Marzo 2002

LA GAFFE DI UN GENIO MUSICALE

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Stockhausen
fuori pentagramma
Sergio Bello
 
 

 

 

 

 

 

Stockhausen
ha ritenuto
di dover dichiarare,
compiaciuto, che gli attentati alle Torri di New York sono stati la più grande opera d’arte di tutti
i tempi.

 

Non era mai accaduto che negli Stati Uniti un qualunque editore rifiutasse di pubblicare un testo di Gore Vidal, di Susan Sontag, di Noam Chomsky, di James Hillman, o persino del palestinese Edward Said. La sinistra liberale aveva avuto sempre porte aperte, anche quando una Sontag scrive sul coraggio dei kamikaze che hanno colpito le Torri Gemelle e sulla speculare vigliaccheria dei piloti dei B-52: opinioni sue, semmai buone per far dibattito o polemiche su giornali e riviste, in un’America che non ha mai censurato nessuno e che si è sempre confrontata con chiunque. Ma l’aggressione selvaggia e ghignante di Vidal a un Paese avvolto nella sua bandiera, ferito, oltraggiato da torbide menti teocratico-terroristiche, non ha avuto ascolto. Ostracismo senza appello. C’è sempre una prima volta, evidentemente, anche oltre Atlantico. Vidal ha trovato asilo politico (si fa per dire) in Italia, non soltanto a Ravello, dove di solito va in villeggiatura, ma anche presso un editore, che metterà nero su bianco quanto ha scritto con la sua intelligenza sboccata e intrattabile.
E non è tutto. Forse memore dei suoi trascorsi maoisti, poi diluiti nel misticismo germanico, Karlheinz Stockhausen ha ritenuto di dover dichiarare, compiaciuto, che gli attentati alle Torri di New York sono stati la più grande opera d’arte di tutti i tempi: «Proviamo a immaginare quel che è successo. Gente straordinariamente concentrata su una recita, e poi cinquemila persone che vengono cacciate nella Resurrezione in un momento. Al confronto, noi compositori non valiamo niente».
Dichiarazione, in un momento di resipiscenza, parzialmente riveduta, («Ma dove mi ha portato Lucifero? Non è terribile quel che mi è improvvisamente venuto in mente?»), e in seguito addolcita sul suo sito con una cervellotica elucubrazione, rifilata per dichiarazione d’intenti, del genere “estetica sublime”. Ammorbidimenti che non gli hanno evitato, da parte degli scandalizzati enti organizzatori, l’annullamento di una serie di concerti.
Personaggio più che singolare, Stockhausen. Non un pazzoide, come una parte della stampa internazionale lo ha definito, dopo l’infelice uscita post-Towers. Ma sicuramente gaffeur, imprudente, istintivo affabulatore, che ha perso l’occasione di tacere. E’ infatti un fior di musicista, ammirato da colleghi molto più austeri nell’atteggiamento (da Pierre Boulez a Maurizio Pollini); e anche un artista congenitamente provocatore, per il quale è pressoché impossibile concepire le produzioni al di fuori dello sperimentalismo più estremo e, in qualche caso, persino imbarazzante.
Nel ciclo “Aus den Sieben Tagen”, ad esempio, abolisce gli spartiti per gli orchestrali, utilizzando soltanto testi verbali. In “Ylem”, i diciannove esecutori debbono ricercare un rapporto telepatico ad occhi chiusi, mentre il direttore d’orchestra, al centro della sala, ascolta senza fare alcun gesto.
In “Sternklang”, tutti i modelli musicali sono correlati, nel ritmo, nei timbri e negli intervalli, alle costellazioni celesti classiche. In “Tierkreis”, il materiale di base è invece una raccolta di dodici melodie, esattamente una per ogni segno zodiacale. E fra la sua produzione recente c’è un quartetto d’archi che “concerta” con quattro elicotteri.
Ora, dall’alto dei suoi settantatré anni, Stockhausen può ben dirsi una celebrità.

I restauri
che uccidono la musica

S. B.

Il grido d’allarme lo ha lanciato Uto Ughi: «Sta succedendo una cosa terribile in Italia, negli ultimi anni: si sta sistematicamente distruggendo l’acustica dei nostri teatri. Stanno assassinando i nostri naturali musei della musica, stanno rovinando il nostro patrimonio culturale. Nessuno ne parla. Io ho scritto al ministro della Cultura, ma non ho ancora ricevuto risposta. E dunque lancio questo appello, sperando che qualcosa succeda».
Ai musicisti, che girano per concerti in tutte le sale del mondo, capita di tornare in teatri dove in passato avevano già suonato e di non ritrovare più il “colore” che conoscevano: di colpo hanno l’impressione di trovarsi “chiusi in scatole sorde”, dove il suono non passa, non corre, non vibra, non risponde più ai loro strumenti. Perché? Per quelle terribili norme anti-incendio che hanno stravolto tutto. Da quando sono state varate, in Italia è stato tutto un affaccendarsi di restauri nei vecchi teatri. Dice Ughi: «Ma i lavori, anziché affidati a tecnici competenti, sono stati messi in mano a persone senza professionalità, e soprattutto prive delle minime competenze acustiche». Di conseguenza, sono stati modificati i palcoscenici e sono state alterate le delicate misure che proprio secondo precisi rapporti matematici reggevano le risonanze e le sonorità degli interni. «E poi in abbondanza tutto è stato ricoperto di moquette, tende, tappeti... Quei lavori fatti per proteggere i teatri dagli incendi in realtà li hanno completamente distrutti». Li hanno snaturati, perché hanno tolto loro il suono. Se si porta via alla musica il suono, è come togliere a un quadro il colore. «E così, non solo in Italia negli ultimi cinquant’anni non sono state costruite nuove sale da concerto, ma i nostri bei teatri (che erano dei gioielli, gli stranieri venivano per ammirarli) sono stati assassinati».
Ughi fa il paragone con la Spagna: lì non solo ogni città, ma ogni piccolo centro urbano negli ultimi anni ha visto nascere un proprio auditorium. Saragozza, Murcia, Valencia, Santander e ovviamente Madrid e Barcellona, sono state dotate di nuove sale da concerto: bellissime, dall’acustica perfetta. Hanno chiamato dei tecnici giapponesi, tutto è giunto in porto in tempi rapidi e senza bisogno di correzioni successive. Per i musicisti è un incanto suonare nelle sale spagnole, è come suonare nella Philharmonie di Berlino!
Per Ughi, i nostri auditori sono dei cinematografi, i teatri non ci sono più. Nomi? Cremona, Trieste, Ravenna, Messina, Perugia... Ce ne sono decine: «Quando sento parlare di lavori di restauro, ormai penso solo: addio, anche quel teatro è perso». Legno imbottito di cemento, parquet con sotto venti centimetri di polistirolo, impediscono di fare delle note, assorbono la metà delle sonorità. Ora è la volta della Scala di Milano. Vigili Muti, musicista sensibile al suono. Altrimenti sarà catastrofe.

Eppure, non gli è stato facile arrivare. Visse l’infanzia in campagna, nei dintorni di Colonia. Non ancora adolescente, rimase solo: il padre, un povero e sobrio insegnante elementare, partì volontario in guerra e trovò la morte in Ungheria, nel 1939. La madre, malata di mente, scomparve nei labirinti manicomiali e molto probabilmente venne soppressa dal regime nel 1941.
Al fronte prestò la sua opera in un ospedale militare. Dopo il conflitto mondiale, praticamente in miseria, ebbe la forza di continuare a studiare. I quattrini per pagarsi i libri li otteneva facendo il bracciante in una fattoria, o suonando il pianoforte nei night club, (accompagnava gli spettacoli di un mago). A venticinque anni ottenne il primo diploma. Studiò poi con Frank Martin, a Colonia, perfezionandosi con Darius Milhaud a Parigi. Finché divenne Direttore dei Corsi estivi di Darmstadt, praticamente uno dei padri dell’avanguardia musicale.
Dopo il periodo razionalista e filo-sessantottino che lo accomunò a Boulez, dopo qualche incursione nella cultura pop (si può trovare il suo nome nell’album dei Beatles “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”), all’inizio degli anni Settanta avviene la sua svolta mistica. La filosofia orientale, Meister Eckhart e Jakob Böhme diventano le sue nuove stelle polari. Glenn Gould, che quanto a spirito caustico non era secondo a nessuno, scrisse che ormai gli ricordava una via di mezzo tra un guru del sufismo e un personaggio venuto fuori dalla penna di Hermann Hesse.
In questi ultimi anni, a interessarlo più di ogni altra cosa è la «ritualità spirituale infusa nell’evento artistico», insieme con «la musica fatta risuonare nell’universo»: il compositore non è più un creatore, ma «il canale attraverso cui le forze del cosmo impersonalmente si manifestano». Esplosioni delle Twin Towers comprese!

   
   
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