vadano; e fanno bene. Per un lavoratore specializzato e ambizioso è un vantaggio farsi assumere in un’azienda in crescita, dove le opportunità di avanzamento sono maggiori, anziché aspettare che il mercato per i prodotti dell’impresa in cui è correntemente occupato volga al meglio. E fatalmente il fattore età gioca un ruolo cruciale.

I lavoratori anziani. Per chiunque si trovi espulso involontariamente dal lavoro a un’età superiore ai 55 anni sarà difficile trovare un nuovo impiego. Le società sono poco propense a sopportare i maggiori costi in materia pensionistica e sanitaria legati ai dipendenti anziani, e preferiscono impegnarsi a formare lavoratori potenzialmente destinati a rimanere in azienda per un periodo più lungo. Tra gli anziani, pochissimi troveranno nuovi posti altrettanto buoni di quelli che hanno perduto. Per la maggior parte di loro, la carriera è giunta alla fine. Concluderanno la loro vita lavorativa in una serie di impieghi senza possibilità di avanzamento.

I lavoratori di mezza età. Per chi ha meno di 55 anni, sarà meno difficile trovare un nuovo impiego, ma molto probabilmente ciò avverrà a un livello salariale inferiore. Salvo il caso dei lavoratori-professionisti, entrare in una nuova azienda significherà ritrovarsi in fondo alla scala determinata dall’anzianità di servizio. E ciò significherà a sua volta una paga più bassa e un lavoro meno interessante. E’ inoltre molto probabile che le capacità apprese sul campo nella precedente occupazione si riveleranno inutili, oppure non saranno apprezzate, nel nuovo ambiente di lavoro. Un lavoratore che perda il posto nel settore manifatturiero troverà verosimilmente un nuovo impiego (ammesso che ci riesca) nel settore dei servizi, dove i salari sono mediamente inferiori di un terzo rispetto a quelli degli operai di fabbrica. Tutti questi fattori convergono nel senso di una diminuzione delle retribuzioni.

I lavoratori-professionisti giovani. Gli appartenenti a questo gruppo hanno le migliori probabilità di trovare un nuovo impiego con uno stipendio uguale, e magari superiore al vecchio. Ma anche loro si trovano di fronte a un grosso problema. I potenziali datori di lavoro sanno probabilmente benissimo che sono stati licenziati a causa di una flessione generale del mercato, ma rimane sempre il sospetto che queste persone fossero, ciascuna al proprio livello di qualifica, tra i dipendenti meno efficienti delle rispettive aziende.

E’ importante ricordare che dietro ogni punto percentuale di aumento della disoccupazione ci sono centinaia di migliaia di persone che possono raccontare le sofferenze loro inflitte dal rallentamento dell’economia. L’algebra di quanti finiranno col ritrovarsi disoccupati è semplice, e non è necessaria una recessione (sei mesi di crescita negativa) per causare un incremento considerevole delle persone inoccupate. Per tradurre dal linguaggio specialistico: per calcolare quale sarà il livello della disoccupazione tra un anno, basta sommare il tasso di crescita delle forze di lavoro al tasso di crescita della produttività, e sottrarre il tasso di crescita del prodotto; quindi, occorre sommare a queste cifre il tasso di disoccupazione attuale. Il risultato netto sarà pari al tasso di disoccupazione dopo un anno.
Ciascuno di noi spera di non rientrare in questa disoccupazione addizionale. Essere licenziati è molto doloroso. A nessuno piace venire scartato, sentirsi dire che non c’è più bisogno di lui, qualunque ne sia il motivo. Per chi è stato licenziato, il punto chiave non è farsi dei rimproveri, ma conservare la fiducia in se stesso. Quando l’economia rallenta, è difficile trovare un nuovo lavoro. Sono poche le aziende che puntano ad aumentare il numero dei loro dipendenti. Molte anzi congelano le assunzioni. E trovarsi buttati fuori è difficile da mandar giù.
Ma è importante ricordare che ciò che ha fatto di te un disoccupato, e che ti rende difficile un nuovo lavoro, non è la tua performance personale, ma il meccanismo caratteristico del sistema. I fallimenti, se fallimenti ci sono, sono i fallimenti del sistema e non i tuoi. Io lo so. Ci sono passato.

   
   
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