Marzo 2002

SAGGISTICA / GIOVANNI PASCOLI

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I Poemi della buona novella
Nicola Carducci
 
 

 

 

 

 

“Io credo che il male di cui tutti soffriamo è un grande residuo di crudeltà che
circola per tutte le vene della società umana, la quale
non vorrebbe essere di belve”.

 

 

1. Cenni sul bilinguismo del Pascoli

E’ concorde la critica nell’escludere la discontinuità tra poesia italiana e poesia latina di Giovanni Pascoli, nei temi, nei ritmi, negli accenti, nella tecnica fonosimbolica e onomatopeica. Oltre che nella cronologia. Entra nell’arengo dell’Accademia Hoeufftiana di Amsterdam, col Veianius, nel 1891, che è l’anno delle prime Myricae; e la concomitanza prosegue sino alla vigilia della morte, con Thallusa, 1911, che è anche l’anno dei Poemi italici. Il latino dei Carmina non è lingua d’accatto, ricevuta in prestito dalla tradizione umanistica, residuale, riflessa, perché presunta “morta” e dunque inibita di per sé alla poeticità; è invece lingua spontanea, nativa, con caratteri lessicali e sintattico-strutturali di assoluta originalità. Il Carducci la preferiva, addirittura, all’italiano delle Myricae. Insomma, il Pascoli poeta è nato bilingue, come hanno dimostrato gli studi fondamentali del Traina.
Ma il quesito se sia possibile o non la vera poesia in una lingua morta fu dibattuto nei secondi anni Trenta. Intervenne, fra gli altri, con un saggio del 1937, Giorgio Pasquali, in termini perentori: «V’è chi non crede a poesia vera in lingua morta. Io mi sentirei di sostenere l’opposto, che ogni letteratura e quindi ogni poesia è in certo senso e in qualche misura letteratura di lingua morta [...]. Poesia di lingua morta, dunque, non esiste; o forse ogni poesia è di lingua morta».
Sulla particolarità del classicismo pascoliano, che non è riconducibile al generale stampo umanistico, insiste il Valgimigli, che ribadisce: «Esso è tutto percorso da una vivida aria che nessuno degli altri agitò, nemmeno dei secoli passati; ed è scosso da fermenti di problemi di sociale e cristiana umanità che nessuno degli altri conobbe»; sicché a tale specifico classicismo corrisponde un latino «non formale ed esterno, né raccattato da lessici e da grammatiche; bensì risentito e ricreato come lingua nuova e viva e fresca, dove ogni parola ha la sua vibrazione, il suo respiro, la sua necessità. Perciò questa poesia, quando è poesia, è poesia semplicemente, e l’aggettivo latino niente le toglie e niente le aggiunge». Chiudiamo sull’argomento ancora con l’autorevolezza del Traina, che innesta il bilinguismo pascoliano nella categoria estetica, stilistico-espressionistica, del plurilinguismo continiano, nell’impossibilità di isolare «il problema della lingua morta da quello della lingua viva».

2. Tracce di socialismo umanitario nei Poemata Christiana

L’ideazione e la stesura dei Poemata Christiana maturano nella coscienza artistica del Pascoli nell’ultimo decennio della sua vita, e non certo casualmente: Centurio (1901), Paedagogium (1903), Fanum Apollinis (1904), Agàpe (1905), Post occasum urbis (1907), Pomponia Graecina (1909), Thallusa (1911). In quel decennio si assiste all’acuirsi della questione sociale sull’onda lunga della Rerum Novarum di Leone XIII e all’intensificarsi della lotta di classe, oltre che ai fermenti modernisti che scuotono la coscienza cattolica e attirano l’interesse di autorevoli personalità della cultura anche laica. Sono avvenimenti che non lasciano indifferente il Pascoli, anche per il rilievo nazionale che ha assunto la sua figura. La sua risposta agli eventi è affidata ad alcuni testi del periodo, in prosa e in versi: risposta en artiste, ovviamente, che muove da una percezione assai acuta della crisi di una civiltà secolare, che non ebbe il D’Annunzio e solo parzialmente il Fogazzaro. «Io credo – annota nel 1903 in occasione della sesta edizione delle Myricae – che il male di cui tutti soffriamo e che è così aggravato da cercare impazienti le cure più strane e diverse, è un grande residuo di crudeltà che circola per tutte le vene della società umana, la quale non vorrebbe essere di belve».
Crisi che coinvolge scienza e fede, istituzioni politiche e costumi, ma che si abbatte con più accanimento, nelle sue ripercussioni, sugli strati socialmente più deboli, sui più indifesi, mentre, al tempo stesso, accentua l’angoscia dell’esistere, l’enigma e l’inanità della storia, la sensazione del mistero della vita e della morte. A debellare il grande residuo di crudeltà, che il Pascoli ha espresso a tinte cupe nel poema conviviale Gog e Magog del 1904, non restano che una religione dell’amore, il cristianesimo senza dogmi, naturale, che il Pascoli rinviene anche nella cultura classica, di un Virgilio e di un Orazio, e un socialismo «dell’umanità e non di una classe», che sostituisca alla ferrea legge della “Giustizia”, inalberata dal «cieco e gelido socialismo di Marx», la legge morale della “Pietà”: un socialismo laico, ma intriso di spiriti cristiani. La “Giustizia” ha provocato guerre, la “Pietà” l’utopia salvifica della “pace perpetua”, come aspirazione suprema della coscienza universale. Nel contempo, si rafforzava nel Pascoli la consapevolezza della funzione educativa altrettanto umanitaria della poesia: cioè di una poesia che renda l’uomo «più umano», come egli lascia dire ad Orazio: «Concedimi ora, o bosco, mentre sono qui sdraiato sotto le medesime ombre di meditare i carmi consueti (“carmina quae soleo meditari”), che rendano più umana la schiatta umana (“quae genus humanum faciant humanius”), sino a che essa si spogli di ogni traccia bestiale (“dum brutum sibi demserit omne”)».
In relazione al movimento modernista, sembra probantemente indiziario dell’attenzione pascoliana ad esso il discorso pronunciato a Pisa nel 1905 per il cinquantennio sacerdotale di Geremia Bonomelli, La Messa d’oro, in cui rivendica la priorità assoluta della carità, tra le virtù teologali, l’agàpe, l’amore, sulla scorta di San Paolo: «Fede, speranza, carità sono tre, ma la maggiore è la carità» (Ad Corinthios I, XIII, 13). Un rinverdimento poetico del cristianesimo delle origini, dunque, si affaccia al cuore del Pascoli, con il segreto bisogno di stemperare i grumi della propria e altrui angoscia esistenziale e anche al fine di preservare l’umanità del millennio incipiente dall’insorgere di nuove «Ninive e Babilonie, Cartagini e Rome, mostruose, enormi, infinite», che accentuerebbero la disuguaglianza tra le genti.
Anche nei Poemata Christiana il Pascoli rimane uomo moderno, perché, come conclude il Pasquali, «la dottrina etica del cristianesimo è per lui come per ognuno di noi uomini del ventesimo secolo, credenti e non credenti, qualche cosa di incondizionato. Il paganesimo è uno stato d’animo letterario o una farsa, perché millenni di vita cristiana né debbono né possono essere avulsi dal cuore umano. Ma cristiani non sono soltanto la schiava Thallusa e la patrizia Pomponia Graecina e il ragazzino orientale Alexamenos (del Paedagogium), ma anche l’Orazio del Fanum Vacunae e della Phidyle (del Liber de poetis).

3. «Vere hic homo iustus erat» (v. 178)

L’arco di tempo cui si richiamano i sette Poemata Christiana abbraccia poco meno dei primi sei secoli dell’era cristiana, dagli albori, con il Centurio, al pontificato di Gregorio Magno, con il Post occasum urbis, che preannuncia il tramonto della “città eterna” e la fine del paganesimo, con Fanum Apollinis. Fra i due estremi, la “buona novella” si diffonde in tutti gli strati sociali, con Thallusa, Pomponia Graecina e Agàpe, scatenando le persecuzioni, con Paedagogium.
Lo spunto ideativo del Centurio è offerto da un passo del Vangelo di Luca (XXIII, 47), che recita: «Videns autem centurio quod factum fuerat, glorificavit Deum dicens: – Vere hic homo iustus erat» («Il centurione, riflettendo su quanto era accaduto, rese gloria a Dio, esclamando: – Veramente era costui un uomo giusto»). Questo poemetto si può, a ragione, considerare “il manifesto” dell’intero ciclo dei Poemata. Nel vecchio ufficiale romano in pensione si mescolano e si scontrano memoria e coscienza: ricordi non più gratificanti di guerre, stermini di popoli, saccheggi di città e presentimenti di un’epoca nuova, non più dominata dalla fallace “pax romana” bensì, agostinianamente, dalla “pax christiana” del De civitate Dei.
La fabula del poemetto è presto detta. Etrio, dopo quarant’anni di servizio militare, si gode la quiescenza con lunghe passeggiate per le stradicciole del suo villaggio natio, nel Lazio; ma non senza che lo riassalgano nell’immaginazione fantasmi del passato. Un giorno il centurione s’imbatte in uno “sciame” di fanciulli, appena sbucati dalla scuola, con le loro cassette e tavolette cerate («pueri loculos tabulamque gerentes»), che lo circondano schiamazzando: «Dic aquilas, dic arma – fremunt – dic bella cruoremque». Il vecchio li accontenta; le domande incalzano, ma s’insinua lentamente nell’animo di Etrio un dissimulato disgusto per i racconti di guerra, che i suoi scalpitanti rampolli dei padroni del mondo («rerum domini») pretendono con petulanza; e sbotta, se pur bonario (son sempre dei fanciulli): «Olim.../ Semper ego ut mera bella crepem?... Sed et est quod torquat ora» («Un giorno...Ma solo e sempre di guerra debbo io parlare? C’è pure, talvolta, qualcosa che fa storcer la bocca»); e con progressiva studiata accortezza narra quanto ha visto con i propri occhi di quell’«uomo straordinario» finito sulla croce. Dagli episodi di guerra si passa ad episodi della vita di Gesù; ma se i primi entusiasmavano quei frugoli bellicosi, i secondi incuriosiscono soltanto.
Eppure gli episodi della vita di Gesù, per quel loro alone pressoché surreale, dovrebbero eccitare la loro fantasia. Ecco il Galileo, in un ameno lago, librato su una barca, tra cielo e mare, che ammaestrava una folla ingente, assiepata sulla riva, «tamquam pueros pater ipse docebat» («come un padre, i suoi figli»). E ancora, sempre introdotto a sorpresa dall’avverbio indeterminato «un tempo» («olim»), quell’Uomo che siede tra bambini, che le madri si affrettavano a portargli da presso, perché li accarezzasse («Matres teneros hinc inde ferebant / infantes, quos ille quidem contingeret»), mentre proprio i suoi compagni se ne indispettivano («At comites simul obiurgare, minari, matribus irasci») e quel “maestro” li rabboniva. Infine, e siamo al culmine della suspense sempre più tesa per il reiterarsi quadruplicato dell’«Olim», il tripudio della gente, che reca in mano «ramos pallentis olivae», per quell’Uomo, «vectum asella»; e che, procedendo tra la calca, nella “città santa”, riconosce il centurione sussurrandogli una “parola”, che risuonerà assai strana alle orecchie di quei fanciulli. E’ la parola “pace”, che riecheggerà ammonitrice agli uomini di buona volontà, lì, su quel poggetto che dà pasto ai corvi («grumum qui corvos pascit ad urbem»). Un barlume di autocoscienza il Pascoli attribuisce al centurione («mihi sceleris letique ministro») nell’incontro folgorante con Gesù a Gerusalemme; nessuno invece ai fanciulli, forse perché privi di ogni esperienza di vita, e che dunque risentono nel loro inconscio la mitologia della violenza dei padri. E’ la mitologia che continua a rivendicare il figlio di Albino, l’esattore usuraio del villaggio, che torna a chiedere a Etrio: «Dic etiam: nobis terrarum impervius ullus angulus est? Quem nos non vicimus, est quis?» («Dicci ancora: c’è angolo alcuno della terra per noi inaccessibile? C’è tuttora chi noi non abbiamo vinto?»).

In Centurio, la trama narrativa è come trapunta liricamente dal gorgheggio degli uccelli, che per la sua dislocazione strutturale nella compagine semantica, riveste precisi caratteri simbolici, e al tempo stesso instaura un rapporto, una liaison, tra il vecchio Etrio e i fanciulli, pur nella radicale diversità psicologico-emotiva, l’uno nel raccontare e gli altri nel recepire. E’ il rapporto di cui si legge nel Fanciullino: «L’invisibile fanciullo (ch’è dentro ognuno di noi) si pèrita vicino al giovane più che accanto all’uomo fatto e al vecchio, perché più dissimile a sé vede quello che questi. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; perché ne disdegna la conversazione, come chi si vergogni d’un passato troppo recente. Ma l’uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l’armonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, come d’un usignolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora». Il centurione vaga fra i campi, mira i filari delle viti a scacchiera, che gli rammentano le legioni, «at aves non signa canebant»; «ma uccelli non le trombe cantavano»); e quel canto lo restituisce ad una realtà di serena pace.
Quando i monelli improvvisamente ammutoliscono («ore favent»), a un cenno col dito di Etrio che si accinge a riprendere il racconto («vix hic dicturus digitum bene sustulit»), si ode d’improvviso tutt’intorno il rapido garrire delle rondini («circum velox auditur hirundo»). E ancora le rondini – ricorda bene il centurione – volitando sussurravano, in una lingua incomprensibile dagli uomini, («barbara sed lingua, et non intelligitur»), all’orecchio del derelitto sulla croce non si sa che cosa («sicut memini, cum prorsus in aure non homini soli nisi quid garriret hirundo»).
Né sembra vogliano allontanarsi da quel poggio maledetto le rondini; che anzi si infittiscono a shiera, mentre in cielo navigano rosee nubi, quando al calar delle tenebre cessa lo schiamazzo, si allenta la tensione, e la feccia della città è sfollata (“Veniente tamen iam vespere clamor / et tumor hinc et faex omnis concesserat urbis / ...Multa, ut nunc, pueri, circum volitabat hirundo, / et roseas memini fluitare per aera nubes»). L’ascendenza biblica delle rondini sul “colle dei Crani” non attenua l’intenzione simbolica del poeta, che in quel prolungato intermittente garrire coglie l’eco infinita dell’appello alla pace, quale messaggio estremo di salvezza universale.

4. «Flet Thallusa canens, aeque memor, immemor aeque» (v. 180)

«Piange Thallusa e canta, egualmente ricorda e non ricorda», come la Ofelia shakespeariana, alla quale, se pure per ragioni diverse, è da paragonare per la intensa drammaticità interiore. In questo poemetto, come in Pamponia Graecina, Agàpe, Paedagogium, il messaggio cristiano è colto nella dimensione dell’umano dolore, della sofferenza redentrice, diremmo manzonianamente.
La notizia della vittoria al concorso di Amsterdam giunse al Pascoli qualche giorno prima della morte, avvenuta il 6 aprile 1912. L’aveva attesa a lungo, con trepidazione, tanto più che l’infermità che lo costringeva a letto non si allentava. Sarebbe stato il canto del cigno. La motivazione della vittoria non poteva essere più lusinghiera: «Carmen eximium quo vix cogitari quidnam possit praestantius» («Poema eccelso del quale non si potrebbe immaginare nulla di più perfetto»). Infatti, nel leggerlo, gli accademici, ignorando ancora il nome dell’autore, non ad altri pensarono che a Giovanni Pascoli: per la catturante delicatezza dei sentimenti, non nuova a quei giudici, per la fine introspezione psicologica, per l’ineguagliata forza espressiva, per la ingenua sensibilità sociale; aspetti che hanno poi fatto ritenere, pressoché concordemente, Thallusa il capolavoro in assoluto del corpus latino del Pascoli.
Se nel Centurio la rievocazione del cristianesimo delle origini oscillava tra storia e mito, per intendere Thallusa – scrive Ermenegildo Pistelli – «non c’è bisogno di riposte notizie storiche e archeologiche, e neppure di alcuno sforzo per adattarci a uno speciale ambiente, diverso e lontano dal nostro. In nessun componimento la ricostruzione è così profondamente ed esclusivamente umana come in questo»
Due sono i motivi ispiratori di fondo del poemetto: uno di natura storico-sociale, l’istituto giuridico della schiavitù nella società pagana; l’altro è lo sconfinato amore materno, che annulla la diversità di classe tra matrone e schiave, tra il bambino sottratto a Thallusa, perché schiava e cristiana, e il bimbo della matrona da lei cullato. La esecrazione pascoliana della schiavitù, col suo ius vitae et necis, affonda, certo, la sua prima radice nel socialismo umanitario non materialistico del poeta, ma attinge motivo ulteriore in quell’umanesimo perenne, in quella «intima cristianità delle letterature classiche», da lui rivendicata nella prolusione pisana del 1903, “La mia scuola di grammatica”.
Il poemetto si apre con un delicato riquadro, realistico e insieme simpatetico: la giovane schiava riconduce a casa dalla scuola i due figlioletti della sua padrona, tenuti stretti a sé per mano, l’uno con la destra e l’altro con la sinistra, «haud invitos sed saepe morantes» («docili ma spesso lenti nel procedere»). Si fermano presso bottegucce, riboccanti di ninnoli («armillis bullisque catellisque») o dinnanzi a tavoli imbanditi di leccornie fumiganti. Con essi sosta anche Thallusa, del pari incantata, ma che alla vista di quelle squisitezze, a lei sconosciute, indugia ancor di più, tanto che il più piccino si affretta ad offrirle la sua monetina ancora in serbo perché possa comprarsene: «balbutit puer: numquam tetigisti crustula, quo nil dulcius». Il gesto commuove la donna, che, non più corrucciata, gli accarezza la testina dolcemente e bisbiglia: «Lucille, quid offers non adeo parvae belluria servae? / Haec ede tu: rodant haec mures dulcia dulces» («Mio Lucietto, perché offri i dolciumi a una schiava ormai fattasi grande? Mangiali tu piuttosto; o semmai se li rosicchino i topini»). Ma l’immagine improvvisa dei topini le riporta alla memoria la sua creaturina, strappatale appena nata: si abbandona alle lagrime e ricompare sul suo volto il rancore. Bisogna far presto a rincasare, o il padrone le riserverà le solite aspre rampogne; e si trascina con strattoni i due piccoli, che d’un tratto smettono il loro chiacchierio e si affrettano, «binisqui tolutim passibus aequant / singula Thallusae vestigia» («trotterellando eguagliano con due passetti ogni passo di Thallusa»). Intanto, sbotta con la moglie il padrone per il pur lieve ritardo della schiava, e annuncia di averla già ceduta ad altri; anzitutto perché Thallusa bazzica con la «marmaglia cristiana» («Chresti sectam») e può, a lungo, plagiargli i figli, che viene constatando troppo legati a quella schiava. Invano Gaia, la moglie, pagana anch’essa, adduce attenuanti: «Verum frugi est patiensque laboris / et caros pueros habet et pueris est cara» («Ma è frugale, laboriosa, ha cari i nostri bambini e lei è cara ad essi»). La donna, insomma, oppone all’auctoritas del padre padrone il suo istinto materno, che sa di avere in comune con la schiava. Il dato di natura prevale sul pregiudizio sociale. Alle premure di Thallusa, infatti, non esita ad affidar il suo terzogenito ancora lattante, quando ella deve recarsi a celebrare con le amiche i riti della Dea Bona. Così la schiava resta sola in quella casa non sua, ma che pure, in qualche modo, illusoriamente, le ricrea nella immaginazione il tepore affettivo del “nido”. Disinganno atroce: il “nido” veramente suo è stato infranto: le è stato ucciso il marito, che per primo l’aveva avviata alla fede cristiana e alla religione dell’amore fra gli uomini; le è stata rapita, appena nata, l’unica sua creatura; e questi ricordi le sconvolgono la mente. Sogguarda di traverso gli abbracci affettuosi tra i figli e la matrona («Dulces complexus limis Thallusa tuetur»); le si schianta il cuore come depredato dei suoi affetti e Thallusa si abbandona a un impeto di odio. Il lungo monologo, che occupa la parte centrale del poemetto, ne rivela una vera e propria “degradazione”, la quale, peraltro, rientra nella prospettiva estetica di un realismo psicologico.
L’animo di Thallusa è lacerato tra speranza (cristiana) e disperazione (schiavile), tra fede ingenua e rivolta emotiva sino alla dissacrazione. Vi si susseguono sarcastiche imprecazioni che sfociano nella empietà: «Va felice, Gaia, e a te la Dea Bona sia propizia come a me fu il buon Dio; e al ritorno possa tu vedere la culla del tuo piccino, come io vidi quella del mio, al mio rientro»; «dulcique fruaris alumno / non magis atque egomet, cui frustra lacte tumentes / abreptum puerum non invenere papillae» («e possa goderti la soave tua creatura non più che io stessa la mia, che, strappatami, non ritrovarono più le mammelle gonfie di latte»).
Siamo ormai al delirio, che la figura retorica del climax rende con grande efficacia espressiva. L’immaginazione allucinata della schiava è fissa sul viso evanescente del suo bimbo: morrò certo, gli sussurra, ma risorgerò e tuttavia, figlioletto mio, non ti vedrò nel primo fiore, quando col mio sorriso ricercavo il tuo («parve puer, te non in primo flore videbo, / cum risum risu tentabam promere primum»). Perché non può riconoscermi – insiste quella infelice – come la mamma sua, «mihi qui non riserit umquam!» («egli che mai ha potuto sorridere a me»). Un dolore che le serra la gola, né Dio stesso può nulla, né la morte («Nil contra Deus ipse potest, nil ipsa potest mors»). E nel suo scatto estremo Thallusa maledice Tertullo e la culla in cui vagiva, la casa intera, con la padrona e quei bambini che ella riprendeva dalla scuola e a lei affezionati. «Dum furit et cunctos optat vanescere flammis / seque una, tenui tintinnant, ut putat, aures / murmure, mox agni tamquam sine matre relicti / vox animum temptat. Tremibundo palpitat omnis / vagitu domus. Infelix Thallusa, vocaris! / Novisti vocem. Matrem vox illa vocat te». («Mentre così vaneggia e brama che tutti siano avvolti dalle fiamme, insieme con lei, le giunge all’orecchio – così crede – la voce come di agnellino abbandonato dalla madre, che le tocca il cuore. Tutta la casa palpita di un tremulo vagito. Quella voce chiama te, povera Thallusa! La conosci, quella voce. T’invoca mamma quella voce»).
Si è spento quel bieco baleno di vendetta, e quando Tertullo si sveglia, per quietarlo gli canta la ninna-nanna, così come la canterebbe al suo bimbo perduto: «Ocelle mi, quid est quod vis apertus esse?» («Occhiuzzo mio, che cosa è che ti fa stare sveglio?»); «Ocelle mi, quid est quod usque me tueris?» («Occhiuzzo mio, che è per cui mi guardi così fino?»); e Thallusa, in un trasporto di complice tenerezza, ama immaginare che quello sguardo fisso sia un segno di partecipazione del piccolo al proprio dolore; ma soggiunge: «Sum servuli quidem vix mater, ipsa serva. / Genis tuis tegaris: liberam videbis» («Sono madre a stento di un piccolo schiavo, schiava io stessa. Chiudi le tue palpebre: mi rivedrai libera»). Ma il senso di una maternità soffocata esige altri sfoghi e la nenia dolorosa prosegue: «Ocelle, qui tueris usquequaque lugens...» («Occhiuzzo, che mi guardi piangendo come se io stia per allontanarmi da te... non credere che la morte ti tolga la tua mammina»), «genas tuas remitte semper et videbis» («abbassa le tue palpebre, e la vedrai sempre la tua mammina»). E’ allucinata la trasposizione del sogno in realtà: quel piccino che frigna ha le sembianze del suo; del pari, il desiderio materno di ritrovarlo nell’aldilà si trasforma in certezza che nello stesso luogo l’orfanello abbraccerà la sua mamma. Allora «Flet Thallusa canens, aeque memor, immemor aeque», e a quel canto ritmato dai singhiozzi, Tertullo, che dondola nella zana, schiude la boccuccia al sorriso («tandem crispatur buccola»); un sorriso che Thallusa reclama tutto per sé, insistendo: «Ride! coepisti tandem risu cognoscere matrem» («Sorridi! Cominci finalmente a conoscere tua madre e le sorridi»).
Ma troppo breve è stato il dolce autoinganno di Thallusa. La madre vera di Tertullo sopraggiunge; ha ascoltato le sue parole al piccolo («Mater adest sed vera redux auditque loquentem»), e la invita ad andare a dormire, perché il giorno dopo dovrà levarsi presto: «Primo mane domo servam novus emptor abegit» («Di primo mattino il nuovo acquirente condusse via la schiava dalla casa»).

5. «Mortalis amor, dolor immortalis» (v. 197)

L’argomento del poemetto Pomponia Graecina fu ispirato al Pascoli da un passo degli Annales di Tacito (1, XIII, 32), cui egli si riferisce esplicitamente ad apertura: «Non cultu nisi lugubri Pomponia vitam, / non animo vixit nisi maesto» («Se non con vestiti di lutto, se non col cuore mesto Pomponia visse la sua vita»). Ma riportiamo per intero il brano dello storico latino: «Pomponia Grecina, nobile matrona romana, andata sposa a Plauzio, al suo ritorno dal governatorato della Britannia con gli onori del trionfo, poiché era stata accusata di superstizione straniera («superstitionis externae rea»), fu sottoposta al giudizio del marito. E questi, secondo l’antico costume («prisco instituto»), istruì il processo sulla vita e sull’onore della moglie alla presenza di tutti i congiunti, e la proclamò innocente («propinquis coram de capite famaque coniugis cognovit et insontem nuntiavit»). Questa Pomponia ebbe poi lunga vita in continua tristezza («continua tristitia fuit»). Infatti dopo l’uccisione di Giulia, figlia di Druso, voluta con inganno da Messalina («dolo Messalinae interfectam»), per quarant’anni vestì a lutto, e sempre triste in cuore; per lei tutto ciò passò impunemente durante il regno di Claudio («imperitante Claudio»), poi le fu motivo di gloria («mox ad gloriam vertit»)».
Qualche chiarimento, che faccia comprendere la diversione esegetica del Pascoli rispetto alla sua fonte. La figlia di Druso era una lontana parente di Pomponia e della sua avvenenza e virtù era oltremodo invidiosa Messalina, la depravata moglie dell’imperatore Claudio (lo “zuccone”, di cui si prende gioco atroce Seneca), poi bersaglio nella celeberrima satira VI di Giovenale contro le donne.
L’ispirazione del poemetto, inoltre, fu probabilmente rafforzata dalla lettura del romanzo Quo vadis? del polacco Enrico Sienkiewietz, che, in traduzione italiana, circolò largamente alla fine dell’Ottocento. La patrizia romana, infatti, vi compare, insieme con il marito, Aulo Plauzio, figura di primo piano nella Roma neroniana, che è il tempo storico cui ci riconduce il poemetto pascoliano.
Tornando a Tacito, dal suo brano si deduce che egli attribuiva la ragione della tristezza e dell’abbigliamento lugubre di Pomponia alla morte di Giulia; il Pascoli, invece, con maggiore verosimiglianza e in coerenza con l’intenzione ideologica dei Poemata Christiana, la fa risalire allo struggimento segreto della donna, costretta dal marito all’abiura della sua fede cristiana, per poter riabbracciare il figlio ancor piccolo.
Il disprezzo di Tacito, come di Giovenale, di Plinio il giovane, di Svetonio, per la “superstitio externa”, è radicale, assoluto (Annales, XV, 44), perché sovvertitrice del «mos maiorum» sul piano dei comportamenti pubblici, della «pax romana» sotto il profilo politico-istituzionale, e del sistema egemonico «utriusque ordinis» dal punto di vista sociale. «Superstitio exitialis», per il più nefando dei crimini che viene imputato ai seguaci del Christus: l’«odium generis humani», che poi, per ritorsione, avrebbe scatenato contro di essi l’odio di tutti gli altri popoli, compresi gli ebrei. La separazione dei valori politici dai valori spirituali costituiva l’asse rivoluzionario della nuova fede, all’insegna dell’amore, della charitas paolina. Troppo stridente, dunque, il contrasto tra ideologia e prassi imperiale e cristianesimo, perché, assumendo a pretesto l’incendio del 64, non si desse sfogo alla più feroce delle persecuzioni. Ma, come scrive Ernesto Buonaiuti, l’incendio e la repressione «costituiscono il battesimo storico della comunità romana e più genericamente della Chiesa nei suoi contatti col potere politico».
In Pomponia Graecina, i valori politici sono rappresentati dall’autoritarismo di Plauzio, «Flamen dialis», e perciò insignito di un crisma ufficiale; nonché, fra le mura domestiche, «pater et herus» («padre e padrone»). I valori spirituali sono invece rivendicati, nella loro superiorità non soltanto in ambito privato, dalla fermezza di Pomponia; valori che ella conserva in cuor suo anche quando il marito le pone l’alternativa crudele tra il sacrificare agli dei, secondo il «buon costume degli antichi padri» («O domus antiquis quae stabas moribus», proclama Plauzio), e la separazione dal figlio; in definitiva, quando è in gioco senza scampo o la salvezza o la perdizione eterna, sia di lei che della sua creatura.
La struttura del poemetto è dunque assai più articolata degli altri. Accanto a Pomponia, in funzione eponima e ideologicamente epesegetica, appare Plauzio, in funzione antagonista e tutoria della continuità della tradizione, non soltanto domestica; tradizione, peraltro, che già il padre di Pomponia non ha riconosciuto nella sua assolutezza inibitoria, pur nella propria illibatezza di vita. Offensivo, dunque, per la figlia, lo scherno che il marito invece gli riserva: «Tu dedignaris... An ipso Graecino patre? Quam molli qui pectore Romam / venerit ex Asia, posita feritate Quirina, / novimus...» («Tu ti sdegni. Ma a renderti seguace di un criminale in croce, è forse lo stesso tuo padre Grecino? Sappiamo come, deposta la romana fierezza, sia ritornato dall’Asia a Roma da rammollito»). Non marginali, se pure sfumate, le figure dei due fanciulli, il piccolo Aulo e Grecino il cuginetto, che incarnano la innocenza intatta a livello individuale all’alba dell’esistenza, come il cristianesimo, nella sua originaria purezza, incarna l’aspirazione all’innocenza dell’intero mondo umano: aspirazione insopprimibile e già avvertita in epoca pagana con la mitica età di Saturno, «sotto cui giacque ogni malizia morta» (Pd., XXI, 27).


Il tenore di vita, cristianamente appartato e riservato, è motivo di maligne mormorazioni del volgo: «Quid habet Graecina, quod intus sic servet?» («Che cosa ha mai Grecina, che se ne sta sempre tappata in casa?»); ha da poco potuto riabbracciare il consorte, di ritorno in trionfo dalla Britannia, e tuttavia se ne sta corrucciata («angitur»); ha in odio, infelice, la luce del giorno e si nasconde nell’ombra («odit aegra diem, latet in tenebris»); in quali templi degli dei si aggira, per pregare o per rendere grazie?» («supplex aut grates habitura?»).
Si affretta a deferire all’orecchio del principe l’immancabile ruffiano, con la solita vischiosità adulatoria: «Temo proprio che qualche superstitio non spreta servis» («ben accolta dagli schiavi») abbia intaccato «ampli flaminis uxorem Graecinam»; cosa che non vorrei proprio credere («credere nolim»). Non v’è dubbio: è rea confessa («tum rea fit mulier»). Seguono il processo e l’intimazione del marito, cui Pomponia replica reclamando la propria intemeratezza, la devozione al consorte e al figlio, l’amore per la casa; con il richiamo alla saggezza evangelica: «la bontà di un albero si conosce dal frutto: e nessuno ha mai colto l’uva dai pruni» (“frux unicum arbori index: / nemo de spinis umquam collegit uvam”, Matteo , VII, 16-18). Una tregua apparente nel contrasto insanabile; quando, infatti, il «flamine diale», investito, come tale, dall’autorità dell’imperatore (che è Nerone), impone di versare i grani d’incenso sull’altare degli dei, imputandole un presunto «humani generis contemptus» («il disprezzo nell’uman genere»), Pomponia, «extollens secura caput», ribatte: «falso! Nam fratrum quasi convictum coetumque sororum / ipso patre Deo nostrum genus putamus» («E’ falso! Perché noi crediamo come una comunanza di fratelli e una società di sorelle il nostro genere umano, con lo stesso Dio quale padre»). Che è la temuta, esplicita, e invano scongiurata, professione di fede cristiana di Pomponia. L’epilogo è ineluttabile: il figlio resterà col padre e la donna può pure andar via da quella casa; altrimenti sarebbe stata una riprova che la “superstitio externa” già serpeggiava fra le classi alte di Roma.
Ma a richiamare Pomponia alla realtà dell’evento inaspettato dell’abiura è la voce del suo figlioletto che chiede di lei: «Tum vox auditur, gracilisque silentia rumpit, / custodem pueri patulo rogitantis in oeco» («Si ode allora una voce fievole che rompe il silenzio, di fanciullo che domanda insistente al custode nella vasta sala»). «Mater ubi est?», replicato tre volte con un crescendo angoscioso, che fa quasi balzare il cuore dal petto alla donna («Cohibet cor palmis perdita mater»).
Nei primi tempi cristiani, che son quelli del poemetto, la professione della nuova fede oscillava, di necessità, tra velleità eroiche e ripiegamenti solipsistici: gli estremi emotivi fra i quali si muove il travaglio interiore di Pomponia, che è cristiana ma pur sempre una patrizia. In lei l’adesione ai dettami di un culto straniero non si configura che come un pur sincero atto intellettuale, favorito da una cultura raffinata (quella del padre, invisa a Plauzio); mentre nella schiava Thallusa nasce quasi da pulsioni istintive, prelogiche, fanciullesche, perché la predicazione cristiana dell’uguaglianza e della fratellanza universale la appaga nel suo bisogno naturale di riscatto umano, prima ancora che sociale. Le accomuna però il dramma di una maternità offesa e lacerata, del “nido” brutalmente negato, che la schiava si ricompone illusoriamente riversando nel bimbetto della padrona quelle effusioni traboccanti che l’immaginazione, sempre più accesa, riserva al suo, nel sogno ricorrente di riabbracciarlo; Pomponia, col pianto nel cuore («lacrimis mater inusta»), lo ricompone nello sforzo di ripristinare l’intatta tenerezza con la quale era solita raccontare al suo piccolo Aulo, ormai senza più il cuginetto, compagno di giochi, “favole” dilettose, come quella della pecorella smarrita o della monetina perduta (Luca, XV, 1-10). Lo aveva particolarmente scosso la “favola” del figliol prodigo (Luca, XV, 11-32), e insiste per riascoltarla da lei, soltanto da lei, perché nessun altro sa narrare come la sua mamma: «Hoc, matercula narra; nam tu sola vales hoc enarrare diserta». Ma questo riaffiorare dal fondo di una memoria ormai sconvolta un prius irreversibile di intimità domestica ed esistenziale acuisce lo strazio della donna, cui non resta che abbandonarsi all’imminente grande «giorno del Signore» (del giudizio universale, Atti degli apostoli, II, 19-20), preceduto da sangue, fuoco e fumidi vapori. Ella sente, in assoluta solitudine, scorrere i suoi giorni e i suoi anni, propriamente dal 57 al 64, «guttatim, quasi de vitrea clepsydra» («a goccia a goccia, come da una clessidra»); ma quel giorno, la madre, sguarnita della «palma e della bianca stola» («non palma nec alba est iam stola»), non potrà condurre il suo figlioletto innocente oltre i confini del mondo («deducens puerum mortem transmittere mundi»). Lo sguardo di nascosto «ac flens ingeminat: – Mortalis amor, dolor immortalis» («e piangendo ripete: – mortale è il mio amore, ma immortale il mio dolore»): cioè il dolore disperato di non appartenere, per la sua abiura, al «numero degli eletti», in quel giorno del Signore 31. La città «eterna» è avvolta da vampe gigantesche e sembra rischiarare l’universo, quasi immane fiaccola di morte, che le raffiche impetuose del vento attizzano vendicatrici (Apocalisse, VII, 1). La parusia invocata qui si tinge di inusitata violenza simbolica, a specchio, inconscio, dell’animo di Pomponia, che trova rifugio furtivo, travestita per non farsi riconoscere quale patrizia, tra i cunicoli delle catacombe. E qui, tra i vari emblemi cristiani, ne avverte un fascino per lei non nuovo. Si addentra con una lucerna accesa e le giunge all’orecchio un canto femminile come di ninna-nanna: «Naenia clarescit muliebri mixta querela. / Naenia profeto est, qualis cantatur ut infans / dormiat». Avanza ancora, con un presentimento atroce: è infatti la nenia sul corpicino straziato dai molossi del nipotino Pomponio Grecino, l’amichetto perduto del suo piccolo Aulo: lo guarda e riguarda: «Ille oculis ambit matrem quam saepe vocabat, / et dulcem quaerit, siqua est, hinc inde gemellum» («Con gli occhi, quel bimbo esanime fissa colei che spesso in vita chiamava madre, e cerca qua e là, se ancora ci sia, il dolce suo gemello»). Un tramite oltre «il muro d’ombra», che separa la vita dalla morte, presagio, almeno, di vita imperitura nella memoria dei superstiti: una cristiana corrispondenza d’amorosi sensi, che suggella l’intenso calore umano che palpita nel poemetto.
Il Pascoli non lascia esplicitamente intendere se, tra quei cunicoli indelebilmente segnati dal sangue innocente dei martiri («Dependent phialae sparso modo sanguine tinctae»), e alla vista del corpicino sbranato dalle fiere, Pomponia, smarrita e sgomenta, abbia riconquistato in tutta pienezza la fede cristiana, compromessa dall’abiura. Ma è questa indeterminatezza che, per un verso, consente al Pascoli, fedele alla sua poetica, di non appiattirsi sul presunto dato storico, e per l’altro sollecita l’immaginazione del lettore secondo la sensibilità sua propria; perché «la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella che migliora e rigenera l’umanità, escludendone non di proposito il male, ma naturalmente l’impoetico». Ci sembra perciò da condividere quanto osserva in proposito Piero Treves: «Escluso il cristianesimo di Pomponia dal piano della realtà, resta a vedere se vi rientri, o possa rientrare, sul piano della poesia. Qui lo stesso confronto con Thallusa mostra, ne avesse o non ne avesse piena coscienza il Pascoli, e quantunque per ovvie ragioni si compiacesse di fare del Cristianesimo, soprattutto ai suoi inizi, la religione dei poveri, degli schiavi e dei diseredati, che Pomponia è nel suo intimo, nella sua condotta, nella sua educazione e nel suo sentire, assai più prossima al Cristianesimo che non sia per essere Thallusa».

Il tempo storico del poemetto Agàpe è ancora il neroniano, con il suo avvenimento più clamoroso e tragico per il cristianesimo delle origini, l’incendio di Roma, di cui si è detto. Fonte è l’epistola di San Paolo ai Romani (XVI, 1), dalla quale sono ripresi i nomi dei personaggi, maschili e femminili, spesso con la stessa terminologia adoperata verso di essi. Ma il rito dell’Agàpe, che è la celebrazione del banchetto tra cristiani di ogni lingua, nazione e stato sociale, a ricordo dell’ultima cena di Gesù, trae spunto da un passo di Tertulliano (Apologetico, XXXIX). «La cena nostra indica il suo significato dal nome: si chiama infatti agàpe, che in greco suona amore». E’ però un lemma di pregnanza paolina: per l’apostolo delle genti, infatti, delle tre virtù teologali «la più grande» è la charitas (Ai Corinzi, I, 13, 13).
Il racconto di Agàpe è databile, più precisamente, la sera del 18 luglio, quando i cristiani, raccolti per il banchetto, avvertono senza lasciarsi prendere dal panico le crescenti avvisaglie dell’incendio imminente dell’Urbe: «Nox subìit dubìis surgentibus flatibus Euri, / turbida: praetereunt ingentia nubila Romam» («Poi giunse la notte, torbida di sbuffi mutevoli dello scirocco che si levava, e grandi nuvole passano su Roma»). Tutt’intorno la Roma pagana, guasta nei costumi e iniqua nelle istituzioni, impazza per l’ultima volta, mentre i credenti tra le mura del cenacolo si confidano tra loro: «chiunque sa di far bene, egli è legge a se stesso» («Est, quicumque sibi est bene conscius, ipse sibi lex»), e si ripetono l’ammonimento estremo, per bocca di Aquila, «collaboratore mio in Cristo Gesù» (Epistola ai Romani, passo citato): «Quisquis es, Hebraei seu sanguine, sive Quirites, / dives, inops, liber, posita sive emptus ab hasta, / inter vos, frates, haec summa est legis, amate!» («Chiunque tu sia, di sangue ebraico oppure quirite, ricco, povero, libero, comprato all’asta, fra voi, fratelli, questo è l’essenziale della legge: amate!»). Ormai «questo mondo passa, questa età è svanita», preannuncia ancora Aquila; il giorno del Signore è imminente, e la sua attesa si accompagna con la preghiera; mentre «un crepitio di fiamme, un guizzo di fuoco, e il vento nella sua furia flagella le vampe e aggiunge fuoco a fuoco» («Crepitant flammae, micat ignis, et igni ignem adflat»). Nella illusione cristiana è la soluzione escatologica della parusia, ma in effetti è l’ennesimo crimen dell’imperatore.
In questo poemetto, che perciò differisce dagli altri, il messaggio della fratellanza è rilevato dal Pascoli nella sua dimensione etica e non soltanto sociale: «la legge morale dentro di me e il cielo stellato sopra di me», sarà il monito dell’imperativo categorico di Kant; ma la sua prima enunciazione risale all’alba dell’era cristiana: «chiunque sa di far bene, è legge a se stesso». Ecco Antusa, la “fiorente”, che, nello scompiglio della città, si affretta a ricoprire con la propria veste di vergine la “sorella” Lycisca, una meretrice ignuda che fugge dal lupanare («propiorque Anthusa Lyciscae / virginea nudam velabat veste sororem»): “sorella”, parola nuova e inaudita della charitas cristiana.

   
   
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