Marzo 2002

L’EUROPA UTILE

Indietro
Tutti eurotrotters?
Mario Pinzauti  
 
 

 

 

Per fare
l’eurotrotter, per lo studio, il lavoro,
la residenza, ci vuole preparazione
e ci vuole coraggio.
Un milione
di europei ha già
dimostrato di avere queste doti.

 

 

“Europa amica”, “Europa dei cittadini”, “Europa in linea”: sono, questi, alcuni dei titoli dei programmi con cui, si può dire, l’Unione europea tende la mano ai 376 milioni e 455 mila di uomini e donne che, secondo le ultime stime di Eurostat, costituiscono la popolazione dei 15 Paesi di cui è composta. Con questi programmi, diffusi via Internet, con spot televisivi e radiofonici, pubblicazioni varie, l’Unione vuole dimostrare di essere non solo un grande progetto politico ed economico (la comunità oggi di 15 Stati membri e in un prossimo futuro allargata ad altri 12-13 Paesi, l’euro, eccetera) ma anche un efficace strumento per migliorare le condizioni di vita dei suoi cittadini.
Ma sta avendo successo quest’operazione promozionale? Sì e no. Secondo dati recenti di Eurobarometro, si è ridotto a un misero 13 per cento del totale il numero degli europei che non gradiscono la partecipazione del proprio Paese all’Unione. Ma le percentuali di dissenso salgono se le indagini si spostano dall’adesione generica ai particolari del rapporto di fiducia (o di sfiducia) tra l’Europa e i suoi cittadini. Alla fine di ottobre dell’anno passato, ad esempio, ancora un terzo degli abitanti adulti di Eurolandia (l’area dei 12 Paesi in cui è appena entrato in circolazione l’euro) considerava come una iattura il vicinissimo avvento della moneta unica. A questo dato, pure fornito da Eurobarometro, se ne aggiungevano altri non meno preoccupanti. Ben il 40 per cento tra gli abitanti dell’Unione non si sentivano cittadini europei. Il 31 per cento dichiarava di ritenere che l’adesione all’Unione avesse portato al loro Paese e a loro stessi più svantaggi che vantaggi. Il 34 per cento rispondeva “poco o niente” alla domanda su che cosa, di positivo, avesse fatto l’Unione dalla sua nascita (nel ‘58, con l’entrata in vigore dei trattati di Roma) fino ai nostri giorni.

I critici, anche se minoritari, sono dunque un buon numero. Ma a torto. Perché è fuori dubbio che l’Unione europea è una somma di molti risultati positivi raggiunti e di altri promessi per il futuro. Da quando esiste, assicura la pace in un’area, quella in cui si collocano i 15 Paesi che la compongono, dove per secoli e millenni si sono combattute guerre a ripetizione. E’ sempre più spesso un fattore di equilibrio internazionale. Sta unendosi economicamente (tra l’altro con l’euro già in circolazione in 12 Paesi). Ultimo, ma non minore: è impegnata per migliorare le condizioni di vita dei suoi cittadini. E’ dunque anche utile.
Dell’Europa utile abbiamo già parlato nei nostri precedenti articoli pubblicati su questa Rivista, segnalando, tra l’altro, quanto, da parte dell’Unione, viene fatto a tutela dei consumatori, per sfruttare sempre più e meglio le risorse naturali (quelle offerte dal mare, ad esempio), per portare il benessere in aree che, come molte regioni montagnose, fino a tempi recenti erano condannate all’arretratezza. Continuiamo il discorso sullo stesso argomento occupandoci, su questo numero, delle iniziative dell’Unione in tema di mobilità, cioè, precisiamo, per rendere possibile ai cittadini europei che lo desiderano di lavorare, studiare, trasferirsi in un Paese diverso da quello dove hanno la loro abituale residenza.
Sulla carta questa facoltà è operante da nove anni, da quando, con l’istituzione – dal primo gennaio ‘93 – del Mercato Unico Europeo, è stato riconosciuto a tutti i cittadini dei 15 Paesi il diritto di scegliere all’interno dell’Europa Unitaria il luogo dove lavorare, studiare, risiedere. Ma quanti e come hanno utilizzato quest’opportunità? Non molti, ma neppure pochissimi. Detto in altre parole, l’Europa della mobilità nel campo del lavoro, dello studio e della residenza è partita: ma con lentezza e anche qualche incertezza, dovute peraltro, la prima e la seconda, a una serie di cause che sarà possibile – se lo si vorrà – rimuovere almeno in buona parte, rendendo realizzabili, se questo avverrà, migliori risultati in un prossimo avvenire.

In attesa che questo secondo tempo arrivi, vediamo intanto alcuni dei risultati già raggiunti. Nel periodo 1987-1999, grazie a una serie di programmi europei – Socrates, Leonardo da Vinci, Gioventù, Marie Curie, tra gli altri – più di un milione di giovani, insegnanti, ricercatori e addetti alla formazione hanno fatto esperienze di studio, di tirocinio, di specializzazione professionale, in taluni casi anche di lavoro in Paesi europei diversi da quello dove risiedono. Alcune altre centinaia di migliaia di persone appartenenti a queste categorie di cittadini (i dati precisi non sono ancora disponibili) hanno avuto l’opportunità di fare analoghe esperienze nel 2000 e nel 2001.
Lette senza fare confronti, queste cifre – 1 milione più alcune altre centinaia di migliaia – possono dare l’impressione di un notevole successo. Quest’impressione però si modifica se accanto ai dati della mobilità si mette quello del totale delle persone teoricamente coinvolte, gli oltre 376 milioni di uomini e donne che costituiscono la popolazione dell’Unione Europea. Se lo si fa, risulta che i fruitori dell’offerta di mobilità sono stati 1 ogni 376 o 374-375, lo 0,3 per cento; o poco più se si mettono nel conto anche le decine di migliaia di persone (il dato preciso, pure in questo caso, non è ancora noto) che, per iniziativa dei singoli interessati, si sono trasferiti, per periodi più o meno lunghi, in altri Paesi europei.
Poco: anche se il bilancio sui primi anni della mobilità europea non si misura soltanto con i numeri degli spostamenti per lavoro, studio, cambio di residenza. Secondo fonti della Commissione Europea i giovani che hanno fatto un’esperienza di studio in un Paese diverso da quello di abituale residenza quando tornano in patria hanno probabilità maggiori (rispetto ai loro coetanei) di trovare rapidamente un’occupazione e in qualche caso hanno buone chances per intraprendere carriere in organismi internazionali, quelli europei compresi. Le imprese, le stesse istituzioni pubbliche hanno fame di ricercatori. 8.600, con altrettante borse di studio “Marie Curie”, saranno forniti dall’Unione europea entro la fine di quest’anno. Testimonianze raccolte dai mezzi d’informazione, dalla stessa Commissione europea documentano che in un certo numero di casi – non molti per la verità – giovani disoccupati hanno trovato, in altra zona dell’Unione europea, il tipo di lavoro che avevano inutilmente cercato nel loro Paese.
Pur tenendo d’occhio, per un giudizio complessivo, l’insieme di questi elementi, resta il fatto che numericamente il progetto mobilità non ha dato finora grandi risultati. Avviene per una serie di ragioni, tutte degne di attenzione. In testa, secondo gli esperti della Commissione europea, c’è il fattore psicologico. Tra i giovani – lo dice una ricerca di “Intercultura”, una delle più importanti tra le organizzazioni non pubbliche che, in Italia, da molti anni, organizzano scambi tra studenti europei – sono pochissimi (non più dell’11 per cento) coloro che considerano un soggiorno in un altro Paese dell’Unione come un’utile esperienza di studio. Per il rimanente, la maggioranza, è puro turismo, o piacere di stare con altri giovani.
Fanno riflettere altre notizie, queste riferite a persone che usufruiscono del diritto alla mobilità per ragioni di lavoro. Secondo dati raccolti dalla società NetExpat tra i lavoratori “distaccati” dalle loro aziende, per periodi più o meno lunghi, in altri Paesi dell’Unione, un numero non indifferente (oscilla tra il 15-25 per cento) chiede di tornare a casa prima della scadenza stabilita.
Naturalmente i problemi psicologici non nascono a caso, per capriccio. Sono affiancati, talvolta in modo determinante, da serie difficoltà di carattere pratico. C’è, per ragazzi e adulti, la lontananza dalle famiglie e dagli amici. Ci sono gli ostacoli linguistici. C’è infine, per moltissimi, la delusione per non vedere realizzate, del tutto o in parte, le aspettative che avevano fatto scattare la voglia di partire – per studio o lavoro – verso un altro Paese europeo.
Il 2001 è stato proclamato nell’Unione e in tutti i Paesi che fanno parte del Consiglio d’Europa (sono 47!) “anno europeo delle lingue”. L’iniziativa, articolatasi con un programma intensissimo di manifestazioni, è nata per sollecitare una più diffusa e migliore conoscenza delle lingue. Non sappiamo quali risultati queste manifestazioni abbiano dato o promettano di dare in tempi non troppo lunghi. Certo, il problema è grosso. Specialmente in alcuni Paesi dell’Unione (tra cui l’Italia) la conoscenza delle lingue straniere, compresa la più importante, l’inglese, è poco diffusa e, spesso, superficiale. Nelle stesse istituzioni europee si è costretti a tenere attivo un costosissimo apparato di traduzioni in tutte le lingue ufficiali dell’Unione (sono 11!) e, per qualche documento, anche in due altre lingue, il lussemburghese e l’irlandese.

Il problema linguistico, da risolvere non con i corsi serali o domenicali ma con rimedi radicali – ad esempio, usando espressioni di una lingua straniera già per i giochi delle materne o insegnando in questa lingua alcune materie nelle scuole elementari (lo propone l’“European Language Council”) – è spesso una vera e propria palla al piede per chi, parlando solo l’idioma del proprio Paese, tenta, o vorrebbe tentare, l’avventura della mobilità. Ma non è il solo ostacolo.
C’è la difficoltà, per gli studenti, di ottenere le borse di studio (sono concesse in numero limitato). C’è l’esigenza di integrarle, per far fronte alle spese della trasferta, con sovvenzioni familiari o, se queste non sono possibili, con qualche soldo messo insieme trovando un lavoretto. C’è, restando in argomento di borse di studio, perfino il rischio che in qualche Paese, in applicazione delle norme tributarie locali, si debbano pagare le tasse sui modestissimi contributi ottenuti.
Non finisce qui la lista dei problemi cui si trova di fronte il giovane eurotrotter fruitore di un programma dell’Unione per la mobilità. Per non farla troppo lunga, citiamo solo pochi esempi. Il nostro giovane dovrebbe poter godere di assistenza medica e farmaceutica, di sconti e facilitazioni uguali a quelli di cui usufruiscono i coetanei locali per i trasporti pubblici, i musei, i teatri, gli impianti sportivi. Non sempre avviene. Come non sempre avviene (anche se, per la verità, è più un’eccezione che una regola) che un’esperienza di studio o addirittura un diploma ottenuti in altra parte dell’Unione trovino pieno riconoscimento nel proprio Paese.
E non va tutto liscio o meglio non va sempre tutto liscio (sono in aumento i casi per cui le soluzioni sono rapide e adeguate) per gli eurotrotters di maggiore età, per coloro che si spostano all’interno dell’Unione per seguire corsi di formazione professionale, per fare un’esperienza di tirocinio in un’azienda, per lavorare, per cambiare la propria residenza. Un disoccupato che segue un corso di formazione in altro Paese europeo per migliorare la propria preparazione professionale e avere, quindi, maggiori possibilità di essere assunto in una fabbrica o in un ufficio perde il sussidio che gli è stato concesso perché persona priva di lavoro se resta lontano dalla patria per più di tre mesi, anche se una trasferta più lunga gli è indispensabile per portare a termine l’esperienza offertagli. Inconvenienti, e non da poco, per passare ad altro esempio, si presentano anche per un insegnante che accetta, nel quadro dei programmi europei, di trasferirsi e lavorare, per qualche mese, in un istituto di istruzione di un altro Paese. Ottiene una modesta indennità, ma pochissimi riconoscimenti. Gli può addirittura accadere (in un numero limitato di casi si è verificato) che la sua carriera nel Paese d’origine venga addirittura rallentata.

Dunque, arrivando alla conclusione, per fare l’eurotrotter, per lo studio, il lavoro, la residenza, ci vuole preparazione e ci vuole coraggio. Un milione e qualche centinaio di migliaia di europei ha dimostrato di avere queste doti. E hanno aperto la strada a una quantità notevolmente superiore di candidati alla mobilità, che si metterà certamente in viaggio quando le difficoltà e gli ostacoli verranno rimossi o ridotti: prospettiva, questa, che non è impossibile e probabilmente neppure troppo lontana. Per realizzarla è già al lavoro un gruppo di esperti presieduto da funzionari della Commissione europea e composto da rappresentanti di tutti i 15 Stati dell’Unione. Ogni due anni renderà noti i risultati raggiunti con un documento. Aspettiamo di leggere il prossimo: nella speranza che sia un’altra prova di vitalità e di efficienza dell’Europa utile.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000