Marzo 2002

LA DOPPIA MORALE NELL’ERA DELLA GLOBALIZZAZIONE

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Le gambe e i trampoli
dello zio Tom
Claudio Alemanno  
 
 

 

 

Non si cerca un
vaccino per curare un capitalismo
deviante, ma una bussola per orientare la dialettica
dei futuri rapporti economici e politici.

 

 

«Esiste una morale dei signori e una morale degli schiavi – mi affretto ad aggiungere che in tutte le civiltà superiori e più ibride risultano evidenti anche tentativi di mediazione tra queste due morali e, ancor più frequentemente, la confusione dell’una nell’altra, nonché un fraintendimento reciproco, anzi talora il loro aspro confronto – persino nello stesso uomo, dentro la stessa anima». (F. W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, IX, 260).
E’ un pensiero ancora attuale ai tempi nostri. Tempi di neotribalismo, fazioni, divisioni e conflitti animati da un ritorno del fondamentalismo religioso che copre noti e meno noti interessi sottostanti. Tempi di terrorismo e norme repressive che comportano gravi limitazioni per le garanzie individuali (si pensi ai prigionieri di Guantanamo, in attesa di processo).
E’ il nuovo radicalismo che avanza nel segno della globalizzazione. Ieri il crollo del Muro di Berlino. Oggi il crollo delle Torri Gemelle di Manhattan e la sconfitta dell’Afghanistan talebano. Simboli diversi rapidamente inceneriti. Vecchi equilibri politici infranti che hanno messo in evidenza un vuoto poco nobile di realpolitik. Il pensiero unico post-comunista, la nuova cultura imperiale, lungi dal produrre omologazione, produce tensioni e instabilità, guerre note e guerre ignote che il profilo economico della globalizzazione da solo non riesce ad assorbire (quello organizzativo è tutto da disegnare ed è proprio questo vuoto a creare il clima del transitorio che non evolve). Esistono Stati perennemente abituati al proscenio e Stati perennemente esiliati nel sottoscala della geopolitica, popoli ancora alla ricerca di un livello minimo di dignità statuale.
Non c’è una logica in questa ripartizione ma solo l’esito di relazioni internazionali alimentate da culture e consuetudini di direttorio. Così la “normalità” occidentale spesso sconfina nella prevaricazione offrendo nuove ragioni alla doppia morale di Nietzsche. L’anagrafe dei ricchi viene ancora letta come fonte di peccato. Ma se non si potrà mai appaiare il diavolo all’acqua santa, si potrà almeno ridurre l’area delle reciproche tentazioni.

La rappresentanza tra Stati è chiaramente qualcosa di diverso dalla rappresentanza negli Stati, ma di fronte alla sclerosi progressiva dell’entità statale anche la rappresentanza internazionale diventa più incisiva se ancorata direttamente alla base popolare. Alla sovranità statale si affianca e si aggiunge il peso più consistente della sovranità sociale, ampliando la quota di democrazia diretta nell’area della democrazia rappresentativa. E’ un’antica e nuova questione di dosaggio. In fondo nel concetto di sovranità è implicito il compromesso tra l’uomo totalizzante e lo Stato totalizzante (il giusto equilibrio si ottiene quando l’uno non prevale sull’altro). Parallelamente anche il modello di rappresentanza è in continuo divenire, in ragione delle diverse molecole di umanità che rappresenta, soprattutto quando le condizioni del mutamento sono molto rapide, sorrette da un cervello collettivo (Internet) che si affianca e interagisce con il cervello individuale. Ciò determina traumatici mutamenti nel rapporto pubblico-privato di cui gli apostoli della politica non sembrano ancora compiutamente consapevoli.
Acquista contorni sempre più definiti il concetto di “individuo sociale” che mette in crisi le categorie tradizionali della politica (sovranità e rappresentanza subordinate alle direttrici che guidano la mercificazione del mondo) e apre prospettive alla ricerca di una nuova identità popolare.
E’ in crisi la visione illuminista di Talleyrand, fondatore della moderna diplomazia francese e continentale.
Le attuali istituzioni internazionali (Onu, Wto, Alleanza atlantica, Fondo monetario, Banca mondiale, la costellazione delle istituzioni europee e di quelle che governano i diversi mercati comuni) danno ogni giorno segnali di palese debolezza. Non è più tempo di arbitraggi e sottili distinguo gattopardeschi. Queste organizzazioni vanno rafforzate allargando l’area democratica del potere gestito e dunque rendendo più collettiva la partecipazione al processo decisionale. Attualmente si fa largo uso del diritto di veto e domina il fascino – talvolta il dirigismo – degli Stati con maggiore partecipazione finanziaria (si dovrebbe andare verso il principio one State-one vote).

Riconoscere una pluralità di livelli di governo e di espressioni di rappresentanza non implica la disgregazione dei governi centrali, l’azzeramento dei loro poteri. Vengono ceduti al livello transnazionale solo quei compiti e quelle funzioni che per la loro caratura internazionale mal si conciliano con gli strumenti di gestione in uso a livello locale e nazionale. Per i politici è un terreno sdrucciolevole dove è facile passare dal ruolo di outsider a quello di cicala imprevidente. Tuttavia il silenzio non paga. Occorre rimodulare in tempi brevi le regole che governano le relazioni internazionali muovendosi lungo la sottile linea di confine che separa il compromesso dalla tutela. La globalizzazione porta all’interdipendenza e dunque a decisioni collettive negli ambiti che hanno una ricaduta sulle singole collettività.
E’ funzionale a questo disegno la necessità di riorganizzare la rete di ambasciate potenziando le ragioni di attrazione e orientamento verso un nuovo modello di sviluppo. In Italia il Presidente Berlusconi parla di rieducazione economica della tecnocrazia diplomatica, inquadrandola tuttavia in una visione mercantile tradizionale, senza proporre alcuna traccia per nuovi cocktails da utilizzare nei percorsi dello sviluppo (l’Italia è al settimo posto mondiale per l’esportazione di manufatti ma occupa il tredicesimo posto per investimenti all’estero e il ventesimo come Paese destinatario di investimenti esteri).
La parola “sviluppo” continua a conservare il fascino dell’ineluttabilità, al punto che per il suo contrario si usa un’altra parola magica: “sottosviluppo”. Sono due terminali di un processo che prevede un’unica opzione possibile: una crescita positiva costante. Con effetti paradossali di freno e condizionamento nelle relazioni internazionali prodotti dall’assenza di dinamiche politiche e dall’andamento ondivago del mercato (l’efficienza non è data da migliore tecnologia e migliori leggi).
Già Aurelio Peccei e il Club di Roma avevano messo in luce negli anni Sessanta i limiti di uno sviluppo basato sulla crescita senza freni, tesi oggi ripresa da più voci sulle due sponde dell’Atlantico (citiamo per l’Europa il tedesco Wolfang Sachs, esponente prestigioso dell’Istituto Wuppertal e lo storico francese Serge Latouche).
Non è casuale che ora si parli più spesso di “sviluppo sostenibile”, di una ricerca complessa tra diverse opzioni compatibili che rende necessaria la mediazione politica. Alcune aree di emergenza hanno caratura palesemente globale.
L’emergenza sociale è palpabile nella violenza che si va accumulando in un modello organizzativo in cui gli have not, gli emarginati, prima vengono affascinati da una possibile partecipazione al banchetto dei ricchi, poi vengono esclusi dal gap tecnologico che frena i loro processi di crescita. Prende forma il delirio delle illusioni perdute, un dramma umano che Jorge Luis Borges definisce «la expresión de la irrealidad». In Africa il griot, colui che tramanda oralmente la storia e le tradizioni, sembra aver perduto lingua e voce. Così accade che chi non ha la vocazione del santo minore subisce il fascino dei proclami rivoluzionari.
L’emergenza ambientale, ampiamente collegata all’uso delle fonti energetiche, è oggetto di continuo allarme sociale. L’industria non può trincerarsi dietro la logica dei bilanci, considerando marginali i costi dell’inquinamento che vengono scaricati per la maggior parte sui bilanci pubblici (ovviamente si rendono necessari incentivi fiscali e creditizi per attivare consorzi industriali dediti alla sperimentazione). Una recente indagine dell’Unione europea ha valutato che ogni litro di benzina bruciato nelle città provoca 0,72 euro (1400 lire) di spesa sanitaria. Comunque, un panorama dettagliato sul deficit ecologico dei vari Paesi è rilevabile dal “Living Planet Report 2000” elaborato dall’Onu e dal WWF Internazionale.
L’emergenza sanitaria, procurata in parte dai danni ambientali, è drammaticamente palpabile con altre motivazioni nelle aree del sottosviluppo, dove vive circa l’80% della popolazione mondiale. Ogni giorno una persona su quattro muore di Aids, malaria, tubercolosi, diarrea.
L’emergenza finanziaria, fattore di notevole turbolenza per le Borse e i mercati, crea spesso drammatici casi d’insolvenza (Sud-Est asiatico, America Latina). I Paesi in crisi fanno ricorso a prestiti internazionali e ad azioni di salvataggio del Fondo monetario internazionale (Fmi). Ma così facendo si affidano a soffocanti consuetudini assistenziali, non attivano solidi mercati finanziari interni e si allontanano dalla formula Trade not Aid, commercio non aiuti. Sono poi costretti a subire procedure di stabilizzazione che non agevolano la crescita, essendo ispirate da ricette fiscali restrittive che si preoccupano di raffreddare l’inflazione, senza pensare alla disoccupazione e ai rischi sociali connessi. Queste crisi ricorrenti mettono in evidenza la necessità di una riforma del sistema finanziario globale, dando priorità ad una riforma incisiva del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale (vanno definite le rispettive responsabilità; la loro funzione originaria era quella di proteggere la stabilità dell’economia mondiale concedendo prestiti a breve termine ai governi membri in stato di emergenza. Adesso hanno assunto prevalenti compiti di salvataggio e si nota un’eccessiva dipendenza dei Paesi in via di sviluppo da queste istituzioni).
E’ difficile tuttavia invocare soluzioni forti con un lessico debole. Nello stagno delle relazioni internazionali old fashion sono state lanciate di recente preziose pietruzze con l’intento di modificare lo schema consolidato delle alleanze. Ci riferiamo all’iniziativa del Presidente Bush di rompere, in occasione della guerra al terrorismo, gli schemi di contrapposizione frontale (Occidente contro Oriente, cristiani contro islamici) preferendo alleanze asimmetriche, con l’inclusione di alcuni Paesi-reclute nella nuova mappa geopolitica che si cerca di accreditare (Pakistan, Cina e altre nazioni). Iniziative altrettanto asimmetriche, di notevole spessore politico, sono riscontrabili nell’invito di Giovanni Paolo II ai cattolici di digiunare insieme agli islamici nell’ultimo giorno del Ramadan e nella “giornata di preghiera per la pace” che quest’anno ha coinvolto dodici confessioni religiose (la prima giornata di Assisi è del 1986).
Si fa strada nei Palazzi che contano l’idea di un mondo multipolare in cui il dialogo sulle complessità va condotto su una molteplicità di livelli (diplomatico, politico, economico, religioso, culturale). Si riscopre l’attualità dei comportamenti asimmetrici che in passato aveva prodotto la cultura mediterranea di Mattei, Moro, Andreotti, Craxi. Comportamenti che erano stati contrastati o guardati con sospetto, anche se erano riusciti a recuperare al dialogo politico larga parte del mondo arabo (la cultura mediterranea ignora le frontiere).

La ricerca di audience globale ha rotto gli schemi e le simmetrie in cui finora erano state imbrigliate le relazioni internazionali. Faticosamente prende forma un dialogo meno formale, più sensibile alle diverse realtà sociali, orientato verso l’attuazione di obiettivi comuni. Si riduce l’area degli scontri tra visioni contrapposte (destra e sinistra, capitalismo e statalismo, blocchi filo-occidentali e blocchi filo-orientali). Il massimalismo ideologico cede il passo alla ricerca di logiche utilitaristiche che modificano il quadro internazionale dei valori e delle gerarchie. Nel nuovo dialogo sulle complessità resta sempre in primo piano la violazione dei diritti umani. C’è il rischio che su questo e altri argomenti prioritari per la qualità della vita (si pensi alla tutela dell’ambiente), nell’era della comunicazione globale, si parli molto senza dirsi nulla. Ma, abbattendo gradatamente gli steccati, saremo tutti chiamati a tradurre in comportamenti concreti la massima di Martin Lutero secondo cui «i pensieri non pagano dazio».
E’ implicita l’esigenza di dover sdoganare le differenze nel dibattito politico, salvaguardando le identità culturali. Il dialogo in questo modo valorizza anche nuove professionalità. Informatici, matematici, statistici, esperti della teoria del caos vengono utilizzati ampiamente per definire percorsi simulati, con relativi aggiornamenti. Il prestigio di una nazione si collega sempre più alla sua capacità di prendere decisioni sofisticate in tempo reale e la sua potenza, più che in coraggio e forza militare, si misura in Mtops, unità di misura della velocità del computer. Il post-colonialismo ha generato molti Stati evanescenti ma le emergenze attuali rafforzano la loro caratura istituzionale per cui, una volta sparigliate le vecchie alleanze, occorre trovare occasioni di dialogo che li tolgano dall’isolamento e livelli di organizzazione politica in cui possano esprimersi. Per molte popolazioni resta ancora difficile uscire dalla poesia senza entrare nei racconti medioevali.
Tuttavia non bisogna sciupare i timidi segnali che fanno pensare ad un nuovo clima “politicamente possibile”, all’avvio di nuove relazioni internazionali capaci di rottamare il vecchio paradigma della crescita. Anche l’euro, dopo un lungo parcheggio, da “moneta esperanto” ha assunto visibilità di moneta reale. Non si cerca un vaccino per curare un capitalismo deviante, ma una bussola per orientare la dialettica dei futuri rapporti economici e politici.
Resta comunque attuale una domanda ricorrente tra sociologi ed economisti. L’individualismo etico riuscirà a prevalere sull’individualismo mafioso?

Nota bibliografica

Per saperne di più si possono consultare alcuni recenti contributi:
– Il capitale, Edizioni “Il Sole 24 Ore”, Saggi di Robert Solow, Gary Becker, Elio Catania, Marco Onado, Carlo Triglia.
– Guido Montani, Il governo della globalizzazione – Economia e politica dell’integrazione sovranazionale, Lacaita Editore, Roma, 2001.
– Filippo Andreatta, Mercanti e Guerrieri. Interdipendenza economica e politica internazionale, il Mulino, Bologna, 2002.

 

   
   
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