Marzo 2002

IN CHIAVE VIVALDIANA

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Trascolorar di Puglie
Lello Boda
 
 

 

 

 

 

C’è una sottile
malinconia in questa fissità della natura pietrificata, eppure viva, e soltanto
sospesa oltre la
corazza della terra.

 

 

L’aria si assottiglia, a partire dal Capo di Leuca infilato dal grecale che trasvola le crespature dei due mari e le laminature degli ulivi. Cielo teso su tappeti di campanule e carrarecce di asfodeli appena emersi al ciglio delle calanche. Impazienti rosolacci preannunciano vangoghiane macchie di papaveri. Le vene carsiche ridanno linfa ai canneti bradi. Si orchestrano tutti i colori del verde. I gheppi piombano nella stagione della caccia. Dai tetti delle case le rondini salgono a contropicco verso l’alto a roteare vorticosamente come in un folle ballo di Dervisci.
C’è un tepore di profumi nuovi, di voci rinate, nelle corti e nei vichi. Ci sono echi di vecchie canzoni, di dialoghi tra finestre e scalette. Ci sono profondissimi, improvvisi silenzi. A notte, il sonno è più leggero. Le strade respirano aliti di oleandri e bouganvilles rosso-acceso. Piove acqua di luna e il bianco-su-bianco staglia paesi pigramente ondulati fra serre e murge, sinuosamente radicati nelle pianure, saldamente confitti sulle rocce butterate dal mare dirimpettaio.
Esce dal letargo, questa Puglia così lunga da dare sgomento, da dissuadere da ogni tentazione di scoperta. O da invitare alla scoperta lenta, teatro per teatro, dal romanico al barocco, passando per gli scenari trulleschi che fanno da cesura (o da cerniera) fra il nord e il sud. E già a maggio i gialli del grano, i verdi degli ulivi e del tabacco, i neri e bianchi delle vigne spampinate intensificano i colori, li accendono impudicamente al taglio verticale del sole, opponendoli al cobalto del mare.
Rare piogge, ma d’argento vivo, a frastornare le gazze col gracidìo dei ramarri. Nuovi pollini fecondano i giardini. Fremono corpi vitali: odori di pelli reclamano il possesso che prolunga le specie, e la notte concerta miagolii e sibili, squittii e lamenti. In alto inclina una mezzaluna turca.

Solstizio. E cola Africa. Rossa di bauxite, dalle crepe la terra fuma e persino le rocce si fanno più ispide. Nelle vene del fico che dà ombra al pozzo s’addensa il lattice, e il pino cipressato raggruma le foglie. Negli occhi, secoli di scirocco, e il sogno è l’acqua salmastra che uccide lentamente la campagna con enfisemi di cloruro di sodio che preludono al deserto prossimo venturo. Trasudano incenso i pini marittimi, miele i fichi, linfe innocue gli ulivi, succhi velenosi gli oleandri. A notte, lunghe righe di fuochi consumano le ultime stoppie, e il paesaggio si tinge d’inferno. Si rivolterà la terra, la si farà respirare tra solco e solco, la sera, quando l’escursione farà alitare un vento cieco, che va e viene come lo porta il caso.
Tener d’occhio il Pizzo del Diavolo. Se rannuvola e si fa nero, è libecciata, e allora è grandine in agguato, bisogna accendere paglia umida, che alzi al cielo più fumo che può e scongiuri l’uragano. Si suonano allarmi di campane, i segnali sonori seguono i percorsi delle folate da sud-ovest a nord-est, le campagne si animano di sagome scure e di tetri falò. Sacramentano gli uomini. Le donne gracidano giaculatorie e s’asciugano la fronte freddo-madida con fazzoletti a quadri: – Gira il vento, Santo Giorgio, gira il maletempo, portalo al diavolo tentatore, che se lo tenga per tutte le ore –. Scroscia l’acqua e si porta via il sonno.
Fioriscono agavi. Come possano partorire un fiore – carminio, pretenzioso – con questa calura, è mistero glorioso. E intanto il falco pellegrino svetta, fermo, con le ali aperte, a mille metri: «Sta allo Spirito Santo», dicono. Poi cola a picco e a un centimetro dalla preda stramba e artiglia a volo radente. E’ l’arsura che regola le leggi naturali. Il sole è re leone. Liquefano case, sfarinano in sabbia le conchiglie, friniscono orti e palmeti. Le muricce trasudano more e bisce. Gazze decollano a sghembo sugli ombrelli resinosi dei pini d’Aleppo. Il tramonto è di sangue esausto. Spira finalmente la brezza di mare, ma a folate lievi, in cieche sinuosità. La notte brucia stelle e falò. Da orizzonti indefiniti, l’eco di cantilene saracene. E lamenti d’usignolo. Un’alba lattiginosa preannuncia il respiro afoso d’un altro giorno. Il grido di un airone sbandato lacera la prima luce, che gorgoglia già nelle cisterne secche. Tra poco creperanno le melograne.

Una terra imperiale

Tonino Guerra

Illuminiamo la Puglia nel grande magazzino del turismo del mondo perché questa terra non può dare soltanto mare, può dare anche favola, può dare musica, può dare silenzi, può dare storia, può dare memoria a un turista in arrivo.
Illuminiamo la Puglia perché è la prima volta che una regione diventa un unico, immenso luogo di ritrovo di chi può pensare che anche una parte di questo mondo è paradiso. Illuminiamo la Puglia sommersa: la Puglia di Annibale, la Puglia degli incontri di guerra e delle spade insanguinate; la Puglia degli ulivi, con i più antichi patriarchi arborei; la Puglia dei muretti che chiudono i respiri del mondo di favola; la Puglia dei sapori forti di erbe antiche, conditi da oli preziosi e accompagnati da vini antichissimi; la Puglia che vola perché l’aria è piena di sole. Illuminiamo la Puglia delle masserie fortificate e delle tenere controre; la Puglia dei dinosauri che facevano lo struscio sulle Murge; la Puglia dei castelli magici e della costa baciata dal sale; la Puglia dei santi che salutavano i crociati, la Puglia miracolosa che da San Nicola a Padre Pio e all’Arcangelo Michele ha accolto e accoglie la gente in sofferenza; la Puglia delle antiche torri di pietra e delle grotte costiere; la Puglia delle cripte rupestri e dei capolavori prigionieri sottoterra; la Puglia delle necropoli preistoriche con le tombe dei giganti e delle signore delle ambre; la Puglia con le stele daune, i fumetti di 2.500 anni fa e i bagni di archeologia; la Puglia figlia di Diomede, grande fondatore; la Puglia imperiale che stupì Federico II “meraviglia del mondo”, da Castel del Monte all’universo degli uccelli grandi che muovevano e muovono l’aria del Tavoliere con le ali. Illuminiamo la Puglia di sogno che c’era una volta e c’è ancora. A ricordarci che bisogna arrivare nei punti più segreti e selvaggi dove si ha la sensazione di trovare l’infanzia del mondo. E invece trovi te stesso.

Il passo delle aguglie marezza le insenature e increspa con umide spatolate le foglie del fico d’albachiara. Riammorbidisce la terra bruna e sutura le ferite della pelle con le catinelle di Santa Maria delle Grazie. E’ il tempo di scie bavose e di agguati di gechi. I campi spampinano al ritmo del cambio di livrea delle tortore. Un pudico tepore intenerisce le braccia dei corbezzoli, predisponendole a imminenti nudità. E’ il momento di chiudere le corolle delle palme, di potare tralci e geometrie di siepi. Il sole già diafano è tutto per gli ulivi regali, verdi-neri. Remigano in cielo le prime frecce di folaghe migranti, trasvolando senza lasciare ombre. I solchi bevono umori e sibili, luccicano case striate di gerani e bouganvilles impazzite di carminio. Brividi di maestrale ancora non rabido orchestrano movimenti di nuvole meridiane orlate di bambagia: tronfi vascelli a vele barocche, idrauliche cambuse sullo zenith delle colline.
A tratti il pioppo illividisce e sgrana al modo di un crepitacolo di vallonea. Allora donne irsute accostano le imposte e scrutano al confine dell’orto la riga delle zucche gialle maculate. Se sarà grandine non ribolliranno mosti di primitivo e negro-amaro, fermenteranno soltanto risentiti rosari per le dispense desolate, e il pane dei morti sarà meno ricco d’uva passa.
Lo sfracello è rimandato, torna la tramontana che asciuga le ultime corde di tabacco e le nuove camicie delle serpi. Non è raro, a notte, avvistare le strategie alari dei barbagianni o la guardinga curiosità di volpi fulve. Gli albereti si animano di straordinarie presenze: guizzano donnole e faine, sgusciano ricci di terra, emergono da abissi d’argilla singolari ramarri giganti, aprono nuovi solchi i grilli-talpe. I cotogni maturano pomi verdini. Tracciano singolarità sonore gli ultimi merli dalle penne arruffate. Valicano i comignoli sapori di marmellate. Quando il bosco superstite si veste di ruggine l’acqua nelle brocche di rame comincia a rabbrividire e il cielo si fa di madreperla. Le greggi lasciano gli stazzi e vanno al coperto. Fremono i licheni emersi fra le pietre sveve di torri e castelli. Piegati a occidente, gli alberi del vento (ostinato vento grecale) solfeggiano nenie arabe. Le paludi a marea incupiscono l’azzurro. Voci taglienti, ormai senza più inflessioni, misurano la vita all’aria aperta. Le tane sono pronte. Nei cortili, parallelepipedi di ciocchi. Ora il mondo è in una cucina e nel fumo più nero che svicola dai tetti campestri. Il sole scende a vista, dietro cortine sempre più grige. La banderuola di rame in cima alla chiesa barcolla sui punti cardinali, segnando variazioni scomposte, da tramontana a libeccio. Sciabordano per le strade ruscelli piovani.

Cristallizza il cielo. Una bolla di vetro azzurro dagli algidi, fulminei bagliori serra il mondo di erbe e cardi e sempreverdi ricamati da stelline di ghiaccio chimicamente estetizzate. Se proclive al plumbeo, la bolla incupisce il suo gran bozzolo, allora di caldo c’è solo il pane appena sfornato e subito serrato nella madia perché perda più pigramente i vapori e la sua rassicurante morbidezza.
Di tanto in tanto, stecchiti voli di caccia. Su rami osceni, contorti al modo di quelli del Doré, sfagliano al vento nidi deserti. I gufi s’incastonano tra ruderi di terrazze, ronfando dignitosamente. La neve attutisce i rumori della serra. Si amplifica soltanto la sinfonia di gocciolii che alimentano magri ruscelli ai bordi di strade scoscese. Sulle soglie di casa, comari pennute ingannano il letargo chiamandosi da sbavo a sbavo di oleandri e agavi. Il vento ha una sua ferrugigna raucedine che scrosta la corteccia delle parole, le piaga di stillanti nudità. C’è una sottile malinconia in questa fissità della natura pietrificata, eppure viva, e soltanto sospesa oltre la corazza della terra. Nel cui grembo, tuttavia, misteriosi fermenti di grani e radici frugano gli interstizi nei meandri di silice, alla ricerca della luce.

Ciaramelle a nord, tamburelli di pelle d’asino affogato e sonagli a sud. Il presepio ha confini d’arance e zuccheri, laghetti di vetro colorato, pastori e greggi affondati nel muschio e lavandaie in bilico su improbabili greti. Luci oblique e intermittenti occhieggiano dalle dimore sparse fra ciuffi d’alberi estranei, abeti in esilio su calcari mediterranei. S’indovinano camini accesi e poltrone a dondolo. Alla mano di scirocco, case basse con carbonaie e bracieri, e il buon vino anonimo stillato dalle corolle.
Corto e nemico, febbraio è il vero mese dei morti, delle campane dai tocchi lunghi e dagli echi dolorosi fra le piane brinate. Poi si chiude il ciclo naturale. Ritratti gli artigli, il vento rimette in volo i pollini. E’ tempo di mutazioni, di riti del passaggio, di ritmi nuovamente vitali. Se piove ancora, è perché si accendano arcobaleni e prati, germogli e colori, respiri e voci, sospiri e canzoni.
Buona rinascita, vecchio-giovane Mondo!

   
   
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