Marzo 2002

I rotoli di Qumran

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Il segreto
dell’ultima profezia
A. P.
 
 

 

 

 

 

L’enigmatico viaggiatore celeste, dopo avere attraversato le porte di un palazzo, avrebbe contemplato le varie parti del cielo.

 

 

Le profezie di Gesù in un nuovo manoscritto del Mar Morto conservato nel cuore dell’Europa. E’ conservato in un monastero benedettino della Germania meridionale, il leggendario Rotolo dell’Angelo, e a Stephen Pfann, studioso dell’Università della Terra Santa, ne è giunta una trascrizione che viene analizzata per la prima volta. «Come gli altri testi di Qumran – osserva Simone Venturini, direttore della Biblioteca “Pio IX” della Pontificia Università Lateranense – anche il Rotolo dell’Angelo sarebbe stato scoperto da un beduino sulle rive del Mar Morto, ma non nell’area di nord-ovest, bensì in quella di sud-est. Il manoscritto sarebbe stato acquistato in seguito da un monaco benedettino, padre Matheus Gunther, morto nel 1996 e tenuto nascosto fino ad oggi in un convento tedesco ai confini con l’Austria».
I suoi contenuti sono di interesse straordinario e ne potrebbero fare il preziosissimo “anello mancante”, vale a dire la dimostrazione del legame storico tra il Cristianesimo delle origini e la comunità ebraica che ha redatto i misteriosi testi di Qumran. Stephen Pfann, l’unico studioso ad avere esaminato la trascrizione del manoscritto, ne ha fornito un’illuminante descrizione. Il documento parla del viaggio di un certo Yeshua Ben Padiah nel regno celeste, accompagnato da un angelo chiamato Panameia. L’enigmatico viaggiatore celeste, dopo avere attraversato le porte di un palazzo, avrebbe contemplato le varie parti del cielo.
Nel Rotolo dell’Angelo viene poi raccontato il comportamento morale che contraddistingue i figli della luce da quelli delle tenebre, binomio antropologico tipico dei testi principali di Qumran. «Nelle sezioni di testo visionate – precisa il professor Venturini – si descrive anche l’origine di un essere umano nel grembo materno. L’uomo, si legge nel manoscritto, trae origine dall’unione di due semi, quello maschile e quello femminile, ciascuno fornendo le proprie informazioni alla conoscenza (oggi noi diremmo codice genetico) della combinazione che produce l’essere umano». In alcune parti, si racconta come Dio creò il mondo, e sono elencate le proprietà curative di alcune erbe.
Nel documento si riscontrano concezioni teologiche e filosofiche che fanno venire alla mente altri manoscritti di Qumran, e, in molti casi, il Nuovo Testamento. L’autenticità del Rotolo e la sua datazione (probabilmente ci troviamo di fronte a un testo del primo secolo dopo Cristo) non potranno essere del tutto confermate fino a che non si potrà prendere in esame il testo reale (oppure le fotografie) e non le sue trascrizioni. Se però fosse autentico e così antico, esso rivestirebbe un’immensa importanza per far luce sull’ambiente storico e sul contesto culturale in cui nacque il Cristianesimo. L’attesa per la pubblicazione del testo integrale è dunque enorme e comprensibile, e si spera che sia realizzata quanto prima possibile. Potrebbe trattarsi davvero della scoperta archeologica del secolo.
Se si trattasse di un falso, sarebbe stato confezionato da una persona con un’eccellente conoscenza del linguaggio e dei temi di Qumran. I dati paleografici, ovverosia il tipo di grafia ebraica, ricavati da chi ha analizzato il Rotolo dell’Angelo, lo fanno risalire al primo secolo della nostra èra. Questa datazione è stata confermata dall’analisi della pergamena al carbonio radioattivo. Se si seguisse l’ipotesi del falso, secondo Venturini dovremmo affermare che l’autore ha una conoscenza dell’ebraico e dei temi di Qumram fuori del comune, e che aveva a disposizione una cospicua quantità di pergamene non scritte, antiche di duemila anni. E ciò appare altamente improbabile.

Un Dio per amico

L’inatteso Messia

Un umanissimo dubbio, una domanda angosciata. Giovanni il Battista non aveva avuto incertezze nell’indicare il Gesù di Nazareth come «colui che deve venire», cioè il Messia. Poi, dal buio del carcere nella fortezza di Macheronte, dov’era stato gettato su istigazione di Erodiade, manda alcuni suoi discepoli da Gesù per chiedergli: – Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo attenderne un altro?
Che cos’era successo? Che il Nazareno aveva sconvolto le sue previsioni: invece di annunciare con parole tremende – com’egli stesso faceva – il giudizio di Dio a cui sottrarsi con la conversione per sperare nella salvezza, Gesù aveva cominciato con la misericordia. Non era affatto quel Messia vendicatore di Dio, di cui era stato precursore.

Gesù conferma il ribaltamento di prospettiva. Assicura di essere il Cristo facendo parlare i fatti. Chiede ai discepoli del Battista di andare a riferire quello che vedono e odono: dunque, segni visibili e tangibili. Si tratta di sei prodigi della regale misericordia di Dio: per ciechi, zoppi, lebbrosi, sordi, morti e poveri. E, per ultimo, il segno decisivo: – Beato chi non si scandalizza di me!
L’avvento di questo Cristo sorprende, quindi, anche il suo precursore, che pure gli aveva preparato bene la strada. E’ un ribaltamento di prospettive. Anche il Battista ha dovuto rivedere la sua aspettativa. Dio viene con sorpresa, inatteso nei tempi e nei modi. E se Giovanni, ormai prossimo al martirio, è «più che un profeta», esaltato come «il più grande dei nati da donna», posto quindi come sigillo dell’Antico Testamento, «tuttavia, il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui». Duplice lezione: cercare Dio, ma non pretenderlo a nostra misura; leggiamo i segni della sua presenza, perché se non sappiamo scorgerli evidentemente non siamo sulla sua lunghezza d’onda.

 

Un Dio per amico

Il senso della fede


Nelle drammatiche sequenze di questi ultimi anni, la parola “fede” è stata associata alle esperienze più diverse, persino a quelle più folli. Si è parlato di guerra di religione, di fedi in conflitto. Si è voluto sapere di più sull’Islam. Perciò, forse, non è inutile ripensare a che cosa significhi credere anche per il cristiano, erede e testimone della fede che ha segnato di sé il destino dell’Occidente e di gran parte del mondo. Due parole del Messia possono guidarci in questo cammino: «Gli dissero gli apostoli: – Aumenta la nostra fede! Il Signore rispose: – Se aveste fede quanto un granello di senapa, potreste dire a questo gelso: sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe, potreste dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterebbe». Nessun gelso ci ha ascoltati, nessuna montagna si è spostata.
Dov’è, allora, sulla terra, la fede di cui ha parlato il Messia? E’ forse nel dolore straziante delle vittime e dei sopravvissuti del terrorismo e delle guerre? E’ nel grido inarticolato di chi resta schiacciato dall’ingiustizia e dalla violenza dei suoi simili? Perché il silenzio di Dio davanti al dolore del mondo? Debolezza della fede o indifferenza divina? Durezza del cuore umano o del cuore di Dio? Perché questa assenza di segni? Le domande potrebbero continuare, facendosi eco della fatica di credere che pesa su molti cuori sfidati dalle tante repliche negative della storia del mondo e della vita personale all’audacia della fede.
Sono queste domande, però, a consentirci di dire che cosa è e che cosa non è, per il cristiano, la fede. Credere non è, anzitutto, assentire a una tesi chiara, evidente, a un progetto privo di incognite e di conflitti: non si crede a qualcosa, che si possa possedere e gestire a propria garanzia e piacimento. Credere è fidarsi di “qualcuno”, assentire alla chiamata dello “straniero” che invita, rimettere la propria vita nelle mani di un “altro”, perché sia lui ad esserne l’unico, e vero Signore. Una suggestiva etimologia medioevale legge “credere” come “cor dare”, dare il cuore: crede chi si lascia far prigioniero dell’invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da Lui nell’ascolto obbediente e nella docilità più profonda del cuore. Fede non è possesso, garanzia, sicurezza; è resa, consegna, abbandono. Credere, perciò, non è evitare lo scandalo, fuggire il rischio, avanzare nella serena luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi; chi crede cammina nella notte, pellegrino verso la luce. La sua è una conoscenza nella penombra della sera, non ancora un conoscere nello splendore della visione. «Credere – afferma Kierkegaard – significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una Voce che grida: Gettati, ti prenderò fra le mie braccia!». Ed è sull’orlo di quell’abisso che si affacciano le domande inquietanti: se invece di braccia accoglienti ci fossero solo rocce laceranti? E se oltre la siepe non ci fosse nient’altro che il buio del nulla? Credere è resistere e sopportare sotto il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile Amante che chiama. E allora credere è un perdere tutto? E’ non avere più sicurezza, né discendenza, né patria? E’ un rinunciare a ogni segno e ad ogni sogno di miracolo? Rispondere sì a queste domande sarebbe cadere nella seduzione opposta a quella di chi cerca segni ad ogni costo; sarebbe un dimenticare la tenerezza e la misericordia di Dio; sarebbe persino un rischiare il buio della ragione, proprio di ogni fondamentalismo. C’è sempre un Tabor per rischiarare il cammino: un segno ci è stato dato con la Resurrezione, viatico ai pellegrini, conforto agli incerti, strada agli smarriti.
Testimoniare la fede non è dare risposte già pronte; è contagiare la pace; accettare l’invito non è risolvere tutte le oscure domande, ma portarle all’Altro e insieme con l’Altro. Il credente resta per tutto il tempo dei suoi giorni nient’altro che un povero ateo che si sforza sempre di nuovo di cominciare a credere. E proprio così la sua fede può essere umile e vera, audacia di un possibile, impossibile amore: impossibile all’uomo, possibile a partire da Dio, come grida la silenziosa eloquenza di un Francesco, di una Teresa di Calcutta, di un Martino che divide il mantello...

Da parecchi anni, studiosi di tutto il mondo sostenevano che, da qualche parte in Europa si trovasse un manoscritto del tutto simile a quelli del Mar Morto. Poco prima di morire, padre Matheus Gunther volle rivelare il suo segreto ad un amico israeliano, il quale, senza informare la comunità scientifica, ne starebbe curando la pubblicazione. Se dovesse rivelarsi veramente autentico, il Rotolo dell’Angelo avrebbe una rilevanza assoluta anche sotto il profilo della storicità dei Vangeli, per la consapevolezza dell’unicità del messaggio di Gesù.

Da quello che già conosciamo del nuovo testo del Mar Morto, emergono pure dei paralleli con i Vangeli sinottici: «Il manoscritto, a quanto pare – sostiene Venturini – contiene fra l’altro una sezione profetica che preannuncia l’assedio di Gerusalemme e del suo Tempio, insieme alle sofferenze dei giusti. Anche Gesù parla dell’assedio della città e della distruzione del Tempio. Se l’autenticità e la datazione del Rotolo dell’Angelo venissero confermate sulla base di un esame diretto e accurato del manoscritto, allora si potrebbe pensare che le profezie di Gesù sullo stesso argomento riportate dai sinottici (Marco, capitolo 13, versetti 1 e seguenti; Matteo, capitolo 24, versetti 1-3; Luca, capitolo 21, versetti 5-7) siano ben più radicate nel mondo giudaico di quanto si pensi e non siano semplicemente delle riflessioni delle comunità giudaico-cristiane compiute dopo l’accadimento di quei drammatici eventi».
Del resto, anche gli altri manoscritti del Mar Morto, quelli la cui autenticità e
antichità sono riconosciute da tutti, non fanno che confermare indirettamente dati fondamentali della fede cristiana, quali l’identità umana e divina di Gesù di Nazareth, la straordinarietà di ciò che Cristo fece e insegnò, le caratteristiche fondanti della comunità che egli creò. Sono realtà pienamente evidenti nei Vangeli sinottici letti e interpretati alla luce dei manoscritti di Qumran.
All’École Biblique di Gerusalemme sono convinti che la vita della primitiva comunità di cristiani sia molto più comprensibile se la si interpreta tenendo conto dei manoscritti di Qumran, trovati mezzo secolo fa negli antri incombenti sul Mar Morto. A questi antichissimi testi, quindi, sta per essere aggiunto il misterioso, quanto affascinante, Rotolo dell’Angelo.
Naturalmente, il dibattito è aperto a tutto campo. Compreso il terreno del confronto con altri testi, meno noti ai più, ma ben conosciuti dagli studiosi. Qualcuno dei quali si stupisce dello stupore, e sostiene che ancor di più «stupisce la volontà di stupire». Giochi di parole a parte, il discorso è questo: da decenni è ormai noto che i manoscritti del Mar Morto contribuiscono in modo decisivo a comprendere meglio il Nuovo Testamento e a precisare il quadro culturale e teologico del giudaismo fino al 70, vale a dire il periodo in cui hanno vissuto Gesù (morto intorno al 30 della nostra èra) e i suoi discepoli, e in cui si sono formate le tradizioni poi confluite nella redazione degli scritti neotestamentari.
Sono praticamente innumerevoli i passi, le frasi e i concetti del Nuovo Testamento che possono trovare paralleli o somiglianze e comunque ricevere illuminazione da testi provenienti dalle grotte di Qumran. Del resto, la più recente ricerca sul Gesù storico si orienta nell’individuazione dell’ebraicità del Cristo: Gesù era un ebreo della prima metà dell’èra volgare. Questo obbliga a conoscere “i giudaismi” del tempo e le testimonianze letterarie che ci hanno lasciato. Allora, accanto ai manoscritti del Mar Morto occorre mettere i cosiddetti “apocrifi dell’AT”, anch’essi importantissimi per comprendere la figura di Gesù; né si può tralasciare la testimonianza della Mishnah che, seppure redatta più tardi (nel 200 dopo Cristo), contiene tradizioni molto più antiche.

E’ certamente ipotizzabile che la formazione culturale di Gesù abbia risentito in maniera importante di un ambiente essenico, ma sono significative anche le distanze e le differenze che separano Gesù dal mondo teologico e culturale che possiamo conoscere a partire dai testi qumranici. L’idea che il Cristianesimo sia stato un «essenismo che ha avuto successo» (come aveva sostenuto Ernest Renan) è stata riconosciuta come semplicistica. Il problema, allora, non è tanto quello di entusiasmarsi al sapere che in un inedito testo qumranico, forse databile al primo secolo dopo Cristo, sono contenute la narrazione di un’ascesa al cielo (secondo il diffusissimo modello apocalittico attestato in molti Apocrifi dell’AT) di un personaggio sconosciuto e una profezia della distruzione di Gerusalemme (analoga a quella pronunciata da Gesù, secondo i Vangeli sinottici).
Già Geremia aveva profetizzato contro il Tempio (Geremia, 7) e prima di lui, a testimoniare una vera e propria tradizione profetica, anche Michea (Geremia 26, 17-19; Michea 3, 12), e dopo di lui un certo galileo, Yeshua (Gesù) ben Anania, martirizzato per aver predicato contro il Tempio nel 62 dopo Cristo. La ricerca storica si nutre di prudenza, non di sensazionalismo. Pertanto, è giusto attendere pazientemente l’esame diretto del frammento che, se falso, (cosa che sembra abbastanza improbabile) non inciderebbe più di tanto sulla fede e sulle stesse redazioni evangeliche.

Anche perché sono state riscontrate già notevoli analogie tra i testi qumranici e i libri neotestamentari, in modo particolare nel noto frammento 7Q5.
Resta il fascino della scoperta. E resta la speranza di ritrovare altre pergamene fra le colline e le grotte grigiochiare che sovrastano il mare senza vita che si allarga in una delle più profonde depressioni del mondo, nella sorprendente terra di Palestina. Scoperte occasionali o ricerche portate avanti con metodo scientifico che siano, in un’area che sulla spina dorsale di una strada di terra battuta fa intravedere un convento incastonato nella roccia, da una parte, e le rovine della “cittadella” degli Esseni, dall’altra, col miracolo delle canalette che un giorno vi portavano l’acqua e facevano fiorire il deserto di Giuda, è certo che altro materiale archeologico potrebbe emergere, oltre le undici grotte conosciute e frugate; se è vero, come sembra vero, che il frammento emerso nel convento tedesco era stato rinvenuto in direzione diametralmente opposta rispetto a quella degli altri frammenti (questi a nord-ovest, quello a sud-est), non è improbabile che le indagini vengano svolte in recinti e in perimetri diversi da quelli tradizionali. Forse è solo questione di tempo, e di stabilità della regione, oggi coinvolta in vicende politiche e di guerriglia che non consentono alcuna attività, compresa quella del turismo. E figuriamoci se sia possibile impiantarvi cantieri per gli scavi.
Sempre tenendo conto del fatto che per i cristiani i frammenti hanno, sicuramente, valore di conferma dei testi evangelici, ma non è che siano più rilevanti di tanto. Nel senso che il valore più alto era e resta quello della fede, la stessa che ebbero i discepoli e le pie donne che, di fronte al sepolcro vuoto, da un Angelo ebbero l’annuncio: «E’ risorto. Non è qui». E credettero.

   
   
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