Giugno 2002

OPINIONI

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Radiografia
dell’Impero del Male
Henry Kissinger  
 
 

 

 

I leader alleati
devono
contrastare
la caricatura
dell’America come colosso
dominatore
dal grilletto facile.

 

Era da molto tempo che una definizione del presidente degli Stati Uniti non suscitava tanto livore, soprattutto in Europa, quanto l’Asse del Male di George Bush. La disapprovazione, più che la sostanza, riguarda i moventi: le elezioni del congresso (spiegazione del ministro degli Esteri britannico); l’imperialismo americano (capo della Commissione Esteri Ue); un modo di pensare semplicistico (ministro degli Esteri francese); la tendenza americana all’isolazionismo (influenti quotidiani tedeschi).
Eppure il presidente ha sollevato una questione centrale per la sicurezza internazionale: il “legame” tra organizzazioni del terrore estese, ben strutturate e implacabili (come al-Qaeda). Stati che hanno usato e finanziato il terrorismo (come l’Iran e la Corea del Nord) e Stati che hanno sviluppato (e, nel caso dell’Iraq, anche usato) armi di distruzione di massa. Fino all’11 settembre gli Stati Uniti e i loro alleati si erano astenuti dall’azione militare finché gli attacchi terroristici non erano effettivamente avvenuti. Valeva lo stesso principio di deterrenza che era stato applicato alle armi di distruzione di massa nelle mani delle grandi potenze: ci si aspettava che leader razionali avrebbero evitato quegli atti che avrebbero portato alla loro stessa distruzione. Quando però armi di questo genere sono alla portata di Paesi che le usano contro i loro vicini e il loro stesso popolo (come l’Iraq) o di nazioni che fanno dell’assassinio sistematico una componente della loro politica, condannando centinaia di migliaia di persone alla morte per fame (come la Corea del Nord), o di leader nazionali che appoggiano gruppi terroristici virulenti o prendono la gente in ostaggio (come l’Iran), e se gli attacchi vengono fatti da bombaroli suicidi, ebbene, questi vincoli possono non avere più effetto. Soprattutto là dove sono possibili legami segreti con i gruppi eversivi, l’azione preventiva deve essere presa in considerazione.
Va da sé che i tre Paesi citati dal presidente debbono essere trattati con metodi appropriati alla situazione di ciascuno. L’Iraq pone la sfida più urgente, l’Iran richiede la politica più sofisticata, la Corea del Nord è simile all’Iraq sul piano interno, ma in anni recenti è sembrata cercare un nuovo approccio. Lo spazio per la diplomazia è minimo con Baghdad, un po’ più grande per Teheran. E’ per questo che sia Bush sia il Segretario di Stato hanno espresso l’intenzione di non ricorrere all’opzione militare né con l’Iran né con la Corea del Nord. Alla fine, comunque, il banco di prova di qualunque opzione politica sarà il livello di riduzione del rischio per la sicurezza globale connesso alla disponibilità di armi di distruzione di massa da parte di regimi pericolosi.
L’Alleanza Atlantica, che è stata la chiave di volta della politica estera dei suoi membri per una generazione, non può più evitare questo problema. Da un lato, la controversia riflette un cambiamento profondo nella politica interna europea. Per tutta la Guerra Fredda, l’opposizione alla politica americana è arrivata quasi sempre da sinistra ed era contrastata dai governi in carica (di solito, di centro-destra). Oggi i governi europei di centro-sinistra vengono attaccati, con le solite posizioni antiamericane, dall’ala sinistra delle coalizioni al governo, infastidita dalle scelte centriste dei loro leader. E i governi, riluttanti a infiammare ulteriormente i loro elettori radicali, tacciono o qualche volta si uniscono al coro. C’è poi la questione del cambio generazionale. La prima generazione dei leader europei all’interno della Nato, quantunque governasse Paesi indeboliti e impoveriti dalla guerra, si era formata politicamente quando l’Europa era il centro degli affari mondiali. Capì facilmente che l’unica scelta possibile era l’alleanza o una sorta di neutralità che, accettabile per alcuni gruppi della sinistra, era invece assai mal vista dai governi di centro-destra. Oggi non esiste un consenso del genere sul pericolo che incombe. Gli attacchi all’America come Paese incline alla violenza, unilaterale ed emotivamente sbilanciato – gli slogan dell’opposizione negli anni della Guerra Fredda – sono diventati il commento tipico degli intellettuali e dei media, contrastato debolmente, o magari niente affatto, dai governi.
Questa tendenza è rafforzata dal fatto che, per i governi europei, la preoccupazione dominante in politica estera per più di dieci anni è stata la creazione di un’Unione europea, un compito storico dal quale, per definizione, sono esclusi gli Stati Uniti. E per molti leader europei l’identità europea è stata cercata nella diversità, quando non nell’opposizione, da Washington.

Il grande divario di potenza militare tra Europa e Stati Uniti aumenta le differenze di prospettiva. Non esistono precedenti storici di un predominio militare quale quello che gli Usa hanno raggiunto sul resto del mondo. Questa situazione induce gli avversari a sfidare gli Stati Uniti, se mai lo fanno, a un livello diverso da quello convenzionale, ad esempio con il terrorismo. Alcuni Paesi amici temono che gli Usa, essendo in grado di imporre le loro preferenze, lo facciano in ogni situazione con il puro esercizio del potere.
Le differenze sono inevitabili, ma dovrebbero indurre i leader su una sponda e l’altra dell’Atlantico a ricordare l’importanza dell’alleanza tra democrazie, soprattutto in un mondo di disordini crescenti. Gli Usa devono ai loro alleati qualche informazione sulle opzioni militari in esame e sui risultati politici che cercano. I leader alleati devono contrastare la caricatura dell’America come colosso dominatore dal grilletto facile. Sanno, o dovrebbero sapere, che i leader americani seri riconoscono che l’imposizione di un ordine internazionale va contro il carattere di una nazione. Non può essere nell’interesse a lungo termine dell’America trasformare ogni questione in una prova di forza.
Il tema principale della politica estera americana è stato, qualche volta un po’ ingenuamente, l’imposizione con la forza dei nostri ideali e l’opzione militare come risposta alle aggressioni. La tendenza americana dominante in politica estera deve essere la trasformazione del potere in consenso, in modo che l’ordine internazionale si basi sull’accordo anziché sull’acquiescenza.
In gioco, nel dibattito sull’Asse del Male, non c’è il tentativo dell’America di imporre un ordine internazionale, ma piuttosto la possibilità che un qualunque Paese di una coalizione ponga un veto su questioni fondamentali di sicurezza. Una definizione del consenso basata sull’unanimità conduce alla paralisi; una definizione di leadership che, su qualunque problema, insista sull’unilateralismo porta a un imperialismo che sul lungo termine esaurisce la potenza imperialista. Navigare tra questi due estremi è la sfida della politica americana.
E’ questa una sfida ancora più profonda per i leader europei. Gli Usa hanno suggerito una definizione ragionata dei pericoli: possesso di armi di distruzione di massa da parte di governi che hanno dimostrato l’intenzione di usarle, hanno professato ostilità nei confronti dell’America o i suoi alleati. Questa definizione merita una risposta irrinunciabile. I nostri alleati accettano la definizione americana di pericolo? O l’accettano, ma rifiutano l’opzione militare per affrontarlo? E in questo caso, qual è l’alternativa? Se “impegno” viene definito in termini psicologici (la pacificazione dell’avversario) esso diventa sinonimo della tradizionale pacificazione al prezzo di concessioni. Ma quali cambiamenti l’“impegno” ha ottenuto in Iraq? O a Teheran? O a Pyongyang?
I critici dell’America generalmente suggeriscono la “costruzione della nazione” come alternativa alla presunta ossessione per i metodi militari. Anche dando per buona questa premessa, la più radicale politica di costruzione della nazione e di alleviamento della povertà richiederebbe un tempo esorbitante rispetto alle scadenze definite dal presidente. E semmai la proposta di ricostruire il Paese può diventare importante solo dopo il cambiamento di regime, com’è accaduto con i talebani e potrebbe accadere con l’Iraq.
La principale alternativa concreta avanzata da Bush (soprattutto per quanto riguarda l’Iraq) è un sistema di ispezioni per scoprire le armi di distruzione di massa. Ma nessun sistema ora sul tavolo ha neppur remotamente rimediato al fallimento delle precedenti ispezioni. E i nostri alleati non aiutano né se stessi né altri membri della coalizione se trattano le ispezioni in Iraq essenzialmente come uno stratagemma per bloccare l’azione militare americana.
Comunque venga risolta la questione delle armi di distruzione di massa nelle mani del cosiddetto Asse del Male, l’obiettivo a più lungo termine deve essere quello di individuare un metodo per affrontare nuovi tentativi, da parte di nuovi Paesi, di acquisire armi di distruzione di massa o biologiche o chimiche. La sopravvivenza della vita civilizzata richiede che questo problema sia affrontato in maniera preventiva, che non può essere un’azione unilaterale americana. Così il problema del terrorismo si fonde con la sfida dell’ordine internazionale, una sfida alla leadership e all’immaginazione con cui l’Amministrazione americana ha gestito la sua risposta agli attacchi dell’11 settembre.

   
   
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