Marzo 2002

FINE DI UN MITO DEL NOVECENTO

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Ciminiera addio
Edoardo Damiani  
 
 

 

 

 

 

I ruderi
delle cattedrali
nel deserto,
e le vicende
delle fabbriche della morte stanno oggi
a testimoniare
il prezzo pagato
a quelle scelte.

 

 

Esattamente fino al 1973 la ricerca scientifica non aveva evidenziato la tossicità elevata del cloruro di vinile. Nella sentenza di assoluzione del Tribunale di Venezia questo è stato un passaggio-chiave. Il Presidente ha indicato il 1973, appunto, come uno spartiacque tra il regno dell'inconsapevolezza e dell’innocenza e l’avvento della consapevolezza, della responsabilità e della colpa. Senza rendersene conto, il giudice ha copiato lo storico. Per Charles Maier, infatti, il Novecento comincia nella seconda metà dell’Ottocento e finisce proprio in quel ‘73 in cui moriva il primo di quei 157 operai del Petrolchimico di Porto Marghera, Ennio Simonetto, un ragazzo grande e forte che crollò a terra in un mare di sangue.
“Secolo delle ciminiere”, lo chiama Maier. Non le guerre, non i totalitarismi, ma l’industria che funzionava con grandi ciminiere fumanti è il cuore duro, il nocciolo emblematico del Novecento: dopo il 1973, a quella fase storica è subentrata un’altra, caratterizzata da produzioni industriali in cui la fabbrica diventa laboratorio, con produzioni di tipo elettronico più che a carbone «o con altre energie che fumano».
Prese insieme, la sentenza del giudice e la periodizzazione dello storico ci suggeriscono una verità sconcertante e apparentemente paradossale. Fino al ‘73, ai fumi e alle fabbriche si guardava come a un fenomeno intrinsecamente positivo, che andava solo lasciato espandere, portando ovunque il benessere e la tranquillità sociale. Anzi, non era nei campi dell’agire politico e dell’ideologia che si ritrovava il segno distintivo del XX secolo, ma proprio nella generalizzazione alla totalità delle relazioni umane dei metodi e dei valori della produzione industriale, diventati il centro motore della vita sociale.
Il sistema di fabbrica sfondava le barriere ideologiche e trovava adesioni convinte sia nello sfrenato industrialismo del capitalismo occidentale sia nelle grigie file della nomenklatura sovietica. Marghera sorse nel lontano 1917, si affermò sotto il regime fascista, conobbe il suo massimo sviluppo negli anni del miracolo economico: tre assetti istituzionali diversi (lo Stato liberale, il Fascismo, l’Italia repubblicana), tre “rotture” politiche, ma una sostanziale continuità; per tutti, il modello vincente era quello dello sviluppo industriale. L’Italia, come ultima arrivata, sceglieva quella strada con la voracità e con l’impazienza dei neofiti. Un’intera classe dirigente – a destra, come a sinistra – guardò all’industrializzazione come alla soluzione radicale per i nostri problemi, a partire dal Mezzogiorno, che si voleva affollare delle mitiche “tute blu”. Per la sinistra era necessario sconfiggere l’arretratezza e sviluppare le forze produttive: più operai, più organizzazione, più forza politica. Per gli industriali, si trattava di cogliere al volo il flusso di denaro pubblico che veniva indirizzato verso i “poli di sviluppo”. Per il partito di maggioranza relativa e per i suoi governi era l’occasione per insediare allo sbocco dei rivoli di spesa pubblica una nuova e rampante classe politica, alternativa ai vecchi “mediatori” dell’immediato dopoguerra. I ruderi delle “cattedrali nel deserto”, (Gioia Tauro, la Sir di Porto Torres, ecc.) e le vicende delle fabbriche della morte (l’Ipca di Ciriè, l’Acna di Cengio, Seveso) emerse successivamente, stanno oggi a testimoniare il prezzo pagato a quelle scelte.
Per gli stessi operai entrare nelle “fabbriche dei fumi” era un traguardo, il raggiungimento di uno status che non era soltanto la sicurezza economica. La centralità della fabbrica, la sua capacità di condizionare non solo il sistema produttivo, ma anche l’esistenza collettiva delle società industrializzate, aveva un’immediata ripercussione sulla rilevanza del loro ruolo sociale. Inseriti nel cuore della produzione, essi avevano un peso contrattuale di gran lunga superiore a quello delle altre categorie dei lavoratori. In tutti i Paesi industrializzati (in Italia a partire dal 1961) erano non soltanto la categoria più numerosa, ma anche quella che contava di più sul piano delle decisioni politiche. Compatti, organizzati, in grado di incidere efficacemente con le proprie lotte sulla macchina produttiva, rappresentarono nello stesso tempo il motore che alimentò il nostro sviluppo e anche l’antidoto alle sue degenerazioni.
Erano cinquantamila a Marghera, nel momento di massima espansione degli stabilimenti. Oggi, sono di gran lunga meno e sono anche molto soli. Anche le 157 vittime, quando cominciarono a lavorare al Petrolchimico, non pensavano certo di cominciare a morire. Si sapeva che c’erano dei rischi ad operare in quei reparti e a maneggiare quelle sostanze. Ma erano rischi che valeva la pena di correre, compensati com’erano dal protagonismo politico e da un profondissimo senso di appartenenza. E poi, quei rischi si potevano monetizzare. Così si diceva allora. Gli scienziati tacevano, la proprietà rassicurava e minimizzava, i sindacati monetizzavano. Il conflitto sindacale, anche nelle sue punte più aspre, si fermava comunque alle soglie dell’intangibilità del modello industriale, delle sue regole, delle sue compatibilità, dell’intrinseca positività dei fumi e delle stesse ciminiere. I primi dibattiti sulla salute, le prime lotte contro la nocività sgorgarono dall’insofferenza e dalla radicalità dei gruppi extraparlamentari e di settori minoritari del sindacato (di matrice prevalentemente cattolica).
Si era già proprio negli anni ‘70, usati come periodizzazione dal Tribunale veneziano, e cominciava un’altra storia. Il declino della fabbrica fordista tendeva a ridimensionare drasticamente la “centralità operaia”. Nella sinistra, la convivenza tra la vecchia anima industrialista e la nuova anima ambientalista si fece immediatamente difficile. Dieci anni dopo, in quel che restava della Val Bormida, sarà l’Acna di Cengio a fotografare questa spaccatura dura e impietosa, con i picchetti operai chiamati a difendere insieme la fabbrica che uccideva la Valle e il proprio posto di lavoro. Più che una lotta, era una muta testimonianza di pura sopravvivenza.
Oggi, i commenti degli operai del Petrolchimico appaiono schivi e quasi reticenti. La loro “centralità” si è smarrita con la fine del secolo. Resta l’afasia, e resta la grande paura della disoccupazione, insieme con l’angoscia per una decisione della magistratura che chiama in causa non soltanto le loro condizioni materiali, ma direttamente e senza alcuna mediazione le loro stesse condizioni di vita.

   
   
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