Io credo che il male di cui tutti soffriamo
è un grande residuo di crudeltà che
circola per tutte le vene della società umana, la quale
non vorrebbe essere di belve.
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1. Cenni sul bilinguismo del Pascoli
E concorde la critica nellescludere la discontinuità
tra poesia italiana e poesia latina di Giovanni Pascoli, nei temi,
nei ritmi, negli accenti, nella tecnica fonosimbolica e onomatopeica.
Oltre che nella cronologia. Entra nellarengo dellAccademia
Hoeufftiana di Amsterdam, col Veianius, nel 1891, che è lanno
delle prime Myricae; e la concomitanza prosegue sino alla vigilia
della morte, con Thallusa, 1911, che è anche lanno
dei Poemi italici. Il latino dei Carmina non è lingua daccatto,
ricevuta in prestito dalla tradizione umanistica, residuale, riflessa,
perché presunta morta e dunque inibita di per
sé alla poeticità; è invece lingua spontanea,
nativa, con caratteri lessicali e sintattico-strutturali di assoluta
originalità. Il Carducci la preferiva, addirittura, allitaliano
delle Myricae. Insomma, il Pascoli poeta è nato bilingue,
come hanno dimostrato gli studi fondamentali del Traina.
Ma il quesito se sia possibile o non la vera poesia in una lingua
morta fu dibattuto nei secondi anni Trenta. Intervenne, fra gli
altri, con un saggio del 1937, Giorgio Pasquali, in termini perentori:
«Vè chi non crede a poesia vera in lingua morta.
Io mi sentirei di sostenere lopposto, che ogni letteratura
e quindi ogni poesia è in certo senso e in qualche misura
letteratura di lingua morta [...]. Poesia di lingua morta, dunque,
non esiste; o forse ogni poesia è di lingua morta».
Sulla particolarità del classicismo pascoliano, che non è
riconducibile al generale stampo umanistico, insiste il Valgimigli,
che ribadisce: «Esso è tutto percorso da una vivida
aria che nessuno degli altri agitò, nemmeno dei secoli passati;
ed è scosso da fermenti di problemi di sociale e cristiana
umanità che nessuno degli altri conobbe»; sicché
a tale specifico classicismo corrisponde un latino «non formale
ed esterno, né raccattato da lessici e da grammatiche; bensì
risentito e ricreato come lingua nuova e viva e fresca, dove ogni
parola ha la sua vibrazione, il suo respiro, la sua necessità.
Perciò questa poesia, quando è poesia, è poesia
semplicemente, e laggettivo latino niente le toglie e niente
le aggiunge». Chiudiamo sullargomento ancora con lautorevolezza
del Traina, che innesta il bilinguismo pascoliano nella categoria
estetica, stilistico-espressionistica, del plurilinguismo continiano,
nellimpossibilità di isolare «il problema della
lingua morta da quello della lingua viva».
2. Tracce di socialismo umanitario nei Poemata Christiana
Lideazione e la stesura dei Poemata Christiana maturano nella
coscienza artistica del Pascoli nellultimo decennio della
sua vita, e non certo casualmente: Centurio (1901), Paedagogium
(1903), Fanum Apollinis (1904), Agàpe (1905), Post occasum
urbis (1907), Pomponia Graecina (1909), Thallusa (1911). In quel
decennio si assiste allacuirsi della questione sociale sullonda
lunga della Rerum Novarum di Leone XIII e allintensificarsi
della lotta di classe, oltre che ai fermenti modernisti che scuotono
la coscienza cattolica e attirano linteresse di autorevoli
personalità della cultura anche laica. Sono avvenimenti che
non lasciano indifferente il Pascoli, anche per il rilievo nazionale
che ha assunto la sua figura. La sua risposta agli eventi è
affidata ad alcuni testi del periodo, in prosa e in versi: risposta
en artiste, ovviamente, che muove da una percezione assai acuta
della crisi di una civiltà secolare, che non ebbe il DAnnunzio
e solo parzialmente il Fogazzaro. «Io credo annota
nel 1903 in occasione della sesta edizione delle Myricae
che il male di cui tutti soffriamo e che è così aggravato
da cercare impazienti le cure più strane e diverse, è
un grande residuo di crudeltà che circola per tutte le vene
della società umana, la quale non vorrebbe essere di belve».
Crisi che coinvolge scienza e fede, istituzioni politiche e costumi,
ma che si abbatte con più accanimento, nelle sue ripercussioni,
sugli strati socialmente più deboli, sui più indifesi,
mentre, al tempo stesso, accentua langoscia dellesistere,
lenigma e linanità della storia, la sensazione
del mistero della vita e della morte. A debellare il grande residuo
di crudeltà, che il Pascoli ha espresso a tinte cupe nel
poema conviviale Gog e Magog del 1904, non restano che una religione
dellamore, il cristianesimo senza dogmi, naturale, che il
Pascoli rinviene anche nella cultura classica, di un Virgilio e
di un Orazio, e un socialismo «dellumanità e
non di una classe», che sostituisca alla ferrea legge della
Giustizia, inalberata dal «cieco e gelido socialismo
di Marx», la legge morale della Pietà:
un socialismo laico, ma intriso di spiriti cristiani. La Giustizia
ha provocato guerre, la Pietà lutopia salvifica
della pace perpetua, come aspirazione suprema della
coscienza universale. Nel contempo, si rafforzava nel Pascoli la
consapevolezza della funzione educativa altrettanto umanitaria della
poesia: cioè di una poesia che renda luomo «più
umano», come egli lascia dire ad Orazio: «Concedimi
ora, o bosco, mentre sono qui sdraiato sotto le medesime ombre di
meditare i carmi consueti (carmina quae soleo meditari),
che rendano più umana la schiatta umana (quae genus
humanum faciant humanius), sino a che essa si spogli di ogni
traccia bestiale (dum brutum sibi demserit omne)».
In relazione al movimento modernista, sembra probantemente indiziario
dellattenzione pascoliana ad esso il discorso pronunciato
a Pisa nel 1905 per il cinquantennio sacerdotale di Geremia Bonomelli,
La Messa doro, in cui rivendica la priorità assoluta
della carità, tra le virtù teologali, lagàpe,
lamore, sulla scorta di San Paolo: «Fede, speranza,
carità sono tre, ma la maggiore è la carità»
(Ad Corinthios I, XIII, 13). Un rinverdimento poetico del cristianesimo
delle origini, dunque, si affaccia al cuore del Pascoli, con il
segreto bisogno di stemperare i grumi della propria e altrui angoscia
esistenziale e anche al fine di preservare lumanità
del millennio incipiente dallinsorgere di nuove «Ninive
e Babilonie, Cartagini e Rome, mostruose, enormi, infinite»,
che accentuerebbero la disuguaglianza tra le genti.
Anche nei Poemata Christiana il Pascoli rimane uomo moderno, perché,
come conclude il Pasquali, «la dottrina etica del cristianesimo
è per lui come per ognuno di noi uomini del ventesimo secolo,
credenti e non credenti, qualche cosa di incondizionato. Il paganesimo
è uno stato danimo letterario o una farsa, perché
millenni di vita cristiana né debbono né possono essere
avulsi dal cuore umano. Ma cristiani non sono soltanto la schiava
Thallusa e la patrizia Pomponia Graecina e il ragazzino orientale
Alexamenos (del Paedagogium), ma anche lOrazio del Fanum Vacunae
e della Phidyle (del Liber de poetis).
3. «Vere hic homo iustus erat» (v. 178)
Larco di tempo cui si richiamano i sette Poemata Christiana
abbraccia poco meno dei primi sei secoli dellera cristiana,
dagli albori, con il Centurio, al pontificato di Gregorio Magno,
con il Post occasum urbis, che preannuncia il tramonto della città
eterna e la fine del paganesimo, con Fanum Apollinis. Fra
i due estremi, la buona novella si diffonde in tutti
gli strati sociali, con Thallusa, Pomponia Graecina e Agàpe,
scatenando le persecuzioni, con Paedagogium.
Lo spunto ideativo del Centurio è offerto da un passo del
Vangelo di Luca (XXIII, 47), che recita: «Videns autem centurio
quod factum fuerat, glorificavit Deum dicens: Vere hic homo
iustus erat» («Il centurione, riflettendo su quanto
era accaduto, rese gloria a Dio, esclamando: Veramente era
costui un uomo giusto»). Questo poemetto si può, a
ragione, considerare il manifesto dellintero ciclo
dei Poemata. Nel vecchio ufficiale romano in pensione si mescolano
e si scontrano memoria e coscienza: ricordi non più gratificanti
di guerre, stermini di popoli, saccheggi di città e presentimenti
di unepoca nuova, non più dominata dalla fallace pax
romana bensì, agostinianamente, dalla pax christiana
del De civitate Dei.
La fabula del poemetto è presto detta. Etrio, dopo quarantanni
di servizio militare, si gode la quiescenza con lunghe passeggiate
per le stradicciole del suo villaggio natio, nel Lazio; ma non senza
che lo riassalgano nellimmaginazione fantasmi del passato.
Un giorno il centurione simbatte in uno sciame
di fanciulli, appena sbucati dalla scuola, con le loro cassette
e tavolette cerate («pueri loculos tabulamque gerentes»),
che lo circondano schiamazzando: «Dic aquilas, dic arma
fremunt dic bella cruoremque». Il vecchio li accontenta;
le domande incalzano, ma sinsinua lentamente nellanimo
di Etrio un dissimulato disgusto per i racconti di guerra, che i
suoi scalpitanti rampolli dei padroni del mondo («rerum domini»)
pretendono con petulanza; e sbotta, se pur bonario (son sempre dei
fanciulli): «Olim.../ Semper ego ut mera bella crepem?...
Sed et est quod torquat ora» («Un giorno...Ma solo e
sempre di guerra debbo io parlare? Cè pure, talvolta,
qualcosa che fa storcer la bocca»); e con progressiva studiata
accortezza narra quanto ha visto con i propri occhi di quell«uomo
straordinario» finito sulla croce. Dagli episodi di guerra
si passa ad episodi della vita di Gesù; ma se i primi entusiasmavano
quei frugoli bellicosi, i secondi incuriosiscono soltanto.
Eppure gli episodi della vita di Gesù, per quel loro alone
pressoché surreale, dovrebbero eccitare la loro fantasia.
Ecco il Galileo, in un ameno lago, librato su una barca, tra cielo
e mare, che ammaestrava una folla ingente, assiepata sulla riva,
«tamquam pueros pater ipse docebat» («come un
padre, i suoi figli»). E ancora, sempre introdotto a sorpresa
dallavverbio indeterminato «un tempo» («olim»),
quellUomo che siede tra bambini, che le madri si affrettavano
a portargli da presso, perché li accarezzasse («Matres
teneros hinc inde ferebant / infantes, quos ille quidem contingeret»),
mentre proprio i suoi compagni se ne indispettivano («At comites
simul obiurgare, minari, matribus irasci») e quel maestro
li rabboniva. Infine, e siamo al culmine della suspense sempre più
tesa per il reiterarsi quadruplicato dell«Olim»,
il tripudio della gente, che reca in mano «ramos pallentis
olivae», per quellUomo, «vectum asella»;
e che, procedendo tra la calca, nella città santa,
riconosce il centurione sussurrandogli una parola, che
risuonerà assai strana alle orecchie di quei fanciulli. E
la parola pace, che riecheggerà ammonitrice agli
uomini di buona volontà, lì, su quel poggetto che
dà pasto ai corvi («grumum qui corvos pascit ad urbem»).
Un barlume di autocoscienza il Pascoli attribuisce al centurione
(«mihi sceleris letique ministro») nellincontro
folgorante con Gesù a Gerusalemme; nessuno invece ai fanciulli,
forse perché privi di ogni esperienza di vita, e che dunque
risentono nel loro inconscio la mitologia della violenza dei padri.
E la mitologia che continua a rivendicare il figlio di Albino,
lesattore usuraio del villaggio, che torna a chiedere a Etrio:
«Dic etiam: nobis terrarum impervius ullus angulus est? Quem
nos non vicimus, est quis?» («Dicci ancora: cè
angolo alcuno della terra per noi inaccessibile? Cè
tuttora chi noi non abbiamo vinto?»).
In Centurio, la trama narrativa è come trapunta liricamente
dal gorgheggio degli uccelli, che per la sua dislocazione strutturale
nella compagine semantica, riveste precisi caratteri simbolici,
e al tempo stesso instaura un rapporto, una liaison, tra il vecchio
Etrio e i fanciulli, pur nella radicale diversità psicologico-emotiva,
luno nel raccontare e gli altri nel recepire. E il rapporto
di cui si legge nel Fanciullino: «Linvisibile fanciullo
(chè dentro ognuno di noi) si pèrita vicino
al giovane più che accanto alluomo fatto e al vecchio,
perché più dissimile a sé vede quello che questi.
Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo;
perché ne disdegna la conversazione, come chi si vergogni
dun passato troppo recente. Ma luomo riposato ama parlare
con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave;
e larmonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare,
come dun usignolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora».
Il centurione vaga fra i campi, mira i filari delle viti a scacchiera,
che gli rammentano le legioni, «at aves non signa canebant»;
«ma uccelli non le trombe cantavano»); e quel canto
lo restituisce ad una realtà di serena pace.
Quando i monelli improvvisamente ammutoliscono («ore favent»),
a un cenno col dito di Etrio che si accinge a riprendere il racconto
(«vix hic dicturus digitum bene sustulit»), si ode dimprovviso
tuttintorno il rapido garrire delle rondini («circum
velox auditur hirundo»). E ancora le rondini ricorda
bene il centurione volitando sussurravano, in una lingua
incomprensibile dagli uomini, («barbara sed lingua, et non
intelligitur»), allorecchio del derelitto sulla croce
non si sa che cosa («sicut memini, cum prorsus in aure non
homini soli nisi quid garriret hirundo»).
Né sembra vogliano allontanarsi da quel poggio maledetto
le rondini; che anzi si infittiscono a shiera, mentre in cielo navigano
rosee nubi, quando al calar delle tenebre cessa lo schiamazzo, si
allenta la tensione, e la feccia della città è sfollata
(Veniente tamen iam vespere clamor / et tumor hinc et faex
omnis concesserat urbis / ...Multa, ut nunc, pueri, circum volitabat
hirundo, / et roseas memini fluitare per aera nubes»). Lascendenza
biblica delle rondini sul colle dei Crani non attenua
lintenzione simbolica del poeta, che in quel prolungato intermittente
garrire coglie leco infinita dellappello alla pace,
quale messaggio estremo di salvezza universale.
4. «Flet Thallusa canens, aeque memor, immemor aeque»
(v. 180)
«Piange Thallusa e canta, egualmente ricorda e non ricorda»,
come la Ofelia shakespeariana, alla quale, se pure per ragioni diverse,
è da paragonare per la intensa drammaticità interiore.
In questo poemetto, come in Pamponia Graecina, Agàpe, Paedagogium,
il messaggio cristiano è colto nella dimensione dellumano
dolore, della sofferenza redentrice, diremmo manzonianamente.
La notizia della vittoria al concorso di Amsterdam giunse al Pascoli
qualche giorno prima della morte, avvenuta il 6 aprile 1912. Laveva
attesa a lungo, con trepidazione, tanto più che linfermità
che lo costringeva a letto non si allentava. Sarebbe stato il canto
del cigno. La motivazione della vittoria non poteva essere più
lusinghiera: «Carmen eximium quo vix cogitari quidnam possit
praestantius» («Poema eccelso del quale non si potrebbe
immaginare nulla di più perfetto»). Infatti, nel leggerlo,
gli accademici, ignorando ancora il nome dellautore, non ad
altri pensarono che a Giovanni Pascoli: per la catturante delicatezza
dei sentimenti, non nuova a quei giudici, per la fine introspezione
psicologica, per lineguagliata forza espressiva, per la ingenua
sensibilità sociale; aspetti che hanno poi fatto ritenere,
pressoché concordemente, Thallusa il capolavoro in assoluto
del corpus latino del Pascoli.
Se nel Centurio la rievocazione del cristianesimo delle origini
oscillava tra storia e mito, per intendere Thallusa scrive
Ermenegildo Pistelli «non cè bisogno di
riposte notizie storiche e archeologiche, e neppure di alcuno sforzo
per adattarci a uno speciale ambiente, diverso e lontano dal nostro.
In nessun componimento la ricostruzione è così profondamente
ed esclusivamente umana come in questo»
Due sono i motivi ispiratori di fondo del poemetto: uno di natura
storico-sociale, listituto giuridico della schiavitù
nella società pagana; laltro è lo sconfinato
amore materno, che annulla la diversità di classe tra matrone
e schiave, tra il bambino sottratto a Thallusa, perché schiava
e cristiana, e il bimbo della matrona da lei cullato. La esecrazione
pascoliana della schiavitù, col suo ius vitae et necis, affonda,
certo, la sua prima radice nel socialismo umanitario non materialistico
del poeta, ma attinge motivo ulteriore in quellumanesimo perenne,
in quella «intima cristianità delle letterature classiche»,
da lui rivendicata nella prolusione pisana del 1903, La mia
scuola di grammatica.
Il poemetto si apre con un delicato riquadro, realistico e insieme
simpatetico: la giovane schiava riconduce a casa dalla scuola i
due figlioletti della sua padrona, tenuti stretti a sé per
mano, luno con la destra e laltro con la sinistra, «haud
invitos sed saepe morantes» («docili ma spesso lenti
nel procedere»). Si fermano presso bottegucce, riboccanti
di ninnoli («armillis bullisque catellisque») o dinnanzi
a tavoli imbanditi di leccornie fumiganti. Con essi sosta anche
Thallusa, del pari incantata, ma che alla vista di quelle squisitezze,
a lei sconosciute, indugia ancor di più, tanto che il più
piccino si affretta ad offrirle la sua monetina ancora in serbo
perché possa comprarsene: «balbutit puer: numquam tetigisti
crustula, quo nil dulcius». Il gesto commuove la donna, che,
non più corrucciata, gli accarezza la testina dolcemente
e bisbiglia: «Lucille, quid offers non adeo parvae belluria
servae? / Haec ede tu: rodant haec mures dulcia dulces» («Mio
Lucietto, perché offri i dolciumi a una schiava ormai fattasi
grande? Mangiali tu piuttosto; o semmai se li rosicchino i topini»).
Ma limmagine improvvisa dei topini le riporta alla memoria
la sua creaturina, strappatale appena nata: si abbandona alle lagrime
e ricompare sul suo volto il rancore. Bisogna far presto a rincasare,
o il padrone le riserverà le solite aspre rampogne; e si
trascina con strattoni i due piccoli, che dun tratto smettono
il loro chiacchierio e si affrettano, «binisqui tolutim passibus
aequant / singula Thallusae vestigia» («trotterellando
eguagliano con due passetti ogni passo di Thallusa»). Intanto,
sbotta con la moglie il padrone per il pur lieve ritardo della schiava,
e annuncia di averla già ceduta ad altri; anzitutto perché
Thallusa bazzica con la «marmaglia cristiana» («Chresti
sectam») e può, a lungo, plagiargli i figli, che viene
constatando troppo legati a quella schiava. Invano Gaia, la moglie,
pagana anchessa, adduce attenuanti: «Verum frugi est
patiensque laboris / et caros pueros habet et pueris est cara»
(«Ma è frugale, laboriosa, ha cari i nostri bambini
e lei è cara ad essi»). La donna, insomma, oppone allauctoritas
del padre padrone il suo istinto materno, che sa di avere in comune
con la schiava. Il dato di natura prevale sul pregiudizio sociale.
Alle premure di Thallusa, infatti, non esita ad affidar il suo terzogenito
ancora lattante, quando ella deve recarsi a celebrare con le amiche
i riti della Dea Bona. Così la schiava resta sola in quella
casa non sua, ma che pure, in qualche modo, illusoriamente, le ricrea
nella immaginazione il tepore affettivo del nido. Disinganno
atroce: il nido veramente suo è stato infranto:
le è stato ucciso il marito, che per primo laveva avviata
alla fede cristiana e alla religione dellamore fra gli uomini;
le è stata rapita, appena nata, lunica sua creatura;
e questi ricordi le sconvolgono la mente. Sogguarda di traverso
gli abbracci affettuosi tra i figli e la matrona («Dulces
complexus limis Thallusa tuetur»); le si schianta il cuore
come depredato dei suoi affetti e Thallusa si abbandona a un impeto
di odio. Il lungo monologo, che occupa la parte centrale del poemetto,
ne rivela una vera e propria degradazione, la quale,
peraltro, rientra nella prospettiva estetica di un realismo psicologico.
Lanimo di Thallusa è lacerato tra speranza (cristiana)
e disperazione (schiavile), tra fede ingenua e rivolta emotiva sino
alla dissacrazione. Vi si susseguono sarcastiche imprecazioni che
sfociano nella empietà: «Va felice, Gaia, e a te la
Dea Bona sia propizia come a me fu il buon Dio; e al ritorno possa
tu vedere la culla del tuo piccino, come io vidi quella del mio,
al mio rientro»; «dulcique fruaris alumno / non magis
atque egomet, cui frustra lacte tumentes / abreptum puerum non invenere
papillae» («e possa goderti la soave tua creatura non
più che io stessa la mia, che, strappatami, non ritrovarono
più le mammelle gonfie di latte»).
Siamo ormai al delirio, che la figura retorica del climax rende
con grande efficacia espressiva. Limmaginazione allucinata
della schiava è fissa sul viso evanescente del suo bimbo:
morrò certo, gli sussurra, ma risorgerò e tuttavia,
figlioletto mio, non ti vedrò nel primo fiore, quando col
mio sorriso ricercavo il tuo («parve puer, te non in primo
flore videbo, / cum risum risu tentabam promere primum»).
Perché non può riconoscermi insiste quella
infelice come la mamma sua, «mihi qui non riserit umquam!»
(«egli che mai ha potuto sorridere a me»). Un dolore
che le serra la gola, né Dio stesso può nulla, né
la morte («Nil contra Deus ipse potest, nil ipsa potest mors»).
E nel suo scatto estremo Thallusa maledice Tertullo e la culla in
cui vagiva, la casa intera, con la padrona e quei bambini che ella
riprendeva dalla scuola e a lei affezionati. «Dum furit et
cunctos optat vanescere flammis / seque una, tenui tintinnant, ut
putat, aures / murmure, mox agni tamquam sine matre relicti / vox
animum temptat. Tremibundo palpitat omnis / vagitu domus. Infelix
Thallusa, vocaris! / Novisti vocem. Matrem vox illa vocat te».
(«Mentre così vaneggia e brama che tutti siano avvolti
dalle fiamme, insieme con lei, le giunge allorecchio
così crede la voce come di agnellino abbandonato dalla
madre, che le tocca il cuore. Tutta la casa palpita di un tremulo
vagito. Quella voce chiama te, povera Thallusa! La conosci, quella
voce. Tinvoca mamma quella voce»).
Si è spento quel bieco baleno di vendetta, e quando Tertullo
si sveglia, per quietarlo gli canta la ninna-nanna, così
come la canterebbe al suo bimbo perduto: «Ocelle mi, quid
est quod vis apertus esse?» («Occhiuzzo mio, che cosa
è che ti fa stare sveglio?»); «Ocelle mi, quid
est quod usque me tueris?» («Occhiuzzo mio, che è
per cui mi guardi così fino?»); e Thallusa, in un trasporto
di complice tenerezza, ama immaginare che quello sguardo fisso sia
un segno di partecipazione del piccolo al proprio dolore; ma soggiunge:
«Sum servuli quidem vix mater, ipsa serva. / Genis tuis tegaris:
liberam videbis» («Sono madre a stento di un piccolo
schiavo, schiava io stessa. Chiudi le tue palpebre: mi rivedrai
libera»). Ma il senso di una maternità soffocata esige
altri sfoghi e la nenia dolorosa prosegue: «Ocelle, qui tueris
usquequaque lugens...» («Occhiuzzo, che mi guardi piangendo
come se io stia per allontanarmi da te... non credere che la morte
ti tolga la tua mammina»), «genas tuas remitte semper
et videbis» («abbassa le tue palpebre, e la vedrai sempre
la tua mammina»). E allucinata la trasposizione del
sogno in realtà: quel piccino che frigna ha le sembianze
del suo; del pari, il desiderio materno di ritrovarlo nellaldilà
si trasforma in certezza che nello stesso luogo lorfanello
abbraccerà la sua mamma. Allora «Flet Thallusa canens,
aeque memor, immemor aeque», e a quel canto ritmato dai singhiozzi,
Tertullo, che dondola nella zana, schiude la boccuccia al sorriso
(«tandem crispatur buccola»); un sorriso che Thallusa
reclama tutto per sé, insistendo: «Ride! coepisti tandem
risu cognoscere matrem» («Sorridi! Cominci finalmente
a conoscere tua madre e le sorridi»).
Ma troppo breve è stato il dolce autoinganno di Thallusa.
La madre vera di Tertullo sopraggiunge; ha ascoltato le sue parole
al piccolo («Mater adest sed vera redux auditque loquentem»),
e la invita ad andare a dormire, perché il giorno dopo dovrà
levarsi presto: «Primo mane domo servam novus emptor abegit»
(«Di primo mattino il nuovo acquirente condusse via la schiava
dalla casa»).
5. «Mortalis amor, dolor immortalis» (v. 197)
Largomento del poemetto Pomponia Graecina fu ispirato al
Pascoli da un passo degli Annales di Tacito (1, XIII, 32), cui egli
si riferisce esplicitamente ad apertura: «Non cultu nisi lugubri
Pomponia vitam, / non animo vixit nisi maesto» («Se
non con vestiti di lutto, se non col cuore mesto Pomponia visse
la sua vita»). Ma riportiamo per intero il brano dello storico
latino: «Pomponia Grecina, nobile matrona romana, andata sposa
a Plauzio, al suo ritorno dal governatorato della Britannia con
gli onori del trionfo, poiché era stata accusata di superstizione
straniera («superstitionis externae rea»), fu sottoposta
al giudizio del marito. E questi, secondo lantico costume
(«prisco instituto»), istruì il processo sulla
vita e sullonore della moglie alla presenza di tutti i congiunti,
e la proclamò innocente («propinquis coram de capite
famaque coniugis cognovit et insontem nuntiavit»). Questa
Pomponia ebbe poi lunga vita in continua tristezza («continua
tristitia fuit»). Infatti dopo luccisione di Giulia,
figlia di Druso, voluta con inganno da Messalina («dolo Messalinae
interfectam»), per quarantanni vestì a lutto,
e sempre triste in cuore; per lei tutto ciò passò
impunemente durante il regno di Claudio («imperitante Claudio»),
poi le fu motivo di gloria («mox ad gloriam vertit»)».
Qualche chiarimento, che faccia comprendere la diversione esegetica
del Pascoli rispetto alla sua fonte. La figlia di Druso era una
lontana parente di Pomponia e della sua avvenenza e virtù
era oltremodo invidiosa Messalina, la depravata moglie dellimperatore
Claudio (lo zuccone, di cui si prende gioco atroce Seneca),
poi bersaglio nella celeberrima satira VI di Giovenale contro le
donne.
Lispirazione del poemetto, inoltre, fu probabilmente rafforzata
dalla lettura del romanzo Quo vadis? del polacco Enrico Sienkiewietz,
che, in traduzione italiana, circolò largamente alla fine
dellOttocento. La patrizia romana, infatti, vi compare, insieme
con il marito, Aulo Plauzio, figura di primo piano nella Roma neroniana,
che è il tempo storico cui ci riconduce il poemetto pascoliano.
Tornando a Tacito, dal suo brano si deduce che egli attribuiva la
ragione della tristezza e dellabbigliamento lugubre di Pomponia
alla morte di Giulia; il Pascoli, invece, con maggiore verosimiglianza
e in coerenza con lintenzione ideologica dei Poemata Christiana,
la fa risalire allo struggimento segreto della donna, costretta
dal marito allabiura della sua fede cristiana, per poter riabbracciare
il figlio ancor piccolo.
Il disprezzo di Tacito, come di Giovenale, di Plinio il giovane,
di Svetonio, per la superstitio externa, è radicale,
assoluto (Annales, XV, 44), perché sovvertitrice del «mos
maiorum» sul piano dei comportamenti pubblici, della «pax
romana» sotto il profilo politico-istituzionale, e del sistema
egemonico «utriusque ordinis» dal punto di vista sociale.
«Superstitio exitialis», per il più nefando dei
crimini che viene imputato ai seguaci del Christus: l«odium
generis humani», che poi, per ritorsione, avrebbe scatenato
contro di essi lodio di tutti gli altri popoli, compresi gli
ebrei. La separazione dei valori politici dai valori spirituali
costituiva lasse rivoluzionario della nuova fede, allinsegna
dellamore, della charitas paolina. Troppo stridente, dunque,
il contrasto tra ideologia e prassi imperiale e cristianesimo, perché,
assumendo a pretesto lincendio del 64, non si desse sfogo
alla più feroce delle persecuzioni. Ma, come scrive Ernesto
Buonaiuti, lincendio e la repressione «costituiscono
il battesimo storico della comunità romana e più genericamente
della Chiesa nei suoi contatti col potere politico».
In Pomponia Graecina, i valori politici sono rappresentati dallautoritarismo
di Plauzio, «Flamen dialis», e perciò insignito
di un crisma ufficiale; nonché, fra le mura domestiche, «pater
et herus» («padre e padrone»). I valori spirituali
sono invece rivendicati, nella loro superiorità non soltanto
in ambito privato, dalla fermezza di Pomponia; valori che ella conserva
in cuor suo anche quando il marito le pone lalternativa crudele
tra il sacrificare agli dei, secondo il «buon costume degli
antichi padri» («O domus antiquis quae stabas moribus»,
proclama Plauzio), e la separazione dal figlio; in definitiva, quando
è in gioco senza scampo o la salvezza o la perdizione eterna,
sia di lei che della sua creatura.
La struttura del poemetto è dunque assai più articolata
degli altri. Accanto a Pomponia, in funzione eponima e ideologicamente
epesegetica, appare Plauzio, in funzione antagonista e tutoria della
continuità della tradizione, non soltanto domestica; tradizione,
peraltro, che già il padre di Pomponia non ha riconosciuto
nella sua assolutezza inibitoria, pur nella propria illibatezza
di vita. Offensivo, dunque, per la figlia, lo scherno che il marito
invece gli riserva: «Tu dedignaris... An ipso Graecino patre?
Quam molli qui pectore Romam / venerit ex Asia, posita feritate
Quirina, / novimus...» («Tu ti sdegni. Ma a renderti
seguace di un criminale in croce, è forse lo stesso tuo padre
Grecino? Sappiamo come, deposta la romana fierezza, sia ritornato
dallAsia a Roma da rammollito»). Non marginali, se pure
sfumate, le figure dei due fanciulli, il piccolo Aulo e Grecino
il cuginetto, che incarnano la innocenza intatta a livello individuale
allalba dellesistenza, come il cristianesimo, nella
sua originaria purezza, incarna laspirazione allinnocenza
dellintero mondo umano: aspirazione insopprimibile e già
avvertita in epoca pagana con la mitica età di Saturno, «sotto
cui giacque ogni malizia morta» (Pd., XXI, 27).
Il tenore di vita, cristianamente appartato e riservato, è
motivo di maligne mormorazioni del volgo: «Quid habet Graecina,
quod intus sic servet?» («Che cosa ha mai Grecina, che
se ne sta sempre tappata in casa?»); ha da poco potuto riabbracciare
il consorte, di ritorno in trionfo dalla Britannia, e tuttavia se
ne sta corrucciata («angitur»); ha in odio, infelice,
la luce del giorno e si nasconde nellombra («odit aegra
diem, latet in tenebris»); in quali templi degli dei si aggira,
per pregare o per rendere grazie?» («supplex aut grates
habitura?»).
Si affretta a deferire allorecchio del principe limmancabile
ruffiano, con la solita vischiosità adulatoria: «Temo
proprio che qualche superstitio non spreta servis» («ben
accolta dagli schiavi») abbia intaccato «ampli flaminis
uxorem Graecinam»; cosa che non vorrei proprio credere («credere
nolim»). Non vè dubbio: è rea confessa
(«tum rea fit mulier»). Seguono il processo e lintimazione
del marito, cui Pomponia replica reclamando la propria intemeratezza,
la devozione al consorte e al figlio, lamore per la casa;
con il richiamo alla saggezza evangelica: «la bontà
di un albero si conosce dal frutto: e nessuno ha mai colto luva
dai pruni» (frux unicum arbori index: / nemo de spinis
umquam collegit uvam, Matteo , VII, 16-18). Una tregua apparente
nel contrasto insanabile; quando, infatti, il «flamine diale»,
investito, come tale, dallautorità dellimperatore
(che è Nerone), impone di versare i grani dincenso
sullaltare degli dei, imputandole un presunto «humani
generis contemptus» («il disprezzo nelluman genere»),
Pomponia, «extollens secura caput», ribatte: «falso!
Nam fratrum quasi convictum coetumque sororum / ipso patre Deo nostrum
genus putamus» («E falso! Perché noi crediamo
come una comunanza di fratelli e una società di sorelle il
nostro genere umano, con lo stesso Dio quale padre»). Che
è la temuta, esplicita, e invano scongiurata, professione
di fede cristiana di Pomponia. Lepilogo è ineluttabile:
il figlio resterà col padre e la donna può pure andar
via da quella casa; altrimenti sarebbe stata una riprova che la
superstitio externa già serpeggiava fra le classi
alte di Roma.
Ma a richiamare Pomponia alla realtà dellevento inaspettato
dellabiura è la voce del suo figlioletto che chiede
di lei: «Tum vox auditur, gracilisque silentia rumpit, / custodem
pueri patulo rogitantis in oeco» («Si ode allora una
voce fievole che rompe il silenzio, di fanciullo che domanda insistente
al custode nella vasta sala»). «Mater ubi est?»,
replicato tre volte con un crescendo angoscioso, che fa quasi balzare
il cuore dal petto alla donna («Cohibet cor palmis perdita
mater»).
Nei primi tempi cristiani, che son quelli del poemetto, la professione
della nuova fede oscillava, di necessità, tra velleità
eroiche e ripiegamenti solipsistici: gli estremi emotivi fra i quali
si muove il travaglio interiore di Pomponia, che è cristiana
ma pur sempre una patrizia. In lei ladesione ai dettami di
un culto straniero non si configura che come un pur sincero atto
intellettuale, favorito da una cultura raffinata (quella del padre,
invisa a Plauzio); mentre nella schiava Thallusa nasce quasi da
pulsioni istintive, prelogiche, fanciullesche, perché la
predicazione cristiana delluguaglianza e della fratellanza
universale la appaga nel suo bisogno naturale di riscatto umano,
prima ancora che sociale. Le accomuna però il dramma di una
maternità offesa e lacerata, del nido brutalmente
negato, che la schiava si ricompone illusoriamente riversando nel
bimbetto della padrona quelle effusioni traboccanti che limmaginazione,
sempre più accesa, riserva al suo, nel sogno ricorrente di
riabbracciarlo; Pomponia, col pianto nel cuore («lacrimis
mater inusta»), lo ricompone nello sforzo di ripristinare
lintatta tenerezza con la quale era solita raccontare al suo
piccolo Aulo, ormai senza più il cuginetto, compagno di giochi,
favole dilettose, come quella della pecorella smarrita
o della monetina perduta (Luca, XV, 1-10). Lo aveva particolarmente
scosso la favola del figliol prodigo (Luca, XV, 11-32),
e insiste per riascoltarla da lei, soltanto da lei, perché
nessun altro sa narrare come la sua mamma: «Hoc, matercula
narra; nam tu sola vales hoc enarrare diserta». Ma questo
riaffiorare dal fondo di una memoria ormai sconvolta un prius irreversibile
di intimità domestica ed esistenziale acuisce lo strazio
della donna, cui non resta che abbandonarsi allimminente grande
«giorno del Signore» (del giudizio universale, Atti
degli apostoli, II, 19-20), preceduto da sangue, fuoco e fumidi
vapori. Ella sente, in assoluta solitudine, scorrere i suoi giorni
e i suoi anni, propriamente dal 57 al 64, «guttatim, quasi
de vitrea clepsydra» («a goccia a goccia, come da una
clessidra»); ma quel giorno, la madre, sguarnita della «palma
e della bianca stola» («non palma nec alba est iam stola»),
non potrà condurre il suo figlioletto innocente oltre i confini
del mondo («deducens puerum mortem transmittere mundi»).
Lo sguardo di nascosto «ac flens ingeminat: Mortalis
amor, dolor immortalis» («e piangendo ripete:
mortale è il mio amore, ma immortale il mio dolore»):
cioè il dolore disperato di non appartenere, per la sua abiura,
al «numero degli eletti», in quel giorno del Signore
31. La città «eterna» è avvolta da vampe
gigantesche e sembra rischiarare luniverso, quasi immane fiaccola
di morte, che le raffiche impetuose del vento attizzano vendicatrici
(Apocalisse, VII, 1). La parusia invocata qui si tinge di inusitata
violenza simbolica, a specchio, inconscio, dellanimo di Pomponia,
che trova rifugio furtivo, travestita per non farsi riconoscere
quale patrizia, tra i cunicoli delle catacombe. E qui, tra i vari
emblemi cristiani, ne avverte un fascino per lei non nuovo. Si addentra
con una lucerna accesa e le giunge allorecchio un canto femminile
come di ninna-nanna: «Naenia clarescit muliebri mixta querela.
/ Naenia profeto est, qualis cantatur ut infans / dormiat».
Avanza ancora, con un presentimento atroce: è infatti la
nenia sul corpicino straziato dai molossi del nipotino Pomponio
Grecino, lamichetto perduto del suo piccolo Aulo: lo guarda
e riguarda: «Ille oculis ambit matrem quam saepe vocabat,
/ et dulcem quaerit, siqua est, hinc inde gemellum» («Con
gli occhi, quel bimbo esanime fissa colei che spesso in vita chiamava
madre, e cerca qua e là, se ancora ci sia, il dolce suo gemello»).
Un tramite oltre «il muro dombra», che separa
la vita dalla morte, presagio, almeno, di vita imperitura nella
memoria dei superstiti: una cristiana corrispondenza damorosi
sensi, che suggella lintenso calore umano che palpita nel
poemetto.
Il Pascoli non lascia esplicitamente intendere se, tra quei cunicoli
indelebilmente segnati dal sangue innocente dei martiri («Dependent
phialae sparso modo sanguine tinctae»), e alla vista del corpicino
sbranato dalle fiere, Pomponia, smarrita e sgomenta, abbia riconquistato
in tutta pienezza la fede cristiana, compromessa dallabiura.
Ma è questa indeterminatezza che, per un verso, consente
al Pascoli, fedele alla sua poetica, di non appiattirsi sul presunto
dato storico, e per laltro sollecita limmaginazione
del lettore secondo la sensibilità sua propria; perché
«la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella
che migliora e rigenera lumanità, escludendone non
di proposito il male, ma naturalmente limpoetico». Ci
sembra perciò da condividere quanto osserva in proposito
Piero Treves: «Escluso il cristianesimo di Pomponia dal piano
della realtà, resta a vedere se vi rientri, o possa rientrare,
sul piano della poesia. Qui lo stesso confronto con Thallusa mostra,
ne avesse o non ne avesse piena coscienza il Pascoli, e quantunque
per ovvie ragioni si compiacesse di fare del Cristianesimo, soprattutto
ai suoi inizi, la religione dei poveri, degli schiavi e dei diseredati,
che Pomponia è nel suo intimo, nella sua condotta, nella
sua educazione e nel suo sentire, assai più prossima al Cristianesimo
che non sia per essere Thallusa».
Il tempo storico del poemetto Agàpe è ancora il neroniano,
con il suo avvenimento più clamoroso e tragico per il cristianesimo
delle origini, lincendio di Roma, di cui si è detto.
Fonte è lepistola di San Paolo ai Romani (XVI, 1),
dalla quale sono ripresi i nomi dei personaggi, maschili e femminili,
spesso con la stessa terminologia adoperata verso di essi. Ma il
rito dellAgàpe, che è la celebrazione del banchetto
tra cristiani di ogni lingua, nazione e stato sociale, a ricordo
dellultima cena di Gesù, trae spunto da un passo di
Tertulliano (Apologetico, XXXIX). «La cena nostra indica il
suo significato dal nome: si chiama infatti agàpe, che in
greco suona amore». E però un lemma di pregnanza
paolina: per lapostolo delle genti, infatti, delle tre virtù
teologali «la più grande» è la charitas
(Ai Corinzi, I, 13, 13).
Il racconto di Agàpe è databile, più precisamente,
la sera del 18 luglio, quando i cristiani, raccolti per il banchetto,
avvertono senza lasciarsi prendere dal panico le crescenti avvisaglie
dellincendio imminente dellUrbe: «Nox subìit
dubìis surgentibus flatibus Euri, / turbida: praetereunt
ingentia nubila Romam» («Poi giunse la notte, torbida
di sbuffi mutevoli dello scirocco che si levava, e grandi nuvole
passano su Roma»). Tuttintorno la Roma pagana, guasta
nei costumi e iniqua nelle istituzioni, impazza per lultima
volta, mentre i credenti tra le mura del cenacolo si confidano tra
loro: «chiunque sa di far bene, egli è legge a se stesso»
(«Est, quicumque sibi est bene conscius, ipse sibi lex»),
e si ripetono lammonimento estremo, per bocca di Aquila, «collaboratore
mio in Cristo Gesù» (Epistola ai Romani, passo citato):
«Quisquis es, Hebraei seu sanguine, sive Quirites, / dives,
inops, liber, posita sive emptus ab hasta, / inter vos, frates,
haec summa est legis, amate!» («Chiunque tu sia, di
sangue ebraico oppure quirite, ricco, povero, libero, comprato allasta,
fra voi, fratelli, questo è lessenziale della legge:
amate!»). Ormai «questo mondo passa, questa età
è svanita», preannuncia ancora Aquila; il giorno del
Signore è imminente, e la sua attesa si accompagna con la
preghiera; mentre «un crepitio di fiamme, un guizzo di fuoco,
e il vento nella sua furia flagella le vampe e aggiunge fuoco a
fuoco» («Crepitant flammae, micat ignis, et igni ignem
adflat»). Nella illusione cristiana è la soluzione
escatologica della parusia, ma in effetti è lennesimo
crimen dellimperatore.
In questo poemetto, che perciò differisce dagli altri, il
messaggio della fratellanza è rilevato dal Pascoli nella
sua dimensione etica e non soltanto sociale: «la legge morale
dentro di me e il cielo stellato sopra di me», sarà
il monito dellimperativo categorico di Kant; ma la sua prima
enunciazione risale allalba dellera cristiana: «chiunque
sa di far bene, è legge a se stesso». Ecco Antusa,
la fiorente, che, nello scompiglio della città,
si affretta a ricoprire con la propria veste di vergine la sorella
Lycisca, una meretrice ignuda che fugge dal lupanare («propiorque
Anthusa Lyciscae / virginea nudam velabat veste sororem»):
sorella, parola nuova e inaudita della charitas cristiana.
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