Giugno 2002

i nuovi demoni

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Parole cal. 7,65
ALDO BELLO  
 
 

C’è dunque un filo patologico che continua a percorrere l’intera storia unitaria italiana e che evidenzia la nostra cronica incapacità di essere nazione.

 

Roma, 27 marzo 1985. Cade Ezio Tarantelli, allievo di Modigliani al Mit, consulente della Cisl, in quel momento impegnato nella riforma del meccanismo della scala mobile.
Roma, 20 maggio 1999. Cade Massimo D’Antona, docente alla Sapienza, consulente dell’allora ministro del Lavoro, Bassolino. Lo si colpì a morte – si disse – perché era a favore del dialogo sociale.
Bologna, 19 marzo 2002. Cade Marco Biagi, che aveva lavorato al “Libro Bianco sul lavoro” e si stava occupando della riforma dell’art. 18.
Prima di Tarantelli, era stato assassinato Ruffilli ed era stato ferito Giugni. Subito dopo era stato ferito Da Empoli. La scia brigatista non è mai cessata. Mai messa allo scoperto. E mai spezzata.
Tragico è stato il destino dei riformisti nel nostro Paese. Dei tre filoni culturali in cui il pensiero riformista sul mercato del lavoro si è articolato dagli anni Ottanta in poi, quello sviluppatosi sulla proiezione Cgil di Accornero-D’Antona-Ichino, quello cattolico di Treu, quello socialista di Giugni-Biagi, tutti hanno avuto le loro vittime. La loro parola si è attenuata o spenta specularmente alle parole passate alle pistole che sbucavano dall’ombra, senza che nessuna parte politica se ne avvantaggiasse. Ci rimettevano, tutte intere, l’Italia e la sua società. E continua a rimetterci il moderatismo, che è nemico del terrore e dell’autoritarismo.
Si riteneva tramontata l’onda di ribellismo che ci immerse nel sangue nei feroci anni Settanta. Si parlava di ultime schegge e di residui scollegati, mentre venivano messi fuori circolazione gli aggettivi “deliranti” o “farneticanti” che avevano connotato l’incapacità critica (e autocritica) della politica di allora. E invece la realtà è nella continuità dell’azione terroristica: nell’universo cupo delle organizzazioni clandestine, delle Br che hanno sempre selezionato le loro vittime per condizionare la Sinistra e per influenzare il conflitto industriale. Con una differenza qualitativa: il terrorismo degli anni Settanta si era nutrito di una graduale radicalizzazione nel corso di un lungo ciclo di protesta ruvida durante i frequentissimi scontri di piazza. Passo dopo passo, si era passati da una concezione di violenza difensiva, con multipli appelli alla Resistenza, ad una violenza come strumento per catalizzare il conflitto politico-sociale. Ai nostri tempi, invece, mentre i legami col passato sono presenti soprattutto in termini di organizzazione sommersa (la “compartimentazione”, ora persino più ermetica), l’attività dei brigatisti si concentra su poche azioni, di assoluta brutalità, che massimizzano l’impatto mediatico. Con “tanta acqua in cui nuotare”, allora; con meno ossigeno, oggi: ma non del tutto isolati, né in pochi, né sprovveduti, se la reazione dell’intelligence non è stata in grado di venire ancora a capo del resto di niente.
Scrivevamo, ai tempi dei “delitti politici” brigatisti, che mediamente ogni venti-trent’anni emergono in Italia picchi di giacobinismo omicida, legittimato dagli oscuri protagonisti, ma anche da alcuni esponenti del milieu politico, con ragioni soggettive mai riconducibili al conflitto che è indivisibile dalla democrazia. C’è dunque un filo patologico che continua a percorrere l’intera storia unitaria italiana e che evidenzia la nostra cronica incapacità di essere nazione. Noi siamo una finzione di nazione, che si manifesta solo quando si profilano emergenze a orologeria: politiche, belliche, morali, di riforma istituzionale, economiche, di catastrofi naturali, terroristiche... Scrive Paolo Mieli che dai tempi del “connubio” di Cavour e Rattazzi – dunque da centocinquant’anni – troppe volte e troppo palesemente si è cercato in Parlamento il compromesso politico, al quale sono imputabili alcuni tra i principali mali del Paese: trasformismo, corruzione e lo stesso terrorismo. Siamo la regione europea nella quale né Destra né Sinistra riescono a stare al loro posto, ma cedono alla tentazione impolitica delle “convergenze al centro”.
Fu Agostino Depretis a coniare il termine “trasformismo” quando, nel 1876, la Sinistra andò al potere. Solo che allora – come ebbe a notare Indro Montanelli – si chiamò “connubio”, essendo nato nei salotti torinesi; quando è passato alle bettole della politica contemporanea, ha finito per chiamarsi anche “ribaltone”. Il massimalismo giacobino deteriore (che nulla ha a che fare con quello di alta levatura politica culturale) è stato e continua ad essere in buona parte frutto di questa deriva, nella quale la provincia Italia, occultando l’eterna paura rinascimentale del veleno nel cibo, del patto tradito, della pugnalata alla schiena, ha fatto assurgere a sistema la compromissione, l’intesa tra opposti, la coalizione demagogica. E dentro questo magma nero può passare tutto e il contrario di tutto: l’interesse personale e gli interessi di parte, le imboscate e l’ipocrisia perbenista, i ricatti e le false riconciliazioni. Lo spettacolo offerto da un teatro politico di situazione, statico, paludoso e tossico, da un secolo e mezzo a questa parte, non è stato edificante. Ovvio che ciò abbia contribuito a formare e a consolidare un’antropologia politica e culturale di infimo profilo. Altrettanto ovvio che, al cospetto di un (promesso) teatro d’azione, volto a sconvolgere poteri, comportamenti, posizioni di rendita parassitaria, una parte della narcisistica intellighentzia italica entri in fibrillazione, cercando complicità internazionali e consensi interni, e simultaneamente esploda parole di piombo che portano allo sfracello sociale, evocando una violenza dalla quale solo a morto ammazzato caldo prendono, senza vergognarsi, le distanze. Che altro significato dare, ad esempio, alle parole di un sindacalista, secondo il quale il governo «non può essere battuto in una dialettica parlamentare tra maggioranza e opposizione», ma solo dallo scontro di piazza? Che senso può avere l’accusa, rivolta ai riformisti, di essere puri e semplici traditori, invocandone la proscrizione? Per quale ragione paralizzante si accosta ancora l’oggi al fascismo e al nazismo, vedendo in ogni atto di governo un attentato alla Costituzione, reclamando interventi emergenziali del Capo dello Stato, dando corpo e sostanza ai fantasmi di un “regime”?
Scrive Franco De Benedetti, senatore Ds, candidato – appunto – alla proscrizione: «Sta nell’aver creato questa atmosfera la terribile responsabilità, sia pur tutta politica e nulla penale, di chi ha spinto l’opposizione a toni, giorno dopo giorno, sempre più estremi... Chi pensa di poter tenere tutto insieme, giustizialismo e garantismo, resistenza al regime e opposizione nell’alternanza, i diritti di chi li ha acquisiti e le ragioni di chi non li ha, ripropone tragicamente quella sconfitta che il massimalismo ha tante volte già inflitto in un secolo ai riformisti. Non solo nella Sinistra, ma nel Paese».
Forse, com’è stato notato, il vero problema del nostro Paese non è la politica, e non sono le masse, ma la cultura. O meglio, il basso livello della politica e della cultura, come delle élite e del popolo, delle classi dirigenti e degli intellettuali, filosofi, letterati, cineasti. In questo caso, i Palavobis e i Salon du livre, le interviste alle tv straniere, la solidarietà delle signore Tasca (il cui padre fu collaboratore del governo di Vichy, non scordiamolo!) e gli isterismi dei quotidiani tedeschi, francesi, inglesi, persino belgi, non disinteressati all’europeo dio quattrino, al mercato e al Pil, tanto quanto a triunvirati (o direttorii) egemoni nel Vecchio Continente, altro non sono che le manifestazioni freudiane del deserto di cultura che ha attraversato in lungo e in largo il nostro Paese, e che continua ad attraversarlo con i suoi indignati da salotto (Pasolini citato a memoria), con le sue vittime con riabilitazione postuma (vedere alle voci Tomasi di Lampedusa e Morselli), con le sue vittime anonime (quante?) per difetto di appartenenza, per emarginazione, per esilio volontario.
Staremo a vedere in quali tasche sfoceranno i prossimi diritti d’autore sborsati dalle nobili editrici italiche; o quali film finanzierà la RAI, oggetto di impegnati girotondi da parte di chi è stato cospicuamente foraggiato. Per quel che ci riguarda, a questo punto, vale la regola aurea di un reazionario irriducibile e illuminato, soprattutto spiazzante, e irridente, Guido Ceronetti: «Dopo aver meditato Kant e Heidegger, aver letto Il Processo e L’uomo senza qualità, adottare come faro il pensiero di Cofferati e come modello costituzionale la scienza giuridica di Nanni Moretti»: è quel che ci resta, dal momento che gli scrittori non usano più neppure la carta, perciò non possono scagliare addosso a nessuno, per esorcismo, il calamaio di Lutero!
Ci eravamo colpevolmente dimenticati della lunga lista di nomi che l’eterna emergenza nostrana ha scritto col piombo calibro 7,65 nel libro grondante del terrore: magistrati (Alessandrini, Galli, Calvosa, Coco...), docenti universitari (Bachelet), economisti, politici (da Moro a Ruffilli), carabinieri e agenti di polizia, dirigenti (Ghiglieno, Taliercio), sindacalisti (Rossa), giornalisti (Tobagi, Casalegno). Dalla tragica lezione di questo terrore avevamo imparato a comportarci con fermezza, ma anche con responsabilità, a far fronte comune, ad essere alieni alle intifade delle parole, alle contrapposizioni cieche che generano odio, ai meschini calcoli di parte; come alle vili neutralità, che si trasformano in complicità di fatto.
Oggi siamo alle divergenze parallele. Ma il terreno di scontro non è, come sembra, questa o quella riforma del mercato del lavoro, delle pensioni, della sanità, e in generale di un Welfare che comunque è stato ridimensionato in tutta Europa ed è sempre più insostenibile nel panorama dell’assistenzialismo de-responsabilizzante e per tanta parte clientelare del nostro Paese. Le tensioni più inquietanti si registrano nel campo dei simboli, e a nessuno viene in mente che proprio questo ha bloccato la democrazia italiana per decenni. Non solo: ha contribuito a fare dell’Italia lo Stato europeo col peggiore mondo del lavoro, per partecipazione alle attività produttive, per durata della disoccupazione, per entità del lavoro nero, per ricorso al part-time, per l’iniquità della differenza tra una minoranza di lavoratori iperprotetta e una maggioranza con poche o nessuna tutela, per sacche di emarginazione anche grandi quanto quelle abitate dai disprezzatissimi «intellettuali di Magna Grecia». E in un contesto così intriso di rude conservatorismo e di squilibrate reazioni che si incuneano le elucubrazioni ideologiche del terrorismo: «Il rilancio dell’intervento combattente e con esso della propositività politica della strategia della lotta armata nello scontro generale tra le classi [...] ha confermato la maturità raggiunta dalla guerriglia nel nostro paese e dal patrimonio politico elaborato e verificato nello scontro rivoluzionario dalle Br» (dal documento di rivendicazione Br-Pcc).
Dubitiamo che cessi il crepitio delle parole, che si prosciughino i rivoli dei veleni, se il Parlamento e i sindacati, gli imprenditori e i lavoratori, gli uomini di autentica cultura e la gente stradale non troveranno un’unità di tipo morale volta a difendere i valori comuni, condivisi, compreso il rispetto delle ragioni degli altri, del pensiero diverso, che scandiscono i ritmi fisiologici di una democrazia.
Chi scrive ha vissuto in diretta l’intera “stagione alta” dei rumori del terrorismo, e sa benissimo che biografie e itinerari degli anni di piombo hanno dimostrato come la vocazione all’omicidio politico nasca dalle parole (Padova, Roma, Napoli, Milano, Torino, Marghera...) e poi prenda consistenza nel delitto, come lo slogan fuso nell’odio si trasformi poi in agguato. L’ex leader di Potere Operaio (quello del «fucile in spalla agli operai»), Oreste Scalzone, ha rintracciato l’origine dell’omicidio Biagi «nelle tematiche del Palavobis», nel triplice “resistere” di Borrelli, nelle parole di intellettuali come Vattimo e Moretti. Opinioni, senza dubbio. Che tuttavia non possono non suscitare il sospetto che una ricostruzione severa degli ultimi trent’anni coglie non pochi episodi, a sinistra come a destra, di strumentalizzazione del clima e di demonizzazione dell’avversario.
Di fronte a un Paese che è stato storicamente immobile, raramente ripiegato su se stesso, a riflettere sulla propria condizione; e di fronte ai professionisti dell’indignazione da applauso, sta il pensiero di Biagi: “Da una parte sola, dalla parte del lavoro”. Il giurista chiedeva un mercato più europeo, più occupati regolari, con più diritti, con più uguaglianza per tutto il mondo del lavoro, con più scuola, più formazione, per una società attiva, inclusiva, solidale. «Perché l’Italia sia una Repubblica veramente fondata sul lavoro», tre le priorità: le riforme dell’occupazione e del Welfare, l’emersione del sommerso, il dialogo sociale. Lo hanno ferito profondamente le parole calibro 7,65, urlate nelle piazze da frange estremiste difficili da isolare da parte di maggioranze moderate. Lo hanno ucciso i demoniaci Necia’ev che si annidano nelle purulenze catacombali della società italiana.

   
   
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