Giugno 2002

SEGNALI DI RIPRESA

Indietro
In nome dell’ottimismo
Paul Samuelson Premio Nobel per l’Economia - Docente al Mit
 
 

 

 

Se le regole del gioco fossero state le stesse di allora, avremmo visto banche fallire, un terzo dei cittadini perdere il lavoro, migliaia
di bancarotte.

 

L’economia americana era sicuramente entrata in una recessione vera e propria, colpendo pesantemente non soltanto gli Stati Uniti, ma anche il resto del mondo, con particolare durezza il Giappone. Ma per fortuna non viviamo più in un sistema di capitalismo puro come quello del 1929: se le regole del gioco fossero state le stesse di allora, avremmo visto banche fallire, un terzo dei cittadini perdere il lavoro, migliaia di bancarotte. Ma non è stato e non è più così: è significativo che nel giro di due settimane negli Stati Uniti si sia completamente spento il dibattito tra democratici e repubblicani sulla spesa fiscale: c’è stato consenso sulla decisione di George Bush di sovvenzionare i settori più colpiti, dalle linee aeree alle assicurazioni. Ed è stato incoraggiante che Alan Greenspan e Robert Rubin, segretario del Tesoro ai tempi di Bill Clinton, si siano riuniti per dire che era importante non prendere decisioni premature: molto meglio agire con lentezza, prendendo i provvedimenti giusti, piuttosto che precipitare le cose e sbagliare. Ho condiviso questa scelta di fondo.
Non è la prima volta che succede, e si tratta sempre di operazioni delicate, in cui contano moltissimo i particolari. Quando il governo intervenne in favore della Chrysler, non per ragioni particolari ma solo perché si trattava di un’industria importante in difficoltà, lo fece tutelandosi con opzioni di garanzia che garantivano non solo di recuperare la spesa pubblica ma anche parte dei profitti futuri. E’ una strada sempre possibile. Che il surplus venga intaccato per interventi di questo tipo è scontato: non per niente si sono estesi anche a un incremento della spesa militare.
Per spiegarmi, devo ricordare come era il mondo prima dell’11 settembre, perché anche parlando della situazione dell’economia mondiale quella data segna una svolta fondamentale. Fino a lunedì 10 settembre, la locomotiva americana stava avanzando a ritmo recessivo. C’erano varie ragioni per questo, la principale era lo scoppio della bolla speculativa della new economy, che si stava estendendo come una polmonite ad Europa, America Latina e area Pacifico. Il calo della produzione industriale e degli investimenti delle imprese era stato radicale e aveva portato ai ripetuti tagli dei tassi di interesse decisi dal presidente della Federal Reserve. Ma i consumi erano rimasti forti, soprattutto nella spesa per auto e case.
I consumi restano al momento un termometro a cui prestare molta attenzione: bisogna vedere se gli americani continueranno a volere spendere i loro soldi in vacanze o macchine anche quando i disoccupati aumentano e le cose vanno male. Uno scenario di stagnazione si apre soltanto se l’effetto domino continua ad aggravarsi sempre di più. Come in Giappone, anche negli Stati Uniti o in Europa tra i consumatori avrebbe potuto prevalere la prudenza: dopo tutto, americani ed europei occidentali hanno già due auto in garage e non hanno bisogno di comprarne una terza. Non è poi scritto nella pietra che gli investitori internazionali debbano continuare a puntare sugli Stati Uniti, come avevano fatto fino a quel momento. Detto questo, l’effetto 11 settembre ha colpito anche altri mercati, compresa l’Europa, anche se la debolezza è stata meno accentuata che non nell’area Pacifico: gli investitori hanno avuto poche alternative.

Lo scenario per i mercati internazionali è restato molto tumultuoso per parecchio tempo. Era chiaro da subito che l’investimento patriottico invocato fosse destinato ad avere vita breve. A vendere a Wall Street non era l’investitore impaurito, ma le grandi istituzioni che sapevano quanto negativi cominciassero ad essere i profitti. Allora, perché insistere nell’essere ottimisti? Perché quel che è successo in Giappone resta nella storia dell’economia un evento unico e sorprendente. A governare il Paese è una burocrazia fatta di avvocati, non di economisti, che insegnano l’uno all’altro le regole della finanza. Questo tipo di ignoranza non esiste negli organismi regolatori dell’economia americana.
Comunque, non credo che infileremo più un altro periodo di crescita negativa. Già subito dopo la metà del 2002 il panorama sarà più sereno: ogni trimestre dopo quella data la locomotiva americana comincerà a spingere il mondo. Ma questo lo posso dire soltanto vedendo quello che è successo fino a questo momento: se questo mi fosse stato chiesto all’inizio del 1930, sarei stato ugualmente ottimista, ma i fatti mi avrebbero dato torto. Per prudenza affermo che, come allora, anche adesso ci sono troppi fattori in gioco per fare previsioni accurate.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000