Marzo 2002

PREGIUDIZI DURI A MORIRE

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Grigioverdi brava gente
Ada Provenzano - Elsa Monaco - Fabrizio Carcano
 
 

 

 

 

 

E giù il cappello
ci piacerebbe sentir dire anche di fronte alle più belle
e tragiche pagine della seconda
guerra mondiale,
di fronte al sangue italiano rappreso sulla neve e sulla sabbia.

 

 

Seicentocinquantamila fanti italiani morti nel primo conflitto mondiale valgono un assessore bolzanino vivo? A quanto pare, la risposta dev’essere negativa. In base a una valutazione del genere, infatti, la giunta di Bolzano (Bozen per una quota di nostalgici dell’Impero delle Due Corone) ha deciso di ribattezzare la piazza grande della città. Sembra sia stato necessario un segno che legasse gli alleati della Svp e ledesse il meno possibile i superstiti (qualche longeva crocerossina carnica, forse), ma soprattutto i viventi-votanti. Ora che il tempo ha cancellato i ragazzi di Vittorio Veneto, la piazza intitolata alla loro Vittoria ha cambiato nome. Si chiamerà Piazza della Pace.
Revisionismo ad usum delphini, è stato scritto. La storia italiana riscritta dalle delibere comunali. Certo è che nel secolo scorso il concetto di pace è stato declinato dal progressismo italiano in modo non sempre limpido, come dopo Monaco o nel quadro del celebre patto Molotov-Ribbentrop, grazie al quale Unione Sovietica e Germania nazista si spartirono la Polonia. Ma le motivazioni del sindaco bolzanino sono (a modo loro) comprensibili. A parte la stabilità politica locale, si trattava di sanare una frattura storica tra italiani e altoatesini (ovvero sudtirolesi), di cui è simbolo l’arco di trionfo eretto dal regime. E la ricomposizione della memoria comune ha messo da parte il sacrificio di contadini e artigiani in divisa soffocati dal gas austriaco nella Conca di Plezzo, o fatti a pezzi dai cannoni (sempre austriaci) sull’Ortigara; e ha trascurato Cadorna, «che tutta nel pugno nudo ha la vittoria», e D’Annunzio che così ne scriveva; e poi Ungaretti, Jahier, Cesare Battisti, i fucilati, i prigionieri, i mutilati, tutti coloro che si batterono coraggiosamente in nome della vittoria, e non della pace. Si poteva tentare un compromesso, ad esempio, su una «pace vittoriosa», (così il tenente Lussu al generale Leone che gli chiedeva perché combattesse). Ma non è sembrato il caso.
Ora, tutti contenti. Chi ha ottenuto una “via Vittime delle foibe”, chi una “via Alexander Langer”, chi spera che siano ripristinate le aquile romane a ponte Drudo. I bolzanini, in realtà, sono al 53 per cento contrari al cambio della toponomastica, in difesa della storia patria. Ma la Svp, incontentabile, chiede che si cambino anche le altre intitolazioni stradali, tutte quelle che raccontano la storia di una nazione che non considerano la loro. Ad esempio, “via Amba Alagi”, che non commemora, però, una vittoria, ma una sconfitta, con centinaia di italiani massacrati. Sempre meno di seicentocinquantamila, tuttavia, e per di più colonialisti. Sicché quella strada si potrebbe intitolare ai ras Maconnen, Alula, Mangascià, che erano a capo dei massacratori.

E’ un’occasione per parlare degli italiani in rapporto alla guerra. «Chi ha ricercato la storia d’Italia senza appagarsi della superficiale e convenzionale cognizione che se ne somministra nelle scuole – scriveva Benedetto Croce nel 1917 – non ignora che una delle tacce più antiche e persistenti, anzi la principale e quasi unica taccia data agli italiani dagli altri popoli d’Europa, e specie dai francesi e dai tedeschi, era quella di “imbelli”».
Il linguaggio crociano suona senza dubbio superato. Chi direbbe più oggi “taccia”, invece di “imputazione”? Anche “imbelle” ci sembra irrimediabilmente desueto. Ma la sostanza della constatazione di Croce rimane straordinariamente attuale: è opinione comune che gli italiani non siano fatti per la guerra; che non la sappiano fare; e che quando ci provano, danno il peggio di sé.
Pur ribellandosi a questa visione, Croce ne rinveniva l’origine molto indietro nel tempo. Esattamente a certe antiche dispute medioevali, quindi alla gioiosa meraviglia con cui nel XV secolo gli eserciti francesi calarono in Italia, senza incontrare alcuna resistenza; e ancora alla fine del Settecento, quando si ebbe la stessa comoda sorpresa sugli italiani imbelli. «Una nazione ben snervata e vile», pare l’abbia giudicata Napoleone, sebbene gli si attribuisca una frase opposta: «Gli italiani saranno un giorno i primi soldati d’Europa».
Un giorno. Mai oggi. Nel frattempo, valeva la regola fissata nel drastico paradosso di Erasmo da Rotterdam: il colmo dell’assurdità è l’italiano bellicoso («Italus bellax»). E tuttavia Croce si ribellava con forza a quella “taccia” destinata a ripresentarsi sotto varie forme fino ai nostri giorni. Fino alla nave che porta i bersaglieri in Libano e non le si apre il portellone, oppure va in avaria; fino al carro armato della classe “Ariete” che nella dimostrazione alle Commissioni Difesa della Camera e del Senato non riesce a sparare un colpo; fino all’indimenticabile ammiraglio Buracchia che, appena giunto in Iraq, confida a un giornalista italiano: «Eh, con un po’ di saggezza questa guerra si sarebbe potuta evitare...»; fino all’incrociatore “Vittorio Veneto” tragicomicamente arenatosi nei bassi fondali del porto di Valona, ex città coloniale italiana, il cui mare avremmo dovuto conoscere a menadito.
E tutto questo per restare a ridenti guerre pacioccone, a innocue figuracce militari, perché, com’è facile immaginare, c’è anche di più e di peggio: la presunta vocazione italiana al giro di valzer, se non al tradimento; l’ipotetica disponibilità alla fuga, alla ritirata confusa e disordinata per portare a casa la pelle, se non proprio alla vigliaccheria. Bene. Don Benedetto concluse quel suo dotto articolo ribaltando le accuse, una per una. E lo inviò al Giornale d’Italia. Si era, come accennato, nel settembre del 1917. I quotidiani avevano tempi di lavorazione molto lunghi, ma quell’articolo non venne pubblicato mai, perché nel frattempo le armate austro-ungariche avevano sfondato a Caporetto. Una rotta entrata addirittura nel linguaggio, oltre che nella memoria. Una catastrofe bellica che sul momento gli Stati Maggiori, con straniante ipocrisia – e anche vanificando i nobili scrupoli di Croce – vollero definire «deficiente resistenza di alcuni reparti».

Antico trauma, ma ben lontano dall’essere ancora superato. Storia trascorsa, ma sempre alimentata in Europa secondo il vecchio detto: «Les italiens ne se battent pas», gli italiani non si battono, come sembra abbia sostenuto una volta il Thiers. Inutilmente si potrebbero menzionare migliaia di atti di valore e di eroismo dei soldati italiani; altrettanto vanamente si potrebbero ricordare il loro valore, lo spirito di adattamento, lo spirito di sacrificio. Invano a quel motto liquidatorio si potrebbe contrapporre ciò che prima e dopo Caporetto scrisse un nemico come l’Arciduca Giuseppe di Absburgo-Lorena: «E gli italiani? Giù il cappello. Lotte selvagge e disperate hanno luogo fra noi e loro, e soltanto la morte parla. Gli italiani vengono all’assalto in masse compatte e subiscono perdite indescrivibili: si fanno macellare in massa, ma pure continuano finché pochi uomini rimangono in piedi». Gli intrepidi Sardi; i Lupi di Toscana; e gli Alpini: «Hut ab vor den Alpini», giù il cappello davanti agli Alpini sul Monte Nero.
E giù il cappello ci piacerebbe sentir dire anche di fronte alle più belle e tragiche pagine della seconda guerra mondiale, al cospetto di valorose sconfitte, di fronte al sangue italiano rappreso sulla neve e sulla sabbia: la carica del “Savoia Cavalleria” in Russia, la straordinaria, leggendaria diremmo, resistenza ad El Alamein, la scelta di Cefalonia. Invece no. Restano impressi nella memoria quasi esclusivamente i pregiudizi: Caporetto e non il Piave; la ritirata delle “Centomila gavette di ghiaccio” e non la violazione del porto di Alessandria d’Egitto.
Vera e falsa al tempo stesso, l’imputazione «quindici volte secolare», come scriveva Croce, sull’inadeguatezza bellica degli italiani continua ad aleggiare come una specie di sortilegio pacifista suo malgrado; qualcosa di complicato che mette in causa un misto di timore e di saggezza, di furbizia e di buon cuore, di consapevolezza dei propri limiti e di ambiguità, di melodramma e di scoppi d’ira.

Dieci anni fa, ai tempi della Guerra del Golfo, il sentimento nazionale anti-guerriero s’incarnò brevemente, ma con indimenticabile intensità, nella vicenda pubblica e privata al tempo stesso di un pilota di cacciabombardiere che, abbattuto alla prima missione, (gli altri aerei erano rientrati per pastrocchi nei rifornimenti in volo), venne fatto prigioniero e debitamente esibito in televisione, tutto pesto. In realtà, i piloti abbattuti erano stati due, ma il maggiore Bellini riuscì a non parlare ed ebbe per questo l’encomio. Così, nel mezzo dello psicodramma, l’attenzione fu tutta per il capitano Cocciolone. Il fantastico cognome di questo pilota sembrava fatto apposta per suscitare ondate di mammismo e di batticuore, con donne in gramaglie e con Emilio Fede che, in versione Liala, intratteneva i parenti, il tutto in un tripudio che non passò inosservato all’estero; tanto più, considerando che l’Italia aveva offerto a “Desert Storm” appena otto caccia della classe “Tornado”, oltre alla nave dell’ammiraglio Buracchia. Oggi può essere considerata secondaria la circostanza che, una volta tornato in patria e accolto con trepidante sollievo come eroe del lieto fine, Cocciolone vendette l’esclusiva delle foto del suo matrimonio. Dopo tutto, era nel suo diritto, e come soldato il suo dovere l’aveva fatto.
Meno secondario è da ritenersi il fatto che quando un giornalista britannico – che in casi come questo non manca mai – fece notare l’esiguità del contributo militare italiano contro Saddam Hussein, l’allora Capo dello Stato, Cossiga, che a quei tempi era molto preso anche da una sottilissima disputa da lui stesso sollevata su chi dovesse comandare in caso di guerra, disse che quel reporter era solo e semplicemente figlio di una buona donna. Il Presidente lo sostenne con un complesso giro di parole, ma la conferma del nervo scoperto risultò in questo modo ancora più evidente. Tanto più che lo stesso Cossiga era diviso al suo interno: come cattolico era contro la guerra; come Capo dello Stato era favorevole. Anche in questo la classe politica italiana sa offrire illustri esempi di indecisione. Senza riandare a Giolitti, il quale, per motivare la sua contrarietà all’intervento nella prima guerra mondiale, spiegò a Salandra che «in Libia si era vinto soltanto quando eravamo dieci contro uno». Frase che poi venne smentita sdegnosamente.
E’ certamente vero che la classe dirigente del Ventennio ebbe meno dubbi di tutti sulle attitudini guerriere dell’Italia e degli italiani. Del resto, la pedagogia degli “Arditi” e dei dannunziani ha finito col rendere il peggior servigio ad ogni superstite orgoglio militare. Non fosse bastata Caporetto, sopraggiunse il trauma dell’otto settembre, anch’esso vissuto con tale violenza da divenire una metafora d’insicurezza caotica, un modo di dire; una pietra nera e pesante che gli stessi italiani si erano posta sulle spalle a suggello della propria insufficienza, e se vogliamo dirla tutta, anche della propria vergogna. E niente, né la Resistenza, né Mignano Montelungo, è stato sufficiente a riscattarci nella considerazione degli stranieri.
Persa la guerra, la si è messa sul conto del Fascismo e di Mussolini: tutta loro, la sconfitta; soltanto loro il tracollo militare e nazionale. Ma questo artificio, questo spostamento in qualche modo terapeutico, (di rimozione e di transfert), questo scambio simbolico, ha fatto sì che gli italiani, nel loro intimo, cominciassero a coltivare una curiosa disistima per le loro stesse virtù guerriere. «Non v’è altro popolo – ha scritto Sergio Romano in un saggio significativamente intitolato Perché gli italiani si disprezzano – in cui l’odio di sé sia radicato e diffuso sino al punto da diventare gioco, vezzo, insopprimibile meccanismo mentale e verbale». Forse anche arte e intrattenimento: si pensi a tanti film, da “Tutti a casa” a “La Grande Guerra”, a “Mediterraneo”, dove i soldati italiani procurano guai, fanno ridere, fanno piangere, fanno l’amore, ma raramente fanno la guerra: anche se, quando la fanno, sanno trasformarsi da macchiette in puri eroi.

Questa latente e persino creativa “auto-denigrazione” (davvero inimmaginabile ai tempi di Benedetto Croce) andava a genio a una classe politica, di matrice per lo più cattolica e marxista; due culture, cioè, per loro natura e vocazione accomunate da sentimenti anti-risorgimentali e comunque pronte a rileggere la storia patria come una sequela di sconfitte, di ribellioni, di repressioni, di date infauste e di carneficine.
Tutto questo, attualmente, non c’è più. Che cosa lo abbia sostituito non è del tutto chiaro. Anche per questo le campagne italiane sotto l’egida dell’Onu restano un’incognita nell’incognita. Non dimenticando che finora, scongiuri a parte, ci è andata bene. Non per niente, cancellata Piazza Vittorio Veneto, rasi al suolo tutti gli eroismi, e le vittorie, ci troviamo al cospetto di uno slargo della Pace.

   
   
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