Marzo 2002

SUD E CRISI MONDIALE

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Tempi di scelte
Roberto De Carlo
 
 

 

 

 

 

Da parte delle
regioni meridionali
è necessario attivare centri di
progettazione in
grado di attrarre
finanziamenti
europei,
per favorire sviluppo e occupazione.

 

 

Di Sviluppo Italia, l’agenzia che si interessa dei problemi del Mezzogiorno, giungono in via intermittente solo flebili echi. Che cosa stia accadendo non è dato saperlo con certezza. Non è che la questione (non in senso tradizionale, ma come complesso di problemi strutturali e di sviluppo socio-economico al passo con i tempi) sia stata proprio rimossa. Resta sullo sfondo, in un orizzonte indistinto, fumoso, che la scomparsa dalla scena politica di forze intellettuali e critiche impegnate non contribuisce a rendere più chiaro. Sicuramente, si era chiuso un ciclo, quello del grande dibattito politico ed etico sul “recupero” del Mezzogiorno. Buona parte del Sud è stata (e si è autonomamente) recuperata. Ma che dal contesto del confronto economico nazionale la voce del Mezzogiorno sia stata praticamente cancellata, non è dato positivo. E la stessa azione del governo in materia di sviluppo territoriale suscita non poche perplessità.

1) L’insieme delle misure prese fino a questo momento non sembra particolarmente orientato allo sfruttamento delle risorse inutilizzate esistenti nelle aree deboli, unica strategia che potrebbe consentire all’intero Paese di crescere stabilmente, a tassi più alti rispetto a quelli del decennio trascorso.

2) La principale misura, la cosiddetta Tremonti-bis, non essendo stata progettata cumulabile con il credito d’imposta, determina una riduzione del differenziale di incentivazione all’interno del Paese, sfavorendo in questo modo, a parità di altre condizioni, come è stato dimostrato nelle analisi tecniche, gli investimenti nelle aree sfavorite.

3) Le misure sul sommerso, pur avendo aspetti positivi, danno luogo a dubbi, sia relativi alla loro effettiva attuazione, sia, più gravi, relativi ai loro effetti strutturali. In così poco tempo sarà vera emersione, oppure le imprese torneranno nel sommerso non appena saranno finiti i benefici? Questi processi non rischiano paradossalmente di penalizzare proprio l’imprenditoria più sana, come è stato messo in luce a più riprese, ad esempio in materia di normative ambientali e simili?

4) Molti esponenti del governo hanno dichiarato terminata l’esperienza della programmazione negoziata, colpita da un giudizio negativo a tutto campo. Ciò che si sa di quello che è successo con i patti territoriali non avalla queste valutazioni: il dato fondamentale è la grande diversità delle esperienze (purtroppo, invece, tutte ugualmente finanziate, con un errore carico di conseguenze, dal governo precedente). Questo dovrebbe portare a far tesoro dell’esperienza e ad innovare la legislazione, e non a cancellarla del tutto. Dubbi assai minori suscita invece la fine dei contratti d’area.
5) La “governance” delle politiche è incerta. Le deleghe per il Mezzogiorno sono state conferite solo da qualche mese, e il dipartimento che si occupa di politiche territoriali stenta ad avviare il proprio complesso lavoro. Si sta pensando giustamente di rivedere gli assetti di Sviluppo Italia, ma non è chiaro ancora come e quando si procederà all’avvio di programmi articolati, soprattutto a favore delle regioni più svantaggiate del Sud. Il forte e opportuno decentramento di poteri alle regioni dovrà essere accompagnato al più presto da un forte sostegno tecnico.

Le grandi scelte, comunque, dovrebbero essere, se non imminenti, per lo meno vicine nel tempo. Esse riguarderanno principalmente:

– il mantenimento del carattere strategico dei fondi europei 2001-2006. Fondi, come ci impone l’Unione europea, addizionali; orientati più a misure di contesto che a sostegni diretti; programmati e gestiti direttamente dalle Regioni, che su questa programmazione dovranno riformare assetti amministrativi e procedure, per saper spendere presto ma soprattutto bene;

– per quanto riguarda la ripartizione degli investimenti pubblici, il governo ha confermato nel suo Documento di programmazione economica e finanziaria la scelta di destinare alle regioni meridionali il 45 per cento delle risorse per investimenti pubblici. Terrà fede a questo intendimento? Dove si faranno le grandi opere, con immediato finanziamento? Si realizzerà la grande azione annunciata sulle risorse idriche?

– infine, il modello di federalismo. Interventi come il decreto sul finanziamento della sanità possono creare, come ha dimostrato la Banca d’Italia, forti penalizzazioni per le regioni deboli. L’assenza del fondo perequativo in alcune ipotesi di modifica costituzionale è allarmante. Davvero il modello è un Paese dualista, con salari molto differenziati, e con un conseguente rafforzamento delle migrazioni di lavoro qualificato dal Sud al Nord? Questo non farebbe che proiettare nel Terzo millennio, complicandolo, un problema che è ormai troppo antico per essere ancora sopportato. Si badi bene: nessuno chiede finanziamenti del tipo ormai obsoleto Cassa per il Mezzogiorno, ma si reclamano condizioni di infrastrutture e di servizi atti a sollecitare, insieme con lo snellimento delle pratiche burocratiche, l’iniziativa privata, l’imprenditorialità individuale, che nelle regioni meridionali (in alcune molto più che in altre) hanno rivelato risorse e capacità insospettate. E’ stato grazie alla valorizzazione di queste risorse e dei talenti presenti nel Mezzogiorno se alcune aree regionali sono venute fuori dal ritmo tradizionalmente lento del Sud, dal suo diverso fuso orario, e si sono messe al passo con i tempi dell’elettronica e della telematica.

Da parte delle regioni meridionali, specularmente, è necessario attivare centri di progettazione, a livello di responsabilità governatoriale, in grado di attrarre finanziamenti europei, integrati con quelli locali, per favorire sviluppo e occupazione. Non ci stancheremo mai di sostenere che è dalle forze endogene che debbono essere espressi sforzo ideativo, progettualità operativa e coordinamento interareale. Tra non molto, fra l’altro, potrebbero fare il loro ingresso in Ue altri Paesi, dell’Est europeo, che presentano parametri di arretratezza tali, da escludere ogni possibilità di intervento comunitario a favore di qualunque altra regione del Sud d’Italia. Penso alla Romania, all’Ungheria, alla Polonia, in particolare, Stati che approfitterebbero immediatamente dei benefìci previsti per il recupero socio-economico delle aree depresse, e che finirebbero per togliere questo prezioso ossigeno all’Italia.
I tempi stringono, e vince chi ha maggior velocità di spinta e di corsa. L’esperienza della Spagna dovrebbe pur insegnarci qualcosa. Per non parlare del Portogallo, che, come è stato scritto, riesce a costruire un ponte sul Tago nello stesso arco di tempo che in Italia si spende per rimettere a posto un marciapiede di poche decine di metri. Speriamo che mutino ritmi, mentalità e voglia di fare. Se non altro, per poter negare la risposta quasi tautologica che da tempo si dà ormai alla domanda: – Ma c’è qualcosa di buono nella speranza?

   
   
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