Marzo 2002

IL CORSIVO

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Il fuso orario
del pantano
Aldo Bello
 
 

 

 

 

 

Da quel momento,
il problema Sud
sarà a totale carico
dell’Italia che potrà continuare
a tirarselo dietro
come un gatto morto o abbandonarlo alla deriva dualistica.

 

 

A raccontarlo è stato il Governatore della Banca d’Italia: c’è stato un momento in cui l’Europa stava per andare in baracca. Accadde nella «drammatica notte tra il 24 e il 25 marzo 1998», durante una riunione dell’Ime, alla fine della quale si doveva stilare il rapporto tecnico per l’ammissione alla moneta unica. Antonio Fazio ha rivelato che fu costretto a far balenare l’idea che se l’Italia non fosse stata accolta nel gruppo di testa dell’Euroclub avrebbe potuto anche uscire dallo Sme, mettendo in crisi l’intero progetto. Per evitare il fallimento dell’accordo, Governatori e ministri delle Finanze e del Tesoro fecero un passo indietro, ritirando i veti sull’ingresso dell’Italia. Da parte sua, per scongiurare la bocciatura, Fazio promise agli altri banchieri centrali che Roma avrebbe mantenuto un avanzo di parte corrente, per far fronte a una riduzione concreta e visibile del debito pubblico.

E’ un frammento di verità storica molto importante, che in qualche modo si collega alla questione del mandato di cattura europeo, nel nome del quale l’Italia ha minacciato per la seconda volta di farsi da parte dal concerto europeo, se non fosse stata accolta la richiesta della certificazione di autenticità degli atti rogatori, in sostituzione delle pure e semplici fotocopie, e della verifica da parte di un giudice delle indagini preliminari europeo degli indizi e degli elementi di colpevolezza ipotizzati da un pubblico ministero, a tutela delle garanzie di difesa dell’imputato. Richiesta legittima, al di là di veri o presunti “giacobinismi giudiziari” attivi nel Continente, e momento di chiarezza non soltanto formale, in scacco al moloch di Bruxelles che si regge su un coacervo di leggi che occupano già, poco più o poco meno, qualcosa come ottantamila pagine.
Si potrebbe parlare di prove tecniche di voce alzata da un’Italia che “s’è desta”, dopo essere stata per troppo tempo europea in stato di necessità e omologa per complesso d’inferiorità, quasi annullando quanto avevano creato le generazioni dei De Gasperi, dei Martino, degli Altiero Spinelli. Ed era ora che il nostro Paese, bistrattato da una politica non proprio nobile, da un’economia familistica, da un’antropologia culturale e morale ipocritamente ecumenica, prendesse posizioni esplicite, anche per rintuzzare le campagne ormai insopportabili che leader e giornalisti stranieri (compresi alcuni beoti corrispondenti da Roma, abituali lettori di quotidiani di provincia e riassuntori di gossip in voga nei salotti e cenacoli della capitale) portano avanti con la determinata volontà di inchiodare l’Italia in una sorta di serie cadetta europea e di lasciarla ai margini degli “assi” Parigi-Berlino, o Berlino-Londra, o perfino Bruxelles-Parigi.
Mai, infatti, come da qualche tempo a questa parte, l’Italia è stata citata con tanta frequenza dai quotidiani occidentali, dall’americano Wall Street Journal al tedesco Bild Zeitung, al francese Le Monde, al britannico Economist, allo spagnolo El Pais. Ovviamente, per parlarne con sufficienza. Dopotutto, l’Italia è il centro del Cattolicesimo, e il Cattolicesimo – com’è stato notato – è ad un tempo una componente troppo interiore e troppo irritante dell’eredità politica anglosassone (e per certi versi anche neolatina) perché negli Stati Uniti sia dimenticato lo sbarco dei Padri Pellegrini, nocciolo nucleare del fondamentalismo, o ci si scordi nel Regno Unito dei giorni di Maria Tudor e del Complotto delle Polveri, o si riconosca in Germania che gli inquisitori luterani mandarono al rogo più innocenti di quanti ne condannarono insieme Torquemada e Roberto Bellarmino, o ci si vergogni in Francia del genocidio in Vandea.
Molto probabilmente, ora politici e giornalisti europei non possono far finta che niente sia cambiato in Italia. Intanto, non dovrebbero più aver materia prima per attaccare il Bel Paese come prodotto del capitalista vilain di Arcore, perché l’Italia non è un suo prodotto, è lui stesso il prodotto della politica dell’Italia. E non saranno più credibili se insisteranno su una Roma europeista distratta e clientelare, dal momento che a Bruxelles, a Francoforte e a Strasburgo non manda più autisti, portinai e donne delle pulizie, ma cervelli come Mario Monti e Tommaso Padoa Schioppa. E perché è vero che l’Europa è la nostra cultura e il nostro territorio storico, ma l’Unione europea non rappresenta la nostra legittimazione di persone e di popolo. E oltre tutto: dove si possa arrivare senza l’Italia, nessuno può dirlo. Non è pura astrazione, però, presumere che un’Europa monca, anche se butterà alle ortiche le tante maschere e i mille tabù con i quali continua a convivere, condannandosi alla mediocrità, possa finire su un binario morto.
«Nata e cresciuta nella crisi, nella crisi l’Europa può naufragare»: così dice l’appello che la seconda generazione dei Padri europei (quella dei Kohl e Schmidt, di Andreotti e Barre, di Rocard, di Gonzales, di Jenkins) ha lanciato ai capi dell’Ue. Che è come ammettere: quest’Europa è malata. Lo è da quando la storia del mondo ha cominciato a correre a velocità supersonica e a mutare natura. Lo è dall’89, quando andò a pezzi l’ordine costituito nel ‘45 e i Paesi dell’Est continentale si liberarono. Lo è ancora di più dopo le Twin Towers, con la data di nascita del geoterrorismo. Da quel momento l’Europa ha perso ogni nozione del tempo e dello spazio. Euro o no, Costituzione continentale o no, di fronte a un mondo che si disorganizza modificando se stesso e le proprie finalità e vocazioni, l’Europa continua a contemplare la propria sconnessione e immobilità come se nulla di tragico sia avvenuto. Eppure, dopo i capitoli – in gran parte occulti – della Guerra Fredda, gli eventi mondiali hanno cominciato a divenire più visibili e rapidi: per tenerne il passo, occorreva moltiplicare il ritmo della nostra andatura. Così come era necessario allargare la prospettiva dell’orizzonte, perché dopo che l’economia e la finanza erano state all’avanguardia nel pilotare la globalizzazione, le loro funzioni e capacità sono diventate strumento condiviso con le forze del terrore, più veloci ed efficaci delle élites politiche legali, dedite alla costruzione di un ordine mondiale, e non al suo disfacimento.

A questa sfida l’Europa finora non ha saputo replicare, e il suo affaccendarsi attorno a leadership, ad esclusione, ad emarginazioni è terribilmente antitetico alla duplice rivoluzione moderna del tempo e dello spazio: il mutare del tempo la lascia inspiegabilmente indifferente, come la concezione spaziale dei pericoli. Credo che tutto questo accada perché è venuta meno la politica. E non avendo una politica, gli europei fanno fatica a trovare i mezzi. Non possiedono la prima perché non intendono meditarla e riscriverla. E non trovano gli strumenti perché sono convinti che con questi possono risolvere tutto e che la politica viene dopo. Jean Monnet sosteneva che è necessario individuare un interesse comune e organizzarlo. Gli europei non sanno mettere in campo esattamente quell’interesse, e le remore e inerzie che li affliggono riconducono inesorabilmente agli egoismi nazionali, inespressi ma carsicamente corrosivi, che fanno balenare il sospetto di memorie in qualche modo umiliate e in qualche altro modo rivendicatrici: della Germania che ha perso due guerre mondiali e che cerca col marco (o con la supremazia del marco nell’euro) una rivincita che non conseguì sui fronti del secondo conflitto con i panzer; del Regno Unito e della Francia, cui gli americani fecero al tempo stesso vincere la guerra e perdere gli Imperi.
Cambiare o perire: forse mai come oggi il dilemma brucia sulla pelle e costringe quest’Europa torpida a venire allo scoperto e a chiudere con le tattiche dilatorie, per riorganizzare le categorie politiche e culturali dell’architettura continentale. Perché non potrà vivacchiare in eterno nel vuoto del suo pallido Limbo, con l’affacciarsi sulla scena internazionale di vecchi e nuovi protagonisti, come la Russia, la Cina e l’India, accanto agli Stati Uniti.
In ultima analisi, è lecito polemizzare con il presente in rotta di collisione con la realtà, ed è vacuo esercizio processare il futuro. L’Europa deve mettersi alla ricerca del suo filo d’Arianna, proprio per non smarrire il suo e nostro futuro. Per non naufragare in una crisi che non sa più fecondare.

Per i fatti di casa nostra, pur inquadrati nel contesto di quest’Europa, si deve guardare avanti, ma come guidando con lo sguardo attento allo specchietto retrovisore: perché, senza eccedere in retorica, si tratta di delineare la necessità di una rivoluzione di tutte le rivoluzioni (se mai realmente ce ne sono state) italiane, e quindi la più difficile da comprendere, da far propria, da realizzare. Per questo motivo si deve ragionare su alcuni segmenti nobili della storia delle ideologie, quali vennero configurandosi fino a quell’anno di snodo che fu, per noi, il 1948.
Nel 1919-20 Gobetti fu affascinato dal movimento dei consigli di fabbrica ideato e organizzato da Gramsci: gli appariva «l’unica realtà ideale e religiosa d’Italia», «il primo movimento laico» della penisola, «la libertà che s’instaura». Allo stesso modo, Gobetti inneggiò alla rivoluzione bolscevica, nella quale vide una grande rivoluzione “liberale”, fino a ravvisare in Lenin e Trotzky due campioni del liberalismo del Novecento. Inoltre, una volta che il fascismo aveva trionfato, Gobetti guardò al «movimento operaio» come «alla sola forza» capace di opporsi ad esso con inesorabile intransigenza. Infine, al pari di Gramsci, pensava che il Risorgimento fosse stato una rivoluzione fallita, perché aveva lasciato intatto l’assetto economico e sociale della penisola e non era riuscito a creare nel popolo un’autentica coscienza nazionale. Queste idee gobettiane, largamente affini a quelle di Gramsci, ebbero ampio corso nel Partito d’Azione (nato nel ‘43), e continuarono ad operare nella mente di tanti azionisti anche quando (nel ‘46) quel partito si era dissolto.
Un caso molto istruttivo è quello di Norberto Bobbio, il quale, in un celebre confronto con Togliatti in cui il filosofo torinese difendeva alcuni princìpi del liberalismo, affermava tuttavia che gli Stati del blocco sovietico avevano «effettivamente iniziato una nuova fase di progresso civile in Paesi politicamente arretrati», introducendovi elementi e istituti di democrazia formale e sostanziale. In queste affermazioni dell’azionista Bobbio si avvertiva lo spirito del pensiero gramsciano-gobettiano, che ritroveremo molto più tardi, ad esempio, in Augusto Monti, per il quale la lunga marcia di Mao era l’espressione più evidente del liberalismo del XX secolo, o in Franco Antonicelli, che concluse la sua carriera di “liberal” nell’operaismo antisistema, o in Ferruccio Parri, che vide nella contestazione studentesca una manifestazione di «rivoluzione liberale».

Dopo il secondo conflitto mondiale, sugli schemi azionisti e sulla spinta del “Vento del Nord” si innestò l’istanza proletaria delle masse meridionali (“Pane e lavoro”, “La terra ai contadini”) gestita dal Pci; e immediatamente dopo il ‘48 intervenne, nel nome della dottrina sociale, l’azione dei cattolici, che portò in fasi successive alla riforma agraria e all’intervento straordinario nel Sud. La distribuzione di quote del latifondo meridionale (più volta a far calare la febbre nelle campagne, che a far guarire dalla febbre) fallì presto lo scopo, perché gli assegnatari, eradicati dalle comunità sodali, e isolati su minifundi senza acqua, energia rurale, strade o meccanizzazione, vendettero alla svelta porte e finestre, impacchettarono pane e companatico, e se ne andarono a popolare le orrende periferie di Torino e di Milano, e poi quelle meno indecenti delle metropoli svizzere, tedesche e francesi, alla ricerca di un salario.
Sopravvisse la Cassa per il Mezzogiorno, che tramontò insieme con gli anni Ottanta. E tuttavia, dopo tre decenni abbondanti, la “questione” del Sud, che aveva improntato il pensiero di schiere di intellettuali e di politici d’ogni formazione ideologica, rimase in piedi. L’intervento speciale dello Stato, ritenuto di volta in volta asfittico, dispersivo, organico agli interessi del Nord o alle clientele del Mezzogiorno, rientrò nel quadro delle normali politiche regionali italiane e, poco dopo, in quello del sostegno europeo a progetti di sviluppo per le aree arretrate. Sull’idea azionista, marxiana, cattolica, proiettata nelle latitudini meridionali, scese una pietra tombale, che un’impostura dei nostri giorni intitola all’ideologia “liberista e liberale”.

Ho ricordato tutto questo perché oggi si ripropongono alcune domande decisive per il Sud: Che fare? In che direzione muoversi, nel momento in cui la storia si velocizza, e l’Italia e l’Europa sembrano prigioniere di un fuso orario da pantano?
Quale background prendere in considerazione, se la lezione storica del passato non è più valida, e se molti intellettuali meridionali, sempre più grandi spiriti solitari, sempre più spiriti delusi, si sono come autoesiliati, disprezzando questi tempi di spregiudicato rampantismo e di speculare caduta di valori che non sono di oggi o di ieri, ma di ogni epoca e latitudine?
La questione del Sud deve cambiar traiettoria, lasciare il cono d’ombra in cui è stata messa a marcire e aggiornarsi nella determinazione politica e negli orientamenti operativi, per potersi imporre. La questione italiana, nel contesto europeo, deve mettere in moto la duplice rivoluzione della velocità e dello spazio, altrimenti il Paese finirà fatalmente nella serie cadetta continentale.
C’è un esempio cui ispirarsi per conseguire simultaneamente i due obiettivi? C’è, è visibile, ma reclama il coraggio di muovere in direzioni precise.
Il futuro europeo dell’Italia non si gioca sul solo territorio dei Quindici. E non c’è da illudersi più di tanto, se i Quindici diventeranno molti di più nel momento in cui includeranno tutti i Paesi, Russia compresa, che sono geo-storicamente parte integrante del Vecchio Continente. Nell’Est europeo e nei Balcani ci sono arrivati da gran tempo i tedeschi: le banche, i capitali, le imprese della Germania hanno lasciato agli altri, anche ai più intraprendenti investitori francesi e italiani, pochi margini di manovra. Così Berlino ha risolto nel breve spazio di un mattino due problemi cruciali: ha recuperato sotto il profilo socio-economico l’ex Repubblica democratica tedesca, trasformandola in una testa di ponte pacificamente aggressiva verso l’Est e il Sud europei; e ha mantenuto il primato produttivo e finanziario in seno all’Ue. Dunque, è stata l’ex Germania povera, arretrata, per non dire disastrata, ma intellettualmente vivace e creativa, a realizzare le piste di decollo necessarie all’espansione dell’area del marco-euro, consentendo all’intero Paese di rivendicare una leadership in campo continenta

In questo senso, l’Italia sarà quel che sarà il suo Sud. Va ricordato che dal 2006 le regioni meridionali (tranne forse la Calabria) non otterranno più incentivi europei, perché i parametri socio-economici del Mezzogiorno saranno superiori a quelli di un gran numero di aree depresse dell’Est europeo: da quel momento, il problema Sud sarà a totale carico dell’Italia che, centralistica o federata o confederata che voglia essere, potrà continuare a tirarselo dietro come un gatto morto o abbandonarlo alla deriva dualistica, avvalorando così l’ipotesi che quella del divario fra le “due Italie”, lungi dall’essere una fatalità, è stata una spregevole scelta politica.
In alternativa ci sono, di fronte a noi, cinque anni per risolvere esaustivamente il problema Sud, che si identificherà subito con il problema dell’Italia nel contesto europeo. Tempo scarso, col ritmo che ci impone l’attuale fuso orario. Tempo più che ragionevole, se sarà attuata la rivoluzione di cui si è detto.
E per lo spazio? Si allarga nel Mediterraneo, antico centro del mondo e futuro centro di espansione economica e culturale. Il Vicino Oriente e l’Africa del Nord stabili possono essere per la lira-euro l’equivalente dell’Europa aggregata dal marco-euro. I segnali di apertura venuti dalla Giordania, dalla Siria, dal Libano, dallo stesso Iran e dall’intera fascia nord-africana, Libia compresa, sono stati e restano espliciti. E poiché, per posizione geografica e per tradizione consolidata, il Sud ha sempre intrattenuto rapporti diretti con queste aree, impegnarsi a trasformare le carovaniere in pista di decollo può essere un progetto percorribile e risolutore. Il campo del lavoro è sterminato, intrigante, impegnativo.
Utopia, si potrà obiettare. E quale utopia non è, a suo modo, potenzialmente possibile? Ci stanno riducendo il territorio della fantasia. Ragioni di clima (nel senso di atmosfera) e di antropologie culturali diverse non sono ritenute motivo di ricchezza, ma di esclusione. Qualcuno vorrà vietarci anche le escursioni sui sentieri delle sfide?

   
   
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