Marzo 2002

PROFILI

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La leggenda di Indro
Egidio Sterpa
 
 

 

 

 

 

Indro fin qui è stato inarrivabile.
Non pochi cercano di imitarlo, ma per ora egli rimane
il migliore, il più bravo in assoluto.

 

 

Conobbi Indro Montanelli ch’ero giovanissimo redattore capo del Tempo di Roma. Lui era già il grande Montanelli, non proprio ancora un mito, come poi è diventato, ma per noi giovani un collega da ammirare e imitare.
Fu un incontro rapido, gli fui presentato da un vecchio collega, Mauri, al caffè Aragno allora in Corso Umberto, oggi Via del Corso. Un incontro casuale, durante il quale egli mi mise a mio agio pregandomi di lasciar perdere il “lei” con cui gli rivolgevo la parola. Poi verso la fine degli anni Cinquanta, quando approdai al Corriere, chiamato da Missiroli e da Mottola, mi capitò di incontrarlo spesso nella “fortezza” (la “fortezza Bastiani” di Buzzati) di via Solferino, dove egli ovviamente era il “numero uno”.

Lavoravo a fianco di Mottola, il timoniere del Corrierone, e mi capitò più volte di passare suoi articoli per la prima o la terza pagina, e persino d’essere costretto, per motivi di spazio, a tagliarne qualche riga. Da vero giornalista, Montanelli, quando lo incontravo e gliene chiedevo scusa, scherzava: «Lo sai che a volte i tagli migliorano gli articoli? Te ne sarò grato tutte le volte che lo farai».
Questi furono i primi approcci. Poi diventammo amici. E quando mi chiamò a far parte della pattuglia che fondò Il Giornale, l’amicizia divenne affettuosa. C’erano, fra gli altri, Granzotto, Bettiza, Zappulli, Biazzi Vergani, Piovene, Cervi, e altre belle firme.
Mi volle a capo della cronaca, io ch’ero stato redattore capo, inviato, direttore. Ne fui lusingato. Mi disse: «Devi fare un giornale nel Giornale». Quell’avventura, non c’è dubbio, finì per essere una vera pagina di storia. No, non è retorica dirlo. Bettiza nel suo Ombre rosse dice che a quell’avventura parteciparono uomini che praticarono la renitenza alla leva della sinistra comunista, allora un po’ arrogante.
Non mi piace la retorica, ma non c’è dubbio che il Giornale nacque dalla volontà di un gruppo di giornalisti e intellettuali (oltre Piovene, c’erano un filosofo come Abbagnano, un politologo come Matteucci, uno storico come Romeo, e potrei continuare nell’elencazione di nomi illustri) che si sentirono in dovere di resistere alle pressioni del conformismo dilagante nei salotti, nelle case editrici, nelle Tv e nei giornali, e di difendere la cultura liberale. Indro divenne il nostro capitano. Iniziammo così una navigazione perigliosa e un po’ corsara.
Un’avventura bellissima, vi assicuro. Io venivo da molte altre belle esperienze, come racconto nel mio ultimo libro, ma quella mi è rimasta nel cuore più di tutte. Con Montanelli formammo, si può dire, un equipaggio di spericolati, e tali infatti ci giudicarono molti colleghi che ci davano per morti ancora prima di nascere.
Il primo giorno, mentre il giornale era in fattura, tra il ticchettìo delle Olivetti e il chiacchiericcio di tutto l’equipaggio, Indro circolò per le poche stanze del Palazzo dei Giornali di Piazza Cavour a Milano, dove eravamo allocati, come una cicogna, con quelle sue lunghe e magrissime gambe, elargendoci consigli, domande, idee, gratificandoci con un “bravo”. Zappulli, da napoletano inguaribilmente superstizioso, pescò, chissà dove e come, un sacerdote con gobba e recuperò una piccola statua di San Gennaro. Venne a benedirci Monsignor Maggiolini, oggi arcivescovo di Como, allora magro come un grissino, che divenne poi nostro collaboratore. All’uscita della prima copia dalla rotativa avevamo intorno a noi decine di amici e futuri lettori che vennero a festeggiare con noi l’avvenimento.

Fu un grande giorno. Lo fu soprattutto per Indro. Lui che aveva sempre respinto l’idea di fare il direttore di un giornale – avrebbe potuto avere la direzione del Corriere, se avesse voluto – , quella sera aveva gli occhi non lucidi, perché se ne sarebbe vergognato, ma spiritati, che sprizzavano felicità: era emozionato, colmo di gioia.
Grande Indro, sapeva a volte gioire come un fanciullo, anche se cercava di nasconderlo. Fingeva d’essere scettico; a fare il cinico non ci provava neppure perché il cinismo non gli apparteneva. Era nato finalmente il “suo” giornale, che tutti noi, il suo equipaggio, sentivamo anche nostro. Mi è capitato di dire una volta, alla presentazione di un mio recente libro (Il mio giornalismo, Greco editore), rivolgendomi ad un signore del pubblico, che m’aveva fatto la domanda, che giornalisti come Indro non ne nascono più, e quel tipo di giornalismo è cambiato, o non lo si pratica più con la stessa passione.
Indro fin qui è stato inarrivabile. Non pochi cercano di imitarlo, ma per ora egli rimane il migliore, il più bravo in assoluto. Incomparabili la sua chiarezza, la semplicità della scrittura, la capacità di cogliere il nocciolo, la sostanza delle cose, il carattere dei personaggi, inimitabili le sue battute, i suoi aforismi, i suoi “controcorrente”.
Con lui ebbi un rapporto sempre franco, rispettavo il suo valore e provavo per lui affettuosa amicizia, mai troppo condiscendente però. Del resto egli preferiva così i suoi collaboratori.
Mi sto battendo in questi giorni perché Milano a Montanelli dedichi una strada, una piazza, un sito. Ci sarà certamente un pezzetto di Milano col suo nome. Ne ho parlato col mio amico Gabriele Albertini, il Sindaco, e l’impegno c’è già. Due giornali se ne contendono il nome, Il Giornale, che da lui è stato fondato e diretto per vent’anni, e il Corriere, che lo ha visto nascere, crescere, andarsene sbattendo la porta e poi ritornare per occupare una “stanza”. Per non far torto a nessuno, forse una statua di Indro e un luogo col suo nome troveranno posto accanto al palazzo dove Il Giornale nacque. Ormai è quasi certo. Spero proprio che avvenga al più presto. La leggenda di Indro merita di non essere dispersa.

   
   
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