Marzo 2002

LE “FORME” DEL DENARO

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Fantastiche monete
Furio Beltrami - Edda Marini
 
 

 

 

 

 

Nell’Egitto
conquistato dai
romani, nel quarto secolo dopo Cristo,
si fusero monete
di vetro, perché
scarseggiavano
i metalli.

 

 

Siamo stati dapprima del tutto indifferenti, poi un po’ preoccupati, infine angosciati per la messa in soffitta delle monete nazionali e per l’ingresso dell’euro. Era (ed è tuttora) un problema di “far di conto”, per abituarci alla nuova divisa adottata dalla maggior parte dei Paesi dell’Ue, oltre che da San Marino e dalla Città del Vaticano. Eppure, la storia dimostra che le monete sono cambiate continuamente, anche nella forma e nei materiali che le componevano, con trasformazioni che in non pochi casi sono state davvero straordinarie. C’è stata persino una “fase pre-monetale”, che precedette cioè l’uso delle monete, quando non esistevano le tre condizioni, i tre requisiti di base delle attuali monete: che dovevano essere “segnate”, frazionabili e agevolmente trasportabili.

L’uomo ha utilizzato di tutto, per i suoi scambi, prima di giungere all’invenzione della moneta: semi, conchiglie, pietre, metalli, terrecotte, e molte di queste soluzioni sono rimaste in vigore fin quasi ai nostri giorni. Gli esperti ritengono che questa proiezione fino al XX secolo sia dovuta al fatto che le monete hanno un valore puramente economico, mentre le altre avevano (e in alcuni casi ancora hanno) “un surplus di valore” legato a fattori “morali”, tuttavia poco adatti in tempi di globalizzazione. Si tenga inoltre conto che in alcune aree impervie del pianeta, dall’Amazzonia al Borneo, fra le tribù che non hanno, o hanno rifiutato contatti con la nostra civiltà, vigono ancora sistemi di baratto, che in pratica non conoscono uso e funzioni delle monete, e sia pure delle fantastiche monete “inventate” dall’uomo per i suoi traffici e per le sue compravendite.
Furono delle goccioline di elettro, vale a dire di oro e d’argento fusi, a rappresentare le prime monete del mondo classico. Ogni gocciolina valeva una moneta. Fino a quando qualcuno, in Anatolia (poi Asia Minore, infine Turchia), pensò di versare diverse goccioline insieme, fino a formare una piastrellina (quasi sempre irregolarmente ovale) sulla quale impresse un segno per certificare un peso standard, e dunque garantire il valore-oro/elettro. Venne creato in questo modo, nel 610 avanti Cristo, lo “statere”.

Non molto tempo dopo, un certo Faneos (probabilmente un mercante di Mileto, oppure di Efeso) si fece delle monete personali, imprimendo sulle due facce del dischetto metallico, rispettivamente, un segno cruciforme e la figura di un cervo accompagnato dall’iscrizione “Io sono il simbolo di Faneos”: che era come dire che lui personalmente garantiva peso e valore dello statere (in greco, statèr, da cui poi deriverà il termine “stadera”, il noto strumento per pesare). Nacque così la prima, vera moneta.
Fino a quel momento, infatti, gli abitanti dell’Anatolia avevano usato come moneta base certi spiedi di ferro di peso standardizzato che, rappresentando ciascuno l’unità monetaria minima, venivano utilizzati a mazzetti. Con l’invenzione dello statere, gli spiedi caddero immediatamente in disuso, lasciandoci soltanto il nome (“obolo”) per indicare una moneta di scarso valore, e, in traslato, la moneta data con fini caritatevoli.
Trasferiamoci nei mari d’Oriente, anzi dell’Estremo Oriente. Lucente, splendida, e con richiami sessuali nella forma, la conchiglia cauri è stata la più antica e la più diffusa moneta del mondo. Furono i nostri antenati preistorici a notare la somiglianza singolare tra il cauri e l’anatomia femminile. E ne rimasero tanto affascinati, da farne un oggetto-simbolo: lo utilizzarono per farne collane e ornamento degli abiti e per gli scambi anche con regioni lontanissime dal mare. Già allora, comunque, perché non vi fossero dei privilegiati (gli uomini contigui alle coste marine, favoriti rispetto a tutti gli altri) nacquero sistemi di controllo dell’economia dei cauri. Secondo gli etnologi, infatti, in un’isola del Pacifico soltanto le conchiglie che venivano raccolte dal re su una spiaggia particolare e in una speciale occasione cerimoniale avevano valore di moneta. Tutti gli altri cauri, raccolti in spiagge diverse, non avevano lo stesso valore. Ma come distinguere i “cauri reali” da tutti gli altri? Ipotesi: dal momento che esistono varie specie, molto probabilmente il re ne sceglieva un tipo particolare. I primi europei che ne vennero a conoscenza, notando la somiglianza dei cauri col sesso della scrofa, lo definirono “porcellona”, nome che affibbiarono anche a tazze e piatti lucenti come i cauri. Da qui, il termine “porcellana”.

«I Maya le considerano e le tengono nel medesimo conto e stima in cui i cristiani tengono oro e moneta, poiché queste mandorle sono tali da poterci comprare qualunque cosa»: così il cronista spagnolo Oviedo, che ci informa sull’impiego come monete dei semi di cacao, con i quali i popoli dell’America tropicale precolombiana preparavano anche una gradevole bevanda zuccherina (“kakaw” in lingua maya significa “cioccolata”). Notazione da sottolineare: il pericolo di inflazione dovuto a un eccesso di produzione di tali semi veniva bilanciato proprio dalla bivalenza del prodotto che consentiva di togliere dalla circolazione le eccedenze, trasformandole in cioccolata. Il deterioramento naturale, poi, impediva l’accumulo eccessivo del prodotto, mantenendo abbastanza costante il valore corrente dei semi in circolazione monetaria. La sua gran diffusione costrinse Cortés, conquistatore dell’impero azteco, a pagare le sue truppe con quei semi. Tra i Maya dell’altopiano del Guatemala, i semi di cacao vennero utilizzati come moneta fino agli inizi del XX secolo.
Le monete più sorprendenti sono quelle in pietra dell’isola di Yap, nella Micronesia dell’Ovest: dischi litici forati al centro, con un diametro variabile da cinque centimetri a più di tre metri. Per poterne disporre, gli uomini navigavano in canoa fino all’arcipelago di Palau (400 chilometri di distanza) dove c’erano cave di aragonite. Il valore, oltre che dalle dimensioni, era determinato dalla qualità delle pietre, dal lavoro per coniarle, dai pericoli corsi trasportandole via mare, persino dal prestigio del proprietario. Se le pietre-moneta affondavano durante il viaggio, le si riteneva sempre di proprietà di chi le aveva perdute. Sono state di uso corrente fino al 1930. Erano utilizzate per gli scambi commerciali, e oggi come dote, per l’acquisto di terreni, per appianare questioni in famiglia. E’ vietato esportarle senza il consenso del capoclan. I collezionisti le pagano da uno a dieci milioni di lire, secondo le dimensioni.
Altre monete eccentriche. Presso le popolazioni Poke, in Zaire, se ne usavano a forma di spada, lunghe anche oltre un metro, come “monete matrimoniali”: erano offerte ai genitori nella speranza di ottenere in moglie una loro figlia. Solo votive, nel primo secolo avanti Cristo, le monete romane a forma di coscia di maiale, con i ritratti di Augusto e di Agrippa. Monete cinesi erano a forma di spada, di zappa, di sella, circolate fino al 1930. Asce-moneta, cioè sottili lamine di rame a forma di ascia, vennero usate dalle popolazioni precolombiane dell’Ecuador in epoca incaica. Le si univa anche in mazzetti, alcuni dei quali sono stati rinvenuti nelle tombe, riportando alla nostra memoria l’obolo che in epoca romana veniva posto in bocca ai defunti perché potessero pagare Caronte traghettatore nell’aldilà.

Le monete coniate in stato di necessità, evidentemente in periodi e fasi di emergenza. Nell’Egitto conquistato dai romani, nel quarto secolo dopo Cristo, si fusero monete di vetro, perché scarseggiavano i metalli. Stesso materiale fu usato in Libano: monete di colore verde-azzurro, oppure rosso rubino. Meno preziose quelle di terracotta rossastra prodotte in Germania al tempo di Weimar (1925-‘28), quando la grande depressione economica rese introvabile il metallo. Brillanti monete di porcellana circolarono nello Stato tedesco di Meissen, alla fine del XVII secolo, per fare invidia ai Paesi vicini che non riuscivano ancora a produrla. E lasciamo da parte gli “assegnini” italiani e persino le “caramelle Rossana” dati in resto ovunque, e ovunque accettati come forme di pagamento, quando c’era penuria di monete spicciole.
Veniamo, invece, ai trucchi partenopei. Oltre all’assillo della falsificazione, che è problema planetario, a Napoli c’era un’incognita in più: si “grattavano” i bordi delle monete, per sottrarre metallo prezioso. Così si alterava il valore nominale, squilibrato rispetto a quello reale. Fino a che Filippo IV, re di Spagna e di Napoli, nella prima metà del 1600 ideò una moneta d’argento “a consumo”: cioè una moneta con due cerchi concentrici, con incisi i rispettivi valori: “Vale dieci grani” e “Vale cinque grani”. Erano frazioni del “carlino”, moneta mai trovata integra, ma soltanto limata.

   
   
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