Marzo 2002

L’EUROPA DEI NOSTRI FIGLI

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Rinnovarsi
per non morire
Flavio Albini  
 
 

 

 

L’attuale
rischio di stallo
e di involuzione
avviene senza che l’opinione pubblica europea e lo stesso Parlamento europeo
riescano a far sentire
il proprio peso.

 

 

Insieme con le Twin Towers, le Torri Gemelle newyorkesi, i terroristi islamici potrebbero aver colpito frontalmente anche l’integrazione europea. Ciò che si è verificato nelle settimane immediatamente successive all’attentato ha costituito per l’Europa un arretramento di indubbia gravità. Capi di Stato e di governo si sono precipitati a Washington alla spicciolata, credendo con ciò di dimostrare all’alleato americano e alla propria smarrita opinione pubblica una pretesa primogenitura nella solidarietà. Leader politici che hanno organizzato riunioni separate su questioni che riguardavano la sicurezza europea nel suo insieme; proteste per l’esclusione dell’Italia dall’incontro a tre, compiute in nome di una supposta dignità nazionale ferita e non invece, come sarebbe stato imperativo, in nome dell’Unione europea vulnerata. In questo scomposto agitarsi, del tutto vano e inefficace, una sola cosa è stata chiara: che il coordinamento costruito con tanta fatica tra i Paesi dell’Unione europea rischia di sfasciarsi.
Si rendono conto i capi di governo che il loro comportamento può vanificare un’impresa che è nata mirando non solo e non tanto all’unione economica, quanto e prima di tutto all’unione politica? Come non percepiscono che la stessa unione economica e monetaria è in pericolo, se vacilla l’unione politica? E che l’Unione sarà a rischio finché l’impalcatura comunitaria non verrà completata? Come osano i leader europei pregiudicare, in modo forse irreversibile, la sola grande iniziativa – riconosciuta ovunque nel mondo – che l’Europa ha saputo costruire dalle macerie delle due guerre mondiali di cui era stata direttamente responsabile? Come possono i nostri governanti pensare di servire l’interesse dei propri popoli, se rinunciano all’unico strumento davvero in grado di far pesare la voce dei cittadini, cioè i nostri interessi, i nostri valori, nelle questioni di guerra e di pace, di giustizia e di equità che oggi dilaniano il pianeta; e cioè se rinunciano a perseguire in modo coerente l’unificazione politica del Continente?
L’unificazione europea è nata ed è cresciuta nelle crisi. Nella crisi essa può morire. Sarà forse un declino lento, un tramonto dorato in una regione tra le più belle del pianeta. Ma i sintomi premonitori sono allarmanti. Non vi è apparentemente nessuno, tra i leader al governo, che sia oggi disposto a rischiare la sua fortuna politica – come seppero fare, tra gli altri, Schumann, De Gasperi, Kohl – per denunciare concretamente l’inanità di una volontà di potenza nazionale che i cittadini dei nostri Paesi, ben più realisti di loro, già da tempo hanno abbandonato.
Non si osa dichiarare la semplice verità, e cioè che i rimedi istituzionali necessari e sufficienti per portare a termine il lungo cammino dell’Unione sono pochissimi, anche se incisivi. Non si arriva a comprendere e a far comprendere che tali riforme – le riforme istituzionali di cui si discute da anni, girandovi attorno sempre senza costrutto – saranno necessarie domani per non far fallire l’Unione trasformandola di fatto in una zona di libero scambio in seguito all’allargamento a Est, ma sono necessarie già oggi per far fronte alla minaccia del terrorismo.
Le riforme non comportano affatto la fine degli Stati nazionali. Ciò che si richiede è invece l’istituzione di un vero governo europeo nelle questioni non risolubili a livello nazionale né mediante il solo coordinamento intergovernativo. Chi adduce a pretesto dell’immobilismo l’ostilità di alcuni Stati membri dimentica che nel passato le iniziative più importanti dell’integrazione europea (dal Mercato comune alla Moneta unica, dalla politica sociale alla libera circolazione delle persone e delle merci) sono nate proprio dall’impulso di alcuni, non di tutti gli Stati che poi ne hanno usufruito.
L’attuale rischio di stallo e di involuzione avviene senza che l’opinione pubblica europea e lo stesso Parlamento europeo riescano a far sentire il loro peso, che pure è potenzialmente decisivo. Se così sarà anche in avvenire, allora forse bisognerà concludere che la sorte dell’Europa come soggetto di storia è segnata.
Eppure mai come in questo momento (nel Medio ed Estremo Oriente, nei rapporti con l’Islam, in Africa, in America Latina) la presenza effettiva dell’Europa sarebbe necessaria. Il nostro passato prossimo e remoto, con le sue ombre e con le sue luci, le nostre stesse cicatrici, i nostri valori a tutela dei diritti dell’uomo (che sono valori universali), la nostra disponibilità a trasferire quote di sovranità alle Nazioni Unite, la nostra conoscenza senza pari di popoli, di culture, di economie anche lontane dall’Occidente, potrebbero portare un contributo determinante alla trasformazione socio-economica del Terzo Mondo, alla soluzione dei conflitti regionali e all’adozione di politiche davvero lungimiranti per la pace mondiale.
In realtà, sarebbe sufficiente l’iniziativa coraggiosa di un Paese senza il quale l’integrazione europea non potrà mai giungere alla piena realizzazione (la Francia), per raccogliere l’adesione della Germania, dell’Italia, del Benelux, e di altri Paesi sui pochi princìpi davvero imprescindibili, per trasformare un insieme di soggetti impotenti in una vera unione di Stati. Questi princìpi sono: decisioni collegiali assunte a maggioranza sia nel Consiglio europeo che nel Consiglio dei ministri; riequilibrio dei poteri; sussidiarietà. Soltanto questo. Nulla di meno di questo.
Come nei mesi che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale, anche oggi la responsabilità delle classi politiche nazionali europee, ma in modo particolare di chi le guida, è immensa. Se in un futuro non lontano, il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti, l’Europa sarà divenuta una provincia minore del pianeta, ricca soltanto di una storia gloriosa e di cibi raffinati e di stoffe dipinte, la loro cecità sarà giudicata inescusabile. Senza appello. O con remota possibilità di appello.

   
   
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